Conflitti economici, vertice WTO e prospettive future

Tra la fine di Agosto e la prima metà di settembre sono maturati due avvenimenti che certamente hanno lasciato il segno nelle relazioni internazionali.

Il primo riguarda la visita del ministro del Tesoro americano in Cina con l’intento di far pressione sul grande paese asiatico per la rivalutazione della moneta cinese (renmibi o yuan che dir si voglia). Il secondo riguarda la riunione dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO) a Cancun in México, conclusasi senza risoluzione finale per mancanza di accordo tra i partecipanti.

Questi due avvenimenti non possono essere trascurati né minimizzati perché riflettono un aspetto della lotta di classe a livello mondiale, la cui comprensione è indispensabile anche per le iniziative che le organizzazioni politiche che si dichiarano antagoniste al modo di produzione capitalistico dovranno elaborare a livello di ogni realtà nazionale. E pertanto è un discorso che ci riguarda anche in Italia.

Ritorniamo sul primo avvenimento, facendo una breve premessa.

Nell’estate del 1997, quando nei mercati asiatici (in particolare Corea del Sud, Tailandia, Singapore, Malaysia, Taiwan, ma anche in Giappone) si sviluppò una forte crisi finanziaria, con la caduta dei titoli azionari e obbligazionari e con il trasferimento dei capitali finanziari in direzione degli Usa e dell’Unione Europea, la produzione industriale ed agricola di detti paesi ha subito un netto crollo con massicci licenziamenti di operai o con chiusura di interi reparti aziendali oppure con la vendita di essi a gruppi stranieri.

La produzione della Repubblica Popolare Cinese rimase stabile, anzi per la precisione leggermente al disotto dell’incremento programmato dell’8%. I mancati sbocchi delle merci cinesi nei mercati asiatici in seguito alla crisi economica sono stati orientati verso il mercato interno, attraverso un incremento della domanda sollecitata dallo Stato con la sua politica dirigista. Se la RPC avesse voluto competere con i paesi dell’Asia in difficoltà, per conquistare tutti i mercati, doveva svalutare il renmibi e rendere le sue merci più competitive, con ulteriore danno all’industria nazionale sud-coreana, tailandese, malaysiana, di Singapore, ecc. e nello stesso tempo con danno alle masse lavoratrici cinesi perché la svalutazione della moneta avrebbe aggravato il loro potere d’acquisto. Non solo, ma la politica finanziaria e monetaria degli organismi statali cinesi (ministeri e banca centrale) fu accorta anche nell’evitare, all’interno, i contraccolpi finanziari del crollo dei titoli ed, all’estero, un’espansione della crisi finanziaria ed economica.

La politica della RPC fu giudicata, in quell’occasione, altamente responsabile, non solo dai paesi asiatici, ma anche dagli Usa, dall’U.E. e dal Giappone e l’accesso della Cina al WTO è stato facilitato.

Molti dirigenti delle organizzazioni internazionali che aderiscono ai movimenti del Social Forum Mondiale ed in particolare, in Italia, i leaders del Partito della Rifondazione Comunista, hanno inveito contro la partecipazione della Cina al WTO, perché a loro avviso rafforzava il processo di "globalizzazione", apriva il mercato cinese "al grande capitale finanziario ed apportava gravi danni alle produzioni interne ed alle condizioni di vita delle masse popolari cinesi". Era un’ulteriore occasione per attaccare la politica estera ed interna cinese ed approdare alle facili definizioni della Cina come "paese capitalistico emergente".

Ora in questo articolo non si vuole discutere certamente su come definire il sistema economico cinese, perché è un discorso molto complesso e per quel poco che ho potuto studiare le mie riflessioni sono state fatte in altre occasioni, quanto attenzionare i fatti successivi all’entrata della Cina nel WTO.

L’economia cinese negli ultimi anni ha continuato ad avere un incremento annuo intorno all’8% e tenendo conto dell’aumento controllato della popolazione (in seguito al controllo delle nascite), il suo andamento è diverso rispetto a quella americano, europeo o giapponese; cosicché il tasso reale d’incremento della produzione si può attestare intorno al 5%. Come si può vedere è un bel passo avanti, sia rispetto all’economia americana che alla fine del secolo scorso aveva incrementi intorno al 3-4% e nei primi anni dell’inizio secolo ha subito una stagnazione ed ora, cioè nel 2003, evidenzia una leggera ripresa, anche per gli stimoli di tipo keynesiano nel complesso militar industriale; sia rispetto all’economia europea che si trova in una lunga fase di quasi stagnazione; sia infine rispetto al Giappone, il quale comincia adesso a vedere la ripresa dopo una lunga stagnazione-recessione.

Certo, la Cina per entrare nel WTO ha dovuto aprire i suoi mercati al capitale finanziario estero, soprattutto nel settore bancario e assicurativo, ed ha dovuto ricevere dei prodotti che hanno messo in difficoltà alcuni settori interni sia industriali che agricoli, ma la forza della sua produzione, diretta ed orientata dallo Stato, ha messo sotto pressione le economie degli altri paesi con le sue continue esportazioni e presenze di piccole unità commerciali che hanno invaso il mondo. Sia per la presenza del capitale estero in Cina sia per le rimesse dei cinesi all’estero gli organi ministeriali cinesi e la Banca centrale cinese sono in possesso di enorme valuta estera internazionale, che prevalentemente investono in attività produttive (a differenza del capitale finanziario straniero che opera investimenti prettamente speculativi con la compravendita di azioni), come il settore delle infrastrutture, l’energia e soprattutto l’industrializzazione e la modernizzazione agricola del centro-ovest del paese, dopo aver la modernizzazione dell’est, oppure impiegano per acquistare titoli pubblici negli altri paesi (come il T-bond americano) che seppur come attività di tipo speculativo serve politicamente a tenere il gancio con le economie finanziarie più forti.

Per queste ragioni, a differenza di quanto sostenuto dalle Cassandre presenti nella sinistra antagonistica, non solo la Cina non è stata colonizzata ed inglobata nella sfera d’influenza americana ma è diventata molto competitiva a livello economico mondiale, svolgendo altresì una politica estera autonoma, spesso in conflitto, seppur misurato, con l’egemonismo americano.

Sono questi i fatti reali.

In questo contesto, tenendo conto delle loro difficoltà che si aggravano con il perdurare della guerra in Iraq, gli Usa hanno dovuto ricorrere parecchie volte, in barba al tanto declamato liberismo, al protezione vecchio stampo, introducendo dazi doganali fino al 30% per le importazione negli Stati Uniti di acciaio europeo e delle mercanzie cinesi ed hanno fatto pressione sulla Cina per rivalutare il renmibi in modo da "riequilibrare", secondo il loro linguaggio, le esportazioni sul piano mondiale, cioè a dire scoraggiare quelle cinesi per avvantaggiare quelle americane. Anche perché, siccome il renmibi da circa dieci anni è ancorato all’evoluzione del dollaro, un dollaro forte rafforza il renmibi, un dollaro in discesa, come nella fase attuale, espande ulteriormente le esportazioni cinesi.

Così mentre il ministro del Tesoro Straw a fine agosto metteva piede all’aeroporto di Beijing, un portavoce del Ministero degli Esteri precisava alla stampa estera che il governo cinese non aveva alcuna intenzione di rivalutare la sua moneta nazionale e che la visita "era utile per l’esame di altre questioni bilaterali".

Passiamo ora a trattare il secondo argomento, cioè il fallimento del vertice di Cancun del WTO, tenendo però presente le interrelazioni tra i due avvenimenti.

Come ha scritto Bruno Amoroso in un recente articolo pubblicato su Carta "il vero obiettivo del WTO, nonostante la retorica ufficiale, è la protezione degli interessi delle transnazionali della ‘triade’ capitalistica dalla pressione proveniente dai paesi in via di sviluppo (PVS) e del terzo mondo (TM) e l’eliminazione di tutte le barriere legali, politiche ed economiche che impediscono la propria penetrazione in tutti i territori. (…) Contrariamente alla finanza che è uno strumento di penetrazione economica ed espropriazione valido per le economie altamente finanziarizzate e mercificate, e che si sono aperte alla internazionalizzazione dei propri mercati finanziari, la penetrazione nei campi della produzione e dei servizi da parte del WTO mette a rischio tutti i sistemi produttivi e, quindi, le basi stesse della sopravvivenza di intere comunità e nazioni. La recente estensione dell’area di intervento del WTO all’agricoltura ed ai servizi (beni pubblici in particolare) minaccia sistemi di produzione, la formazione e la ricerca che costituiscono la base materiale per la sostenibilità di paesi e miliardi di persone nel mondo".

Nell’ambito del WTO ventuno paesi si sono organizzati in gruppo e fra questi il Brasile, ed altri in via di sviluppo, oltre alla Cina, per dire no alla prepotenza del capitale multinazionale triadico (Usa, Ue, Giappone), il quale su questi temi era unito a differenza di altri, come quello dei cibi transgenici, che in passato hanno visto da un lato Usa e Giappone e dall’altro l’Unione Europea, anche se ora l’Unione Europea sta ammorbidendo la sua posizione.

Se i Paesi in via di sviluppo saranno uniti, come in questa occasione, e non si faranno dividere dalla politica del capitale multinazionale triadico si aprirà un nuovo fronte nella lotta di classe internazionale con gravi conseguenze sul ciclo economico internazionale. E forse si assisterà al ritorno delle misure protezionistiche su vasta scala da parte dei paesi del capitalismo triadico, come dimostrazione della legge leniniana sullo sviluppo economico diseguale del capitalismo che aggrava i conflitti trasferendoli dal settore economico a quello militare.

Ma un eventuale "ritorno del protezionismo", dopo che il capitale finanziario ha operato liberamente nel mondo creando complessi legami finanziari, economici, politici, militari, tra gli Stati e i diversi grandi mercati che sono circa 200, sarebbe una brusca inversione di tendenza che sconvolgerà ulteriormente l’economia mondiale, la politica e gli equilibri militari al momento realizzati.

2 ottobre 2003

Giuseppe Amata

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