Quegli stalinisti del 1789

di Amedeo Curatoli

Il secolo appena trascorso si è aperto e chiuso con due eventi assolutamente straordinari: la rivoluzione d’Ottobre (1917) che ha significato il primo tentativo di costruire un sistema post-capitalistico, ed il crollo clamoroso e inaspettato di questo tentativo che trova il suo momento simbolico nell’abbattimento del Muro di Berlino (1989).

Non c’è dubbio che capire l’alba e il tramonto del comunismo russo del 20° secolo sarà oggetto di ricerca storiografica tanto più seria quanto più lontana dal tempo in cui quegli eventi si produssero, ma anche quanto più lontana dalle passioni politiche dei sostenitori e degli avversari del comunismo, passioni suscitate in centinaia di milioni (se non miliardi) di esseri umani.

Però, la consapevolezza che una storiografia di là da venire, inevitabilmente, metterà le cose a posto, nel senso che sgombererà il terreno dalle faziosità e falsificazioni, è una ben magra consolazione: i comunisti esistono ancora, non solo nella nostra opulenta (e capitalistica) Europa occidentale, ma anche, per nostra fortuna, in Cina, nell’ex-Urss, a Cuba e in ogni altra parte del mondo. Toccherà a loro, "aggrottando le sopracciglia", capire il perché della catastrofe e fare un bilancio che escluda, nella misura del possibile, le falsità i pregiudizi e gli stereotipi.

Facendo un passo indietro, alla Rivoluzione francese, si rifletta sul singolare destino storico cui sono andati incontro Robespierre e Danton. Del primo, dopo il Termidoro, furono distrutti con furia devastatrice tutti gli appunti e documenti e si costruì, attraverso una miriade di opuscoli diffamatori, un’immagine assolutamente negativa. Successivamente, anche la Restaurazione ci ha tramandato - di Robespierre - la figura diabolica di un sanguinario. Ma perfino una certa cultura romantica vede in lui un personaggio esangue, oscuro, interprete di una ragione astratta, lontano dal popolo (Gargano). Danton, al contrario, condannato alla ghigliottina con l’accusa di collusione con lo straniero, ha goduto di qualcosa in più di una riabilitazione postuma, se si pensa che nel 1889, durante le celebrazioni del primo centenario della Rivoluzione, gli fu addirittura eretto, nel cuore di Parigi, un grande monumento. A tutt’oggi, invece, non una sola strada della capitale francese è stata dedicata a Robespierre.

Bisogna giungere al ventesimo secolo perché "sia fatta giustizia" sulle due figure storiche: Mathiez ha inoppugnabilmente dimostrato, attraverso una difficile, complessa ma rigorosa ricerca documentaria, non solo che Danton era effettivamente venduto allo straniero, era un traditore della patria, ma anche che Robespierre va scagionato dall’accusa di essere un pervicace sostenitore del Terrore.

Per distruggere Stalin non occorse né la ghigliottina né un Termidoro. Egli morì nel suo letto osannato e venerato come un Grande Re della dinastia Achemenide. "L’Opera di Stalin è immortale, viva la sua causa invincibile!" titolava a tutta pagina l’Unità nel giorno della morte. Ma fu il capo del partito comunista sovietico a denunciarlo come un criminale sanguinario e questo stesso fatto, in qualche modo, deve aver dato credibilità se non addirittura un certo prestigio all’opera di destalinizzazione. Dal culto della personalità alla sua più completa demonizzazione, così, dall’oggi al domani. I comunisti cinesi vi si opposero (essi stessi, successivamente, si sono ben guardati dall’operare una "demaoizzazione"), ma tutti i partiti "fratelli" occidentali passarono, scandalosamente, dal "servo encomio" al coro delle accuse. In Italia, solo il grande storico della letteratura latina Concetto Marchesi ebbe il coraggio di inveire contro Krusciov, definendolo, di fatto, una mezza tacca, indegno di giudicare Stalin. Se Cesare, egli disse, ebbe come detrattore Tacito, a Stalin non è toccato in sorte altro che Krusciov. E bisognava avere davvero il senso della Storia - nel coro assordante di quella schiacciante maggioranza che operò il voltafaccia - per riportare il successore di Lenin nella concreta realtà di un’epoca ed opporsi alla sua demonizzazione. Sarebbe opportuno tener sempre bene in mente che se metafisico è il divino, altrettanto lo è il diabolico; che dio e satana in una visione laica prima ancora che marxista, andrebbero tenuti fuori dal mondo. Luigi Pintor, che non può certo essere accusato di stalinismo, di fronte all’incalzare del pensiero unico e del revisionismo storico, ultimamente, in alcuni editoriali del suo giornale, ha dovuto onestamente ammettere i meriti storici di Stalin quantomeno come capo militare che ha guidato esercito e popolo sovietico alla vittoria sul nazismo. Da Bertinotti invano ci aspetteremmo un riconoscimento del genere. Anzi, in un inserto di Liberazione dal significativo titolo."Chi ha ucciso la rivoluzione?", egli fa suo, senza che nel partito se ne sia mai ufficialmente discusso finora, il principale cavallo di battaglia di Trotski, cioè l’impossibilità di edificare il socialismo in un solo paese. Ma è naturale che oggi i comunisti di una certa purezza, i quali riducono la vicenda nata dall’Ottobre ad un capitolo di storia del capitalismo (si noti che l’oppositore di Stalin non ha mai definito l’Urss un paese capitalistico, ma usava la formula "stato operaio degenerato") ricorrano alla nota teoria di Trotski. Il quale ultimo, scomparso tragicamente nel ’40, se avesse potuto assistere alla vittoria dell’Urss sul nazismo, alla conseguente nascita del campo socialista ed al trionfo della rivoluzione cinese, chi sa che non avrebbe potuto rivedere (come talvolta gli capitò in vita) la sua drastica posizione. Gli attuali discepoli, classicamente peggiori del maestro, ricorrono a Trotski - e qui sta il carattere attualissimo di quella vecchia drammatica polemica in seno al partito bolscevico - per dare una base teorica al misconoscimento, da loro operato, degli eventi storici conseguenti alla vittoria militare dell’Urss sul nazismo. Se il Trotski degli ultimi anni ’20 negava la possibilità del socialismo nella "Russia arretrata", coloro che oggi riecheggiano quella sua idea giungono a negare qualsiasi carattere socialista sia all’Europa dell’Est (prima del crollo), sia alla Repubblica Popolare Cinese (e al Vietnam, alla Corea, a Cuba). Si tratta - come si vede - di una notevole estensione del campo di applicazione della teoria dell’impossibilità del socialismo. Insomma niente di nuovo sotto il sole che ha illuminato le sciagure umane del secolo appena trascorso: sempre, comunque e dappertutto capitalismo.

Ma torniamo a Krusciov. Che significato politico può aver mai avuto la destalinizzazione: farla finita con l’ormai insopportabile carattere poliziesco dello stato sovietico; democratizzare la società, uscire dallo stato d’eccezione e fissare finalmente le regole che devono presiedere ad uno stato di diritto; consentire che scrittori e scienziati esprimessero liberamente le loro opinioni senza necessariamente divenire martiri od eroi da premio Nobel? Niente di tutto questo. Anzi - sarebbe il caso di chiedersi - non è stato forse Krusciov a mandare i carri armati sovietici in Ungheria? Non è stato Breznev ad invadere la Cecoslovacchia e a teorizzare la dittatura internazionale del proletariato e la sovranità limitata? La risposta dei comunisti di una certa purezza a queste domande sarà una sola, ed inesorabile: anche questo è stalinismo. Cosicché, per imperscrutabile disegno, Stalin ha predisposto gli eventi in modo tale che i suoi iconoclasti dovessero risultare al tempo stesso i continuatori della sua politica.

E’ chiaro che un bilancio incentrato sulla demonizzazione di una personalità storica, operazione iniziata delittuosamente da Krusciov e ripresa ed amplificata a dismisura dalla propaganda imperialista, non serve a nulla, se non a rinviare e a complicare la comprensione del cosiddetto socialismo realizzato con i suoi limiti, errori, orrori, ma anche i suoi formidabili momenti di significato storico progressista che hanno lasciato il segno finanche nelle società capitalistiche. La questione di Stalin esiste ancora, in tutta la sua interezza: ma essere in qualche modo allineati alla propaganda imperialista sul personaggio, senza che si manifesti un minimo di perplessità che istintivamente nell’animo di chi si richiama al comunismo dovrebbe pur sorgere, è davvero imperdonabile. Ammettendo (per assurdo) che i dirigenti poststaliniani dell’Urss, da Krusciov via via a Gorbaciov, avessero risolto i gravi problemi pratici e teorici lasciati aperti dalla direzione di Stalin, l’antistalinismo, in un’ipotesi fantapolitica del genere, potrebbe trovare una qualche giustificazione. Ma siccome l’epilogo è stato Eltsin e la distruzione di quel grande Paese, appare mostruosamente semplice addossarne le cause a Stalin, ricorrendo, per giunta, alle vecchie argomentazioni del suo storico avversario.

Amedeo Curatoli

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