Insistere e creare nuovi paradigmi

Il compagno Giuseppe Amata con questo numero entra a far parte della redazione di Aginform per partecipare al comune sforzo di costruire una posizione comunista fuori da ogni logica di gruppo.

Insistere, Insistere, Insistere! ma creare, creare, creare. Gli articoli di Aldo Bernardini e di Roberto Cipriani rispettivamente sui numeri 26 e 27 di "Aginform" stimolano ulteriormente la discussione che da diversi anni si svolge fra le colonne della rivista sul che fare. Già dal loro titolo i due articoli, Insistere, insistere, insistere! il primo; articolare l¹analisi, il secondo; si possono considerare due facce della stessa medaglia, cioè due aspetti della discussione in corso fra comunisti. In sostanza si può convenire, da un lato, che bisogna salvaguardare e difendere l¹esperienza storica del movimento comunista internazionale, correggendo gli errori, le distorsioni e gli episodi di autoritarismo che hanno portato ad ingiuste condanne, attraverso un¹analisi scientifica fondata su categorie reali, comprese le fonti storiografiche certe o gli atti processuali, senza facili e demagogici approdi illuministici e senza d’altra parte analisi preconcette fondate su astratti schemi ideologici; dall’altro, comprendere le contraddizioni della realtà economico-sociale attuale ed approntare un radicale rinnovamento d¹analisi, individuando le forze complessive per sviluppare la lotta al sistema capitalistico.

Di conseguenza, fermo restando la difesa dell¹esperienza storica passata, ne discende che si possono rimettere in discussione o approfondire alcune singole questioni, rimaste aperte in seguito a scelte errate, le quali sono importanti per capire il presente; ed in questa discussione i pareri tra compagni potranno anche essere discordanti, senza cadere nell¹antagonismo.

Non si può fare il contrario, però, ossia estrapolare una singola esperienza dall’insieme di tutta l¹esperienza storica. Chi inneggia alla Resistenza in Italia e dileggia tutto il resto di quel periodo nel movimento operaio internazionale, dimentica che essa è stata favorita dalle condizioni che si sono create in seguito alla guerra patriottica in Urss, guidata da Stalin sia sul piano politico che militare, alla guerra rivoluzionaria all¹imperialismo nipponico in Cina e Corea, sotto la guida di Mao e Kim il Sung, alla guerra partigiana in Yugoslavia, sotto Tito. Si può ricordare cosa diceva il movimento troskista dell’epoca: che era meglio la sconfitta dell¹Urss per creare le condizioni di una "nuova rivoluzione sul piano mondiale". E, in fase recente, al III Congresso del Partito della Rifondazione Comunista, Bertinotti invocava il ritorno a Marx per approdare ai nostri giorni al V Congresso di Rimini alla concezione che lo "stalinismo è incompatibile con il comunismo". Si potrebbe concludere: tutta l¹esperienza storica non solo del movimento comunista ma anche di quello socialista va annientata perché essa non si è svolta secondo un astratto perfettibile che è nella testa di Bertinotti. Quindi, la smetta con la demagogia parolaia; con i suoi discorsi non si approda a nulla: si crea solo confusione per far danno.

Tra parentesi si potrebbe anche fare dell¹ironia sugli stalinisti diventati antistalinisti (Kruscev, Suslov, Nenni, Pertini, lo stesso Togliatti, ed altri) e sul fatto che gli anticomunisti dichiarati degli anni ¹90 del XX secolo erano stati segretari generali dei partiti comunisti o membri influenti (Gorbacev, Yakovlev, Eltsin, Occhetto, D¹Alema, ecc. ecc.). Comunque, non è questo il metodo scientifico per studiare il passato e capire il presente e non voglio seguire questo percorso, ma cito questi elementi personali solo per ricordare che il problema dell¹opportunismo nei partiti comunisti è esistito e da lunga data e pertanto va sollecitata la discussione non solo sugli aspetti ideologici e politici, ma anche su quelli organizzativi (un utile contributo allo studio si riscontra nel libro di H.H. Holz, Comunisti oggi, La città del sole), per evitare che tutto ciò si ripeta.

Tuttavia, una cosa è preminente: studiare attentamente il presente e far sì che si risolvano le sue contraddizioni. Passato e presente in ogni caso, vanno analizzati attraverso l¹unico metodo scientifico che si conosca basato sull’induzione, la deduzione e la verifica della sperimentazione. Solo in questo modo si può ricercare l’approccio unitario nel comprendere le cause che hanno permesso il ritorno di molti paesi al modo di produzione capitalistico e la degenerazione di molti partiti comunisti in partiti borghesi di tipo socialdemocratico o addirittura liberale. Solo in questo modo si può sconfiggere il dogmatismo, il fideismo, il revisionismo, il politicismo fondato su chiacchiere di stagione e sull’opportunismo demagogico, anziché su categorie reali.

Ci dobbiamo porre una domanda iniziale: che cosa intendiamo per socialismo come formazione sociale ed i tempi della sua realizzazione storica. Per esempio, i dirigenti del Partito comunista cinese affermano che nel loro paese la prima fase del socialismo si realizzerà verso la metà del presente secolo, cioè a dire dopo cent’anni dalla rivoluzione vittoriosa culminata nel 1949. Vi ricordate che Kruscev e tutto il gruppo dirigente dell’epoca, volevano realizzare addirittura il comunismo in vent’anni lanciando nel 1961 al XX congresso del PCUS il programma base? Vi ricordate che Breznev e gli altri dirigenti affermavano alla fine degli anni ’70 che l’Urss era un paese che aveva già realizzato il socialismo? Se fosse stato così nessuna azione deleteria da parte di Gorbacev e degli altri dirigenti del Pcus poteva certamente distruggere un modo di produzione socialmente radicato. Chi lo pensa, di fatto si pone fuori dell’analisi di Marx e dalla concezione materialistica e dialettica della storia, fondata sulla lotta di classe e sulla contraddizione rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive, per approdare alla concezione che la storia è fatta dalla volontà dei singoli uomini. Altra cosa, però, è il contributo e la guida che un leader può imprimere ad un percorso storico.

Quindi, per ritornare alle categorie scientifiche. in Urss si era iniziato a scardinare il modo di produzione capitalistico per costruire un nuovo modo di produzione e dopo diversi decenni la società sovietica si poteva considerare una società di transizione in cui coesistevano i valori sociali emergenti ma anche l’essenza del vecchio modo capitalistico rappresentata dalla categoria del profitto e dalla produzione dei valori di scambio, cioè le merci, nonché da una sovrastruttura fondata sull’atrofizzazione istituzionale, sulla corruzione, sul distacco partito-massa, sulla perdita di coscienza delle masse, ecc., anche se l’attività economica era tutta nazionalizzata e non esisteva attività economica privata. Ma, con gli occhi di adesso, l¹esistenza di un’attività privata è un problema secondario, altrimenti la Cina, il Vietnam, e la stessa Cuba si dovrebbero considerare ex abrupto paesi capitalistici. Il problema è invece di vedere come si pone quest¹attività (ovviamente in forma subordinata) nell’ambito dello sviluppo delle forze produttive sul piano nazionale. Perché, ad esempio, in epoca brezneviana, pur essendo la proprietà quasi tutta statale o collettiva la produttività del lavoro era bassa e la società sovietica affossava nella stagnazione per giungere poi con il colpo finale di Gorbacev e della maggioranza del Pcus, ad approvare attività private (che di fatto non erano produttive ma tipicamente speculative e legate alle multinazionali), le quali sprofondavano il paese dalla stagnazione alla crisi economica, sociale e statuale e così si ristabilivano le leggi classiche dell’accumulazione capitalistica. Ovviamente vanno considerati anche i fattori esterni, la corsa al riarmo imposta dagli Usa, la controrivoluzione preparata sobillando gli strati più spoliticizzati delle masse con dei veri agitprop prezzolati dall’imperialismo e con organizzazioni sindacali costituite ad hoc e finanziate anche dall’esterno.

Da quanto detto ne discende che per realizzare il socialismo occorre un tempo storico superiore a quello previsto sia da Marx, sia da Engels, sia da Lenin, sia da Stalin, sia da Mao (il quale ricordiamolo pensava di accorciare i tempi imprimendo sui rapporti sociali, rispetto allo sviluppo delle forze produttive). Di rimando, se ricordiamo tutti i revisionismi, in particolare quelli di "sinistra" riscontriamo tutte le ciarlonerie sulla transizione breve, addirittura sul passaggio immediato dal capitalismo al comunismo (lo scrivevano gli operaisti dei Quaderni rossi negli anni ’60 e poi la prima redazione del Manifesto ed in modo rozzo, presuntuoso e con azioni sporche ed inquinate quelli di alcuni gruppi come Potere operaio, Lotta continua, fra cui Toni Negri, negli anni ’70.

In realtà, la storia adesso attesta un elemento certo, incontrovertibile: la transizione dal capitalismo al socialismo impegnerà un lungo periodo storico in cui coesisteranno forme di organizzazioni economiche e quindi sociali diverse e la vittoria apparterrà alla classe del proletariato ed al partito comunista, e non viceversa alla borghesia ed ai suoi partiti se essi sapranno esercitare l’egemonia economico-sociale (per usare un linguaggio gramsciano che è la stessa cosa del linguaggio marxiano di dittatura del proletariato, che non è la stessa cosa di regime autoritario o totalitario!). Pertanto, nella nostra fase storica, i comunisti sono chiamati a misurarsi e a stringere le loro alleanze tenendo conto delle principali contraddizioni: a) imperialismo-popoli oppressi, con dominio del capitalismo triadico (Usa, U.E., Giappone) sulla stragrande maggioranza dei paesi e relativo sviluppo economico diseguale fondato sullo scambio ineguale; b) capitale-lavoro, con aumento del saggio di sfruttamento della forza-lavoro e l’impoverimento delle masse in ogni paese capitalistico; c) contraddizioni interimperialistiche che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, nella rispartizione delle sfere di influenza determinano sconvolgimenti degli stati nazionali, tentativi di formazione di stati multinazionali guidati dal capitale finanziario, come l’Unione europea, integrazioni economiche e commerciali, accelerazione della crisi economica, utilizzazione del terrorismo come arma politico-militare per innescare guerre regionali o di più vaste dimensioni (anche per incrementare la produzione bellica, realizzare grandi profitti e scongiurare la crisi economico-finanziaria sempre strisciante); d) utilizzazione selvaggia delle fonti energetiche e delle risorse naturali e relativo aumento dell’inquinamento; utilizzazione di biotecnologie e manipolazione genetica per realizzare merci, senza conoscere gli effetti collaterali sulle persone e sull’ambiente o, se conosciuti, nascosti; contraddizione città-campagna sempre più esasperata, la quale oltre ad essere elemento caratterizzante della crisi ambientale, determina da un lato la formazione di grandi megalopoli e di metropoli che dissipano la ricchezza, dall’altro l’emarginazione dei piccoli centri urbani e rurali che invece producono quella ricchezza.

In sostanza il modo capitalistico di produzione, nella fase imperialistica, non solo assoggetta i popoli, sfrutta la forza-lavoro in forma intensiva, ha continuamente bisogno di know how per realizzare più merci competitive, ma soprattutto si appropria di risorse naturali (acque, foreste, carbone, petrolio, gas) in quantità esagerate ed incontrollate e scarica, di rimando, sull’ambiente, enormi quantità incontrollate di rifiuti liquidi, solidi, gassosi. Di conseguenza non si può pensare di risanare l’ambiente senza eliminare il modo capitalistico di produzione.

Esaminare tutte le contraddizioni e non soltanto qualcuna di esse, come fanno alle volte le organizzazioni politiche, sindacali o ambientali che si definiscono di sinistra (osservano la parte e non il tutto!), significa osservare la realtà odierna da un punto di vista materialistico e dialettico ed individuare tutte le forze antagonistiche al modo capitalistico di produzione che possono e devono essere unite ed organizzate per la lotta. In tal senso non si può pensare di chiamare alla lotta queste forze solo con appelli di fedeltà alla storia del movimento operaio internazionale o con "autoproclamazioni marxiste leniniste", ma acquisendo nella pratica concreta del nostro agire quelli che sono stati definiti da Kim Il Sung principi del juché; che ogni popolo deve applicare sulla base del proprio processo di civilizzazione e secondo la propria capacità di agire, in una comune visione internazionale ed internazionalista dei problemi.

Bisogna partire dalle condizioni attuali, dal fatto che i popoli sono organizzati secondo le nazionalità e gli stati nazionali. A loro spetta la sovranità, non alla cosiddetta "comunità internazionale", che tra l¹altro non è nemmeno l¹Assemblea generale delle Nazioni Unite, ma i paesi del G8 o la Nato. Certo, nel futuro, avanzando nel mondo l’edificazione del socialismo in diversi paesi, si porrà sul piano storico il problema reale di una comunità mondiale socialista. Ma nel momento storico attuale non esistono le condizioni e pertanto violare la sovranità nazionale è un atto di guerra.

Quando l¹Urss è intervenuta in Cecoslovacchia nel 1968 ed in Afganistan nel 1979, pur esistendo in quei paesi problemi reali di involuzione economica e sociale, non aveva alcun diritto d¹intervento in prima persona. Poteva prestare, se voleva, l’aiuto politico alle forze socialiste che all’interno volevano impedire la svolta a destra o la controrivoluzione. Altra cosa è stato l’intervento in Ungheria, chiesto esplicitamente dalla direzione del Partito e del governo ungheresi, in cui i fronti contrapposti erano chiari e settori di classe operaia e della milizia si affrontavano sul campo contro settori controrivoluzionari armati. Ed in ogni caso su quell’intervento tutto il movimento comunista internazionale fu compatto; sugli altri no, anche perché la natura dell’Urss stava cambiando.

Ricordo queste cose, proprio perché cerco di sviluppare un ragionamento politico fondato su principi e non su quell’opportunismo che dobbiamo combattere; il quale, su un dato problema, spinge a sostenere una volta una certa posizione ed un’altra volta l’inverso, e per giunta chi sostiene queste posizioni ha sempre ragione. Questa è stata in Italia la logica degli Occhetto, dei D’Alema e di molti loro predecessori, nonché di Cossutta e di altri. Negli altri paesi uguale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Se i paesi dell’est europeo si fossero basati sui principi del juché e non avessero seguito tutto ciò che faceva l’Urss, nel bene o nel male, qualcuno di loro poteva avere un’involuzione o crollare; ma non tutti e nello stesso momento.

Mi si potrebbe obiettare che l’Albania non faceva parte del Patto di Varsavia. Vero, ma ricordiamoci che già negli ultimi anni di Enver Hohxa si praticava una politica isolazionista, perché la politica estera era strettamente fondata sull’deologia di Hoxha, il quale nei suoi ultimi scritti insultava tutta la direzione del Partito comunista cinese, compreso il defunto Mao, accusandola di essere "nazionalista di sinistra", "populista" o "revisionista di destra", mentre di rimando sviluppava ottime relazioni con la Turchia (paese sub-imperialista in confronto armato con la Grecia e desideroso di espandersi in tutti i territori dell’ex impero ottomano) ed aizzava il nazionalismo nel Kosovo, anche se su singoli problemi di difesa dell’identità dell’etnia albanese aveva ragione, ma non tale da preparare quello che diventa di fatto, con i suoi successori, il grimaldello per scardinare dal versante meridionale la Jugoslavia.

Bisogna saper fare una distinzione fra problemi ideologici e problemi politici statuali. L’ideologia del titoismo e l’autogestione erano nostri argomenti di critica negli anni ’60 e ’70, ma l’unità statuale della Jugoslavia non l’abbiamo mai messa in discussione, anzi la difendevamo assieme a quella della Romania, dopo l’intervento sovietico in Cecoslovacchia. Il dogmatismo, come il fondamentalismo o come il revisionismo: portano tutti alla sconfitta.

Ripartiamo quindi dall’idea juché, ma non solo per atto di solidarietà con la Repubblica popolare democratica della Corea minacciata dall’imperialismo americano e verso il suo leader Kim Jong Il che ne è convinto sostenitore ed ideologo, quanto piuttosto per l’essenza che essa rappresenta e ci sollecita a continuare nella lotta, anche dopo i tragici eventi della fine degli anni ’80 e dei primi anni ’90. L¹uomo, essendo padrone del proprio destino, ha anche la capacità creativa, a differenza delle altre specie animali, ovviamente sulla base delle condizioni materiali storicamente determinate. Le grandi rivoluzioni scientifiche, sociali, tecnologiche sono le locomotive del processo della civilizzazione umana. Il marxismo, il leninismo, come la biologia, la termodinamica ed altri aspetti del pensiero scientifico vanno studiati nella loro interdipendenza e nella loro evoluzione. Da questo studio, legato alla sperimentazione pratica, si svilupperanno le nuove teorie che interpreteranno e cambieranno il mondo. Ora se è vero che i mutamenti quantitativi e qualitativi che hanno interessato il modo capitalistico di produzione e le nuove società avviate verso il socialismo possono essere comprese sulla base dell’analisi di Marx o di Lenin, nella sostanza ancora valide, nuovi problemi sono sorti dalla contraddizione rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive che richiedono per intanto lo sviluppo del marxismo-leninismo e successivamente l’elaborazione di nuove teorie, anche se non immediate. Tuttavia le nostre menti devono essere aperte e come ogni cosa, la nuova idea, non viene subito recepita dalla maggioranza, ma da pochi, i quali in seguito alla loro funzione di avanguardia renderanno coscienti le grandi masse. Ecco perché fin quando ci sarà una formazione sociale ci saranno sempre delle organizzazioni d’avanguardia, anche quando scompariranno le classi.

In conclusione, se è vero che il modo capitalistico di produzione si sviluppa utilizzando i principi della termodinamica e pertanto aumentando il livello entropico dell’ecosfera, se è vero che per sfuggire alla caduta tendenziale del saggio dei profitti impiega maggiori dosi di alcune parti di quello che Marx ha chiamato "capitale costante", - le quali permettono un’utilizzazione più intensiva della forza lavoro ottenendo un maggior "pluslavoro relativo" (oltre quello assoluto che aumenta in seguito alla sottoremunerazione di alcune categorie di lavoratori, come ad esempio gli immigrati), - ed allarga il mercato estero non solo per esportare merci, ma soprattutto capitali finanziari (oggi tutto ciò si definisce volgarmente "globalizzazione"); se è vero che utilizza le biotecnologie e la manipolazione genetica in agricoltura per far sì che tutto il processo produttivo (dall’acquisizione delle materie prime alla vendita delle merci; cioè il percorso descritto da Marx con i simboli: D-M-M’-D’) ricada sotto il controllo delle imprese multinazionali e facendo ciò si esalta il "valore di scambio", si annulla il "valore d¹uso" e si impedisce lo sviluppo del "valore sociale" (che non rappresenta soltanto un’aspirazione collettiva bensì una necessità in riferimento allo sviluppo delle forze produttive ed all’esigenza di impiegare meno fonti energetiche per ridurre l’inquinamento!). Se tutto ciò è vero, allora tutte le forze sociali che si contrappongono a questi processi, anche se ancora non hanno preso netta coscienza e non esprimono una ideologia unificata oppure ricorrono ad iniziative di lotta primordiali o a lungo andare sterili, sono interessate alla trasformazione sociale.

Certo su di esse, oggi, fanno leva tutti i revisionismi antichi e moderni che si mettono alla loro testa o si appropriano di loro battaglie o parole d’ordine per mantenere desto il loro politicismo e la loro rappresentanza istituzionale, indirizzando le lotte soltanto su obiettivi parziali e non sulla trasformazione del modo capitalistico di produzione, come obiettivo storicamente determinato; e caso mai, se parlano di trasformazione della società è in forma evanescente ed utopica.

Quindi, una forza politica comunista che si considera avanguardia cosciente e organizzata, non deve sfuggire alla ricerca teorica sulla base del nuovo livello raggiunto dalle forze produttive per dedicare la sua attenzione soltanto al dibattito ideologico sulle scelte del passato, pensando di avere la ricetta magica per conquistare consensi. Altresì non deve disinteressarsi nella sua pratica politica delle lotte parziali e spontanee che si succedono in tanta parte del mondo contro il processo della mercificazione capitalistica e per la salvaguardia della natura, ad esempio le lotte contro la deforestazione, contro l’inquinamento, contro i cibi transgenici, contro la circolazione dei TIR nel tunnel del Monte Bianco o attraverso alcune zone dell’Austria, per un corretto uso delle acque di fronte alla siccità che avanza e che distrugge l’agricoltura tradizionale, pensando soltanto alle classiche lotte di massa che scaturiscono dalla contraddizione capitale-lavoro, come i recenti scioperi per la difesa dell’art. 18, avendo in mente il modello passato che vedeva la contrapposizione di una classe contro un’altra. Nella realtà odierna le contraddizioni non sempre sono nette e limpide tra una classe sfruttata contro quella che gli appare immediatamente la sfruttatrice, ma attraversano diverse classi, anche strati di classe che si appropriano il pluslavoro, contro il potere decisionale del capitale finanziario e delle multinazionali.

       Giuseppe Amata

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