Considerazioni sul XVI Congresso del PCC

di Giuseppe Amata

E’ appena terminato il XVI Congresso del PCC e le conclusioni non modificano le premesse della vigilia. Pertanto mi riallaccio a quanto scritto nella nota del 12 luglio pubblicata su "Aginform" n. 28.

La relazione di Jang Zemin, le modifiche allo statuto (approvate all’unanimità) che hanno fatto molta sensazione nelle parole e nelle immagini dei mass-media occidentali, il dibattito e l’elezione del nuovo CC e del nuovo gruppo dirigente meritano una conseguente riflessione che pacatamente e con l’animo di chi vuol capire rivolgo ai lettori, i quali per lo più non avendo la possibilità od i mezzi per informarsi direttamente alla fonte, cioè leggendo i documenti ufficiali in lingue estere, fanno propria la divulgazione parafrastica e striminzita dei giornalisti di casa nostra.

Quindi prima di addentrarmi nell’analisi degli atti congressuali, devo fare qualche cenno a come i lettori italiani sono stati informati dalla stampa e dalla televisione.

Tutti i media sul PCC (ma è un discorso più vasto che riguarda partiti e paesi che si richiamano al socialismo o che in ogni caso non sono sotto l’influenza occidentale), da molto tempo a questa parte anziché fare informazione presentando obiettivamente i fatti e poi commentandoli, ovviamente dal loro punto di vista, hanno parlato di intrighi e di lotte fra gruppi rivali per imporre i propri delfini per mantenere la posizione del "clan" nella vita sociale, mettendo anche in rilievo che il nuovo leader non piace a nessuno perché lo ha imposto Deng prima di morire; altresì hanno pronosticato i nomi per le maggiori cariche, i quali tranne quella scontata di Hu Jintao per la segreteria generale, non tutti sono stati azzeccati. Fra questi giornalisti si è distinto Renato Ferraro sul Corriere della Sera, il quale oltre alle previsioni in merito ai nuovi dirigenti ed al riporto di alcune opinioni di ambienti filo-occidentali di Pechino ha centrato la sua attenzione sul tema della modifica di un articolo dello statuto per affermare che "il congresso sancirà l’abbandono dei dogmi marxisti" (Cfr. i servizi in data 7 e 8 novembre); che "le tre rappresentanze significano definitiva legittimazione del capitalismo e ingresso di imprenditori e manager nel partito" (Cfr. 10 novembre) che "Hu, l’erede di Jang non piace al patriarca cinese" (Cfr. 12 novembre). "La Stampa"e "la Repubblica", a loro volta, con minori servizi hanno però evidenziato come una loro novità "l’apertura della Cina al capitalismo", dimenticandosi che dal 1992 hanno sempre sostenuto questo tipo di informazione (quindi che novità è!). Nei telegiornali Rai, invece, il corrispondente da Mosca, Sergio Cancian dopo l’ottimo lavoro di disinformazione in circa dieci anni di corrispondenza dai Balcani e da Mosca, s’è trasferito a Pechino e dopo aver fatto riprendere alcune immagini dalla strada ha manifestato le sue consuete ilarità come piatto forte delle sue corrispondenze: una fra tutte, "la falce e martello nel libretto degli assegni" a commento dell’ingresso nelle fila del Partito dei dirigenti delle aziende private.

Morale della favola: se la Cina rossa che è stato il baluardo del socialismo nel mondo, dopo il crollo dell’Urss e dell’est europeo, apre al capitalismo, anche se in versione cinese, cioè con "partito unico e sedicente comunista al potere", popoli del mondo, comunisti più o meno nostalgici e neofiti no-global smettetela di attaccare il capitalismo, rimbocchiamoci le maniche e cerchiamo di trovare una soluzione ai problemi del mondo nell’ambito delle leggi del capitalismo. Di conseguenza ci può dispiacere quando capita il licenziamento collettivo di diverse migliaia di lavoratori per volta in tante parti del mondo ma è un evento che dobbiamo accettare come i terremoti, le eruzioni vulcaniche e gli altri eventi naturali.

Stupisce poi che in questa trappola ci cadano non solo ingenui lettori per lo più giovani, animati da buoni sentimenti di lotta, che annoverano nelle loro discussioni la Cina fra i paesi capitalisti e quindi da combattere, ma anche militanti comunisti di provata esperienza che in buona fede osservano i fenomeni soltanto nel loro aspetto esteriore traslando concetti che non poggiano su categorie reali e che non fanno leva sull’esperienza storica specifica di ogni paese (ma su questo punto ci ritornerò in seguito). Ovviamente, poi, sulla traslazione di parole comuni in storie diverse e sulla diversa interpretazione della storia del movimento comunista internazionale e della stessa categoria del comunismo hanno costruito il loro habitat gruppi o partiti, sedicenti comunisti, che disprezzano non solo la storia recente ma anche quella passata del PCC.

In questa nota non mi rivolgo direttamente a loro, bensì a quanti vogliono studiare, capire, anche criticare l’esperienza cinese per trarre riflessioni teoriche e pratiche nella lotta per la trasformazione del modo capitalistico di produzione. E mi sforzo di utilizzare categorie reali e concetti elementari per non cadere nella discussione astratta di ciò che dovrebbe essere il miglior socialismo, discussione che potrebbe essere affascinante e surreale nella fase giovanile di un individuo, così come nella terza età si ragiona in termini di amarcord.

Bisogna partire, dunque, dal mondo reale, da quello che oggi è il mondo per cambiarlo e non da quello che è il nostro mondo ideale per ricevere qualche confortevole consenso. Quindi, dalla Cina, come è oggi, e non come la ricordiamo dalla nostra giovinezza, se vogliamo capirne qualcosa. Ovviamente la nostra memoria storica ha importanza per opportuni collegamenti e raffronti, ma non possiamo invertire il processo analitico.

Pertanto cercherò sinteticamente di analizzare quelle che sono le posizioni ufficiali del PCC, cercando di capire in che cosa consiste la teoria di Deng per costruire un socialismo secondo le caratteristiche della Cina. (Confesso che la mia conoscenza è sommaria, non avendo avuto la possibilità in lingua italiana di leggere i volumi editi nelle principali lingue estere, di cui ho letto poche cose, a differenza del pensiero di Mao). Punto essenziale, mi sembra di aver capito, del pensiero di Deng è per semplificare che il mercato è una categoria a sé, che preesiste al modo capitalistico di produzione. Un paese è capitalistico non se produce per il mercato, ma per il profitto. Un paese è socialista quando i rapporti di produzione sono controllati dallo Stato nell’interesse del popolo e quando esso attua una pianificazione non rigida, come nel passato, ma indicativa nella fase di transizione, assegnando una certa libertà alle unità produttive private che non entrano in conflitto con gli obiettivi generali del Piano, anche se queste unità private sono composte da capitali internazionali (multinazionali). Il mercato, a sua volta, deve diventare un regolatore dell’offerta e della domanda.

Mi si può subito ricordare, esperienza acquisita nel dibattito della mia generazione, che nell’essenza erano queste le posizioni di krusceviana memoria delle vie nazionali al socialismo e come esse erano rimbeccate dal PCC di allora perché aprivano la via al revisionismo. Devo subito rispondere che le vie nazionali erano criticate perché poggiavano sulla via parlamentare come aspetto principale della lotta politica; tanto è vero che anche allora il PCC diceva che bisognava integrare la verità universale del m-l nella pratica concreta di ogni paese.

Quando Deng parla di socialismo secondo le caratteristiche della Cina si riferisce ad un paese ancora principalmente agricolo e che deve sviluppare il processo di industrializzazione e di modernizzazione e che a suo avviso lo sviluppo delle forze produttive rappresenta l’aspetto principale per superare l’arretratezza della Cina rispetto al mondo occidentale, mettendo in secondo piano la trasformazione immediata dei rapporti sociali, a differenza del pensiero dell’ultimo Mao. Ecco perché impone alla morte di Mao una svolta radicale.

Bisogna però dire, nel difendere la memoria di Mao, che la rivoluzione culturale era maturata in un contesto mondiale di sviluppo della rivoluzione con l’interessamento anche del mondo occidentale, oltre quello ex-coloniale. E in quel contesto Mao e la maggioranza del gruppo dirigente cinese, compreso Deng in una prima fase, cercano di giocare le carte per sconfiggere il revisionismo sovietico e l’egemonismo che esercitava in buona parte del mondo, anche in seguito alle compromissioni con l’imperialismo americano, accelerando il processo rivoluzionario anche in Cina per presentare la Cina agli occhi dei popoli come un esempio in positivo di società realmente socialista da realizzare. Alla morte di Mao, era già trionfata la rivoluzione in Indocina ed in altri paesi contro l’imperialismo americano, ma le direzioni revisioniste del PCUS e degli altri partiti (al potere o non) non erano state rovesciate dalla parte sana dei comunisti ed il sistema capitalistico non era stato non solo abbattuto, ma nemmeno scalfito nei principali paesi dopo le imponenti manifestazioni di massa, in Francia ed Italia soprattutto (i partiti comunisti all’interno, come è noto, non volevano questo e senza partito rivoluzionario non è mai trionfata nella storia una rivoluzione spontanea!), ed infatti riorganizzava la sua controffensiva e a partire dagli anni settanta cominciava a riprendersi quello che era stato costretto a cedere in termini salariali e normativi alla classe operaia ed ai lavoratori negli anni sessanta. Nello stesso periodo l’Urss comincia a sprofondare nella stagnazione e si fa sorprendere dall’America, dall’Europa e dal Giappone che rinnovano la tecnologia basandola sull’informatizzazione (in Urss l’informatizzazione era presente solo nell’industria militare!).

Si può condividere o meno ancora oggi la svolta impressa da Deng (personalmente ho avuto allora opinione contraria, oggi mantengo delle riserve come si evince dai miei lavori, pur studiandola non passivamente), ma quando lui prende in mano il timone della Cina (3ª sessione dell’XI CC, 1977) la situazione internazionale era notevolmente diversa dagli anni sessanta, così come era diversa rispetto agli anni sessanta quella dei primi anni settanta, con Mao ancora vivo. Basta rileggere gli atti del X Congresso (1973) dove non si riscontra il trionfalismo presente nel IX Congresso (1969). E questo a me personalmente e ad altri compagni allora era sfuggito, tant’è che ci attardavamo a ragionare nei precedenti termini. Deng con molto intuito capisce che per la Cina si presentano condizioni nuove, in quanto l’imperialismo americano, che negli anni sessanta minacciava la guerra alla Cina ed invadeva il Vietnam, non è in grado più di farla, mentre l’Urss con la svolta krusceviana e brezneviana anziché rafforzarsi e tenere sotto controllo la Cina, per come aspirava (non dimentichamo il ritiro dei tecnici dalla Cina e la mancata informazione sulle tecnologie nucleari, oltreché le minacce politiche e militari), si va lentamente spegnendo. Questo è stato il contesto dell’inizio del nuovo corso cinese. In questo contesto bisogna affondare l’indagine, non solo nella modifica formale delle maggioranze all’interno del PCC, come se la storia è il risultato della volontà degi uomini. Se la linea di Deng non avesse trovato un contesto ed una pratica sociale di riscontro certamente non sarebbe durata o avrebbe portato la Cina al tracollo come l’Unione Sovietica. Ed in effetti negli anni ottanta la Cina rischia una grossa crisi sociale, di cui i fatti di Tienanmen rappresentano un epilogo marginale, perché in realtà nel PCC vi era stato in precedenza un dibattito sostenuto e lo stesso Deng aveva corretto molte posizioni definendole liberalistiche, così come erano stati dimissionati nell’arco di qualche anno due segretari generali, Hou Yubang e Zao Ziyang, mentre milioni di operai, contadini, intellettuali e studenti scendono in piazza a manifestare e rientrano quando nel Partito si rettificano alcune posizioni. Rimangono in strada alcune minoranze, soprattutto studenti, legati ad ambienti esterni od interni che vogliono innescare processi analoghi a quelli maturati in Polonia, nella RDT e poi negli altri paesi, approfittando della visita di Gorbaciov, il quale dal gruppo dirigente cinese fu trattato per come meritava. Le posizioni prevalenti nel gruppo dirigente erano che l’apertura al mondo esterno non doveva modificare il ruolo dirigente del PCC e la dittatura democratica del popolo, senza copiatura di modelli occidentali; a differenza di quanto avveniva negli anni ’80 proprio in Urss e nell’est europeo.

La Cina del XVI Congresso è profondamente cambiata: ha sviluppato le forze produttive, ha molto attenuato il ritardo nei confronti dell’Occidente tanto da pronosticarne nel prossimo ventennio addirittura il superamento. Certo al prezzo di contraddizioni sociali e di squilibri territoriali evidenti, e di non sviluppo dei rapporti sociali per come li immaginavamo trent’anni addietro, oltreché con gravi fenomeni di corruzione nella vita sociale. Tutte cose che il gruppo dirigente non nega e che pensa nella prossima fase di risolvere. Basti leggere gli interventi al XVI Congresso laddove si recita a chiare lettere che se il Partito non risolve il problema della corruzione rischia di finire. Letteralmente è stato detto: "è un problema di vita o di morte"! A differenza del gruppo dirigente krusceviano e brezneviano che millantava di aver realizzato una forma di socialismo avanzato e si preparava al comunismo. "Avendo adempiuto i compiti della dittatura del proletariato, lo Stato sovietico è diventato uno Stato di tutto il popolo. E’ cresciuta la funzione dirigente del Partito comunista, avanguardia di tutto il popolo. Nell’Urss è stata costruita una società socialista sviluppata" (Cfr. Preambolo della Costituzione dell’Urss del 1977).

Penso che questo sia il primo elemento reale di discussione che meriterebbe ulteriore approfondimento: la Cina è là, non è crollata, ed è l’unico paese che a lungo andare potrà competere con gli USA.

Passiamo al secondo elemento di discussione (l’elemento che ha suscitato il sensazionalismo dei giornalisti occidentali): l’immissione degli imprenditori nel PCC e la riforma dell’articolo dello statuto con l’inserimento delle tre rappresentanze.

Il nuovo testo recita che il PCC è "l’avanguardia della classe operaia cinese, del popolo cinese e della nazione cinese"; è "il nucelo dirigente del socialismo secondo le caratteristiche della Cina" ed assume "le tre rappresentanze come linea direttiva di sviluppo del marxismo-leninismo, del pensiero di Mao e della teoria di Deng ".

Anche in questo caso per non fare banali paragoni con la concezione krusceviana e brezneviana del "partito di tutto il popolo", se vogliamo capire, dobbiamo partire dall’analisi del socialismo secondo le caratteristiche della Cina, per come è adesso la Cina, non per come sarà domani, cioè un paese in una fase di transizione, o se si vuole, nella prima fase della costruzione socialista (e sono passati più di cinquant’anni dal trionfo della rivoluzione, non dimentichiamolo!), in cui coesiste l’attività pubblica in funzione dominante e dirigente ed esiste un’attività privata, con presenza di capitale estero, che si integreranno entrambe negli anni a venire nella competizione internazionale nell’ambito dell’OMC, ma con l’intento dichiarato da parte dei dirigenti cinesi di modificare la relazione ineguale negli scambi commerciali internazionali che avvantaggiano i paesi ricchi. Certamente negli anni a venire verificheremo se i fatti corrispondano alle parole e questo sarà un elemento di valutazione della credibilità del nuovo gruppo dirigente, così come per altro verso la sua collocazione di fronte ai diktat dell’imperialismo americano ed alla sua politica espansionistica con eufemismo definita "egemonismo"!.

In questa situazione economica cinese dove l’attività privata gioca un ruolo importante per la modernizzazione che atteggiamento assumere nei confronti dei dirigenti o imprenditori di questo settore? Ammetterli nel Partito, nel rispetto dello Statuto e del Programma (che nell’enunciazione ha come obiettivo finale la realizzazione, seppur in un lontano futuro, del comunismo!) o far sì che essi ambiscano a costituirsi in partito autonomo che difendendo gli interessi di una classe determinata (la nuova borghesia!) nolente o volente entrerebbe in conflitto con l’impianto statuale a dittatura democratica del popolo sotto l’egemonia del Partito comunista?

E’ un rompicapo non semplice che la dirigenza ha voluto risolvere con la massima franchezza anzicché affrontarlo sottobanco.

Per inciso, nel Partito comunista italiano, Togliatti fece entrare elementi della piccola e media borghesia già alla fine degli anni quaranta con l’intento di utilizzarli come ariete per conquistare l’egemonia sulle classi medie ed avere un grande consenso elettorale. Ma non voglio fare alcun paragone perché le situazioni storiche sono diverse.

Io penso che questo argomento che appare così tanto scandaloso lo è realmente solo se si vede al di fuori del contesto delle tre rappresentanze, che ricordiamo sono:

Ora considerando che la domanda di iscrizione al Partito di un candidato, oltreché all’accettazione dello Statuto e del Programma, viene esaminata ed approvata dopo un periodo di verifica; qui con molta sincerità pongo una domanda:

1. O questa apertura è una bizzarria cinese, come tante nella storia della Cina, compreso il periodo di Mao (il ruolo assegnato ai capitalisti patriottici, l’educazione dell’ultimo imperatore al socialismo, dopo lo svolgimento del lavoro manuale come giardiniere, ecc.), per sopire una contraddizione latente nella società ed evitare il multipartitismo nel senso che le istanze borghesi legittime avranno rappresentanza di discussione nel Partito e nello Stato durante la lunga fase di transizione; quelle illegittime no ed infatti la funzione degli ammessi al Partito (quelli di oggi possono anche essere dei comunisti che con disciplina hanno eseguito od eseguono un certo ruolo nel settore privato su comando del Partito!) è di farli ragionare nell’ambito di un interesse nazionale unitario e non di classe e tra l’altro gli ammessi rappresentano una quota irrisoria di iscritti (inferiore all’uno per cento!) con una rappresentanza di qualche individuo in un Comitato Centrale di 198 membri effettivi e di un altro centinaio di supplenti.

2. Oppure diventerà una antinomia, cioè una contraddizione insita nello Statuto perché il comunismo si potrà realizzerare attraverso l’eguaglianza sociale e la scomparsa delle classi; quindi i comunisti che vengono dalla borghesia agiranno o per annullarsi come classe in una visione unitaria oppure si alimenteranno e dall’interno in un lungo processo ne conquisteranno la direzione e l’egemonia volgendo la transizione anziché verso una formazione sociale socialista di cui i lineamenti sono ancora approssimati verso la modernizzazione del paese in senso di rapporti di produzione capitalistici. Ma nemmeno questo eventuale intendimento potrà leggersi chiaramente, perché per affermarsi si deve calare in una realtà internazionale in cui gli Usa cercano di mantenere l’egemonia economica, politica e militare e mai e poi mai, così come è stato fatto dopo lo smembramento dell’Unione sovietica e dell’est europeo, accetteranno economie forti in competizione con loro. Basta guardare le esperienze della Russia e degli altri paesi dell’est europeo che nell’intrapresa del modo capitalistico di produzione dalla stagnazione sono passati al tracollo economico vero e proprio, allo smembramento statuale, a perdere un ruolo che avevano nel mondo.

In ultima analisi è la linea politica che decide le sorti di un Partito o di un paese, non certamente un’astratta considerazione sulle qualifiche professionali.

E la nuova dirigenza si dovrà subito cimentare con la politica di Bush di attaccare l’Irak, come altro passo dopo il precedente conflitto '90-91, la successiva guerra nei Balcani, i bombardamenti sulla Jugoslavia e l’occupazione del Kossovo, nonché l’occupazione dell’Afganistan, di legittimare per un lungo periodo storico non solo il controllo delle fonti energetiche, bensì il mondo unipolare sancito dopo il crollo dell’Urss. Ed infatti gli schieramenti che si sono determinati all’ONU sulla questione irakena riflettono questa contraddizione e la prossima guerra dovrà dare il risultato nel senso anzidetto oppure in quello di un mondo multipolare. Forse è anche questo il senso di quella"sconcezza" che vede nel PCC la presenza di avveduti "borghesi", i quali anche da parte loro si rendono conto che come classe emergente non si possono sviluppare sotto il peso dell’egemonia americana, a meno che si accetti di diventare classe compradora come quella russa che appoggiò Eltsin non solo nella distruzione del sistema economico sovietico, ma anche nella distruzione statuale dell’Urss oppure come quella del periodo imperiale o di Ciang Kaishek. Ma la storia della Cina è molto assimilata dal popolo cinese e non permetterebbe una cosa del genere.

15 novembre 2002

Giuseppe Amata

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