Qualche considerazione sulla ricostruzione del partito

Un intervento del compagno Italo Slavo

Siamo in una fase di grandi cambiamenti, perciò rivoluzionaria

Tra le tragedie causate dalla vandalica aggressione della NATO contro la Repubblica Federale di Jugoslavia, alcune delle quali ancora in atto (ad es. per i tumori e le malformazioni genetiche dovute ai bombardamenti sui petrolchimici) c’è da registrare paradossalmente un aspetto positivo: è impossibile adesso parlare o scrivere seriamente dei processi internazionali senza fare riferimento all’IMPERIALISMO. Per scrupoli di "political correctness" si può evitare di usare questo termine così com’è, ma è difficile evitare di menzionare le ragioni strutturali di quella aggressione: l’espansione ad Est della NATO, l’accaparramento delle risorse e delle vie di comunicazione... Ed approfondendo queste analisi si va necessariamente a descrivere il processo complessivo di disgregazione e negazione della sovranità degli Stati "scomodi" da parte di altri Stati e strutture sovranazionali (NATO, UE, ONU, BM, FMI, OSCE, eccetera), impegnate a rendere possibile la rapina delle risorse planetarie e la loro concentrazione in poche mani. Questo processo viene più o meno ingenuamente definito come "globalizzazione" da chi parla con le parole impostegli dalla classe dominante. Ma cos’è tutto questo, cos’altro è la "globalizzazione" se non, precisamente, lo stadio più elevato, necessariamente aggressivo, della espansione del grande capitale, cioè l’IMPERIALISMO?

Nella fase imperialistica si determina, all’interno dei vari Stati così come negli equilibri globali, una deriva autoritaria e violenta. Questa deriva è connaturata ad un potere che spezza esso stesso, via via, ogni "patto sociale" ed ogni preesistente criterio o luogo di mediazione del conflitto, sia esso sociale o istituzionale-internazionale (dalla Carta Costituzionale allo "stato sociale", alla esistenza stessa dei partiti e dei sindacati, al ruolo dell’ONU). A questa fase è dunque connaturato il "sovversivismo delle classi dirigenti". In Italia questo sovversivismo lo leggiamo adesso - al di là della "strategia della tensione" e dei pruriti golpisti con i quali è stata gestita la "Guerra Fredda" nel nostro paese - nella palese ed impunita violazione della Carta Costituzionale e di una infinità di regole del diritto nazionale ed internazionale, realizzata con la aggressione imperialista contro le popolazioni balcaniche. Ma tale sovversivismo lo leggiamo anche nella riforma in atto dello Stato in senso bipolarista-presidenziale, secondo il dettato massonico piduista, e nello sfascio del "welfare", dei contratti nazionali di lavoro, delle garanzie sindacali e politiche, anche attraverso i referendum antisociali di Bonino-Pannella. La situazione che si è determinata sarebbe dunque oggettivamente "rivoluzionaria", tendenzialmente certo se non ancora di fatto, poichè con i cambiamenti in atto le istituzioni vanno svuotandosi di legittimazione e tendono a destabilizzare se stesse - altro che "fine della storia"!...

Non dobbiamo poi fingere di non vedere che il mondo intero è "alla deriva" a causa della incapacità della borghesia di gestirlo. La borghesia, in una società capitalista come la nostra (a parte residui di proprietà statale che sono continuamente sotto attacco) possiede tutti i mezzi di produzione, quindi attua una vera e propria dittatura sulla società intera. Eppure come classe essa dimostra giorno dopo giorno di essere del tutto incapace di gestire questa realtà, generando viceversa la crisi e la decadenza che pure certi suoi esponenti talvolta dicono di volere arginare. Ma il fallimento della borghesia è inevitabile, perchè essa ha come unica logica comportamentale quella della massimizzazione del profitto: proprio perciò le sue azioni sono oggi un pericolo per la sopravvivenza stessa della umanità. La borghesia è strutturalmente incapace di garantire alla collettività nel suo complesso un livello ed una qualità accettabile di vita. Questa affermazione, al di là di ogni analisi globale (pesantissima ad esempio la analisi di Alberto Di Fazio sul libro "Imbrogli di guerra", nella quale si dimostra come la gestione delle risorse energetiche sia perversa e ci stia facendo andare verso il collasso ambientale), si può verificare in ogni momento della nostra esistenza, quando spendiamo intere giornate imbottigliati in macchina nel traffico cittadino così come quando ci ammaliamo di leucemia a causa delle bombe della NATO.

Il Partito Comunista in Italia

Il problema che si pone, una volta riconosciuto quanto sopra, è CHI e COME possa indirizzare la inevitabile destabilizzazione dei rapporti sociali ed istituzionali nel senso auspicato dai comunisti. La risposta ovvia è che serve subito una organizzazione dei comunisti, cioè il Partito Comunista.

In una intervista rilasciata poco prima della sua morte, il comandante "Giacca" raccontò che, avendo chiesto di entrare nel PCI negli anni Trenta, dovette aspettare per ben 6 anni prima che questo gli venisse concesso. Viceversa, chi scrive è nato quando nel PCI certe abitudini erano già state perse da tempo!... Oggi, per entrare in "Rifondazione" (PRC) - che è in qualche modo l’erede del PCI - non servono altro che poche migliaia di lire per "fare la tessera": all’interno del PRC non esiste controllo, nè cura della omogeneità di posizioni politico-ideologiche, tanto è vero che coesistono convinzioni opposte su tutto uno spettro di questioni peraltro cruciali (si vedano le attuali polemiche su "Liberazione" rispetto alla Jugoslavia o alla Cina). È innanzitutto per questa ragione che il Partito della Rifondazione Comunista non è un Partito, e dunque non può essere nemmeno il Partito Comunista di cui c’è bisogno per indirizzare il cambiamento sociale. L’esigenza di trasformare il "movimento per la Rifondazione Comunista" in un Partito Comunista è stata conclamata dal momento stesso della formazione di questa forza politica, ma per una serie di motivi, che non sto qui ad analizzare, questo processo non è mai veramente iniziato e ciò benchè negli scorsi anni probabilmente la maggioranza delle persone di convinzioni anticapitaliste presenti nel nostro paese (scrivente compreso) abbiano aderito almeno in una fase al PRC, per poi uscirne di fronte a qualche passaggio politico meno tollerabile degli altri.

Del "più grande Partito Comunista d’Occidente" oggi non rimane altro che una specie di "contenitore" di sensibilità difformi, la cui funzione sembra essere quella di rendere possibile la trasmissione "ai posteri" di simboli, bandiere, e di un pò di contraddittoria memoria del comunismo storicamente dato. Anche questo, certo, potrebbe essere un ruolo prezioso... grazie al PRC, oltre a rimanere aperti spazi di discussione e di mobilitazione, si conservano alcuni aspetti del patrimonio del PCI che sarebbe una tragedia per tutti se andassero perduti: una reale base proletaria militante; le Feste di "Liberazione"; le strutture fisiche, giornali e sedi; una rete organizzativa certo viziata da meccanismi perversi, ma diffusa su tutto il territorio nazionale. Tutta questa residua "ricchezza" è come bloccata, pietrificata, stagnante, oltrechè "monca" dal punto di vista politico-ideologico. Nel PRC, insieme a centomila idee diverse, sembra essersi cristallizzata infatti anche tutta la stagnazione progressivamente determinatasi nelle pratiche e negli ideali del PCI, da Togliatti a Berlinguer.

Bisogna comprendere la natura e l’origine di questa cronica stagnazione della organizzazione "storica" dei comunisti italiani per poter guardare in avanti e pensare ad un qualche superamento. Dobbiamo pertanto risalire almeno alle vicende attraverso le quali il PCI è diventato una componente istituzionale essenziale dell’Italia repubblicana, in seguito alla Lotta di Liberazione. Allora gli USA si appoggiarono alla mafia ed alla massoneria per imporre la loro egemonia sulla nostra terra, disarmando (in tutti i sensi) i partigiani e costruendo un sistema di poteri occulti che ha condizionato la vita civile. Se è comprensibile che gli USA abbiano ricattato il nostro paese, minacciandolo - tra stragi e gladiatori - nel caso in cui avessero avuto la maggioranza i comunisti, è meno comprensibile che il PCI non abbia detto la verità ai propri elettori per perseguire una linea tutta elettoralistica credendo, e facendo credere, che si potesse vincere in quella maniera. Questa abitudine a "far buon viso a cattivo gioco" può forse spiegarci la china e la totale perdita dei principali obiettivi strategici e culturali nella sinistra italiana. La dirigenza del PCI, di fatto egemone sulla classe operaia e su tutto l’antifascismo italiano, ha perseguito una linea politica esclusivamente interna al sistema democratico-parlamentare, riaffermando in ogni occasione la sua "compatibilità", nonostante già Gramsci avesse detto che aspettare finchè non si arriva ad ottenere la metà dei voti più uno è il programma di quelli che credono che il socialismo si instauri con un decreto del Re controfirmato da due Ministri...

Ben più che dall’URSS, impegnata a salvaguardare gli equilibri di Yalta e con questi, legittimamente, la sua stessa esistenza, forti critiche alla linea "togliattista" della "compatibilità" al sistema vennero dai cinesi, esplicitate ad esempio nel noto documento "Sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi". Quella politica "togliattista" ha portato a situazioni paradossali. Si può affermare che nel secondo dopoguerra sia stato proprio il PCI a garantire la tenuta delle istituzioni "nate dalla Resistenza" - quindi, apparentemente, democratiche per definizione - mentre settori della destra stragista minacciavano di minarle alle fondamenta. Nei tempestosi anni Settanta è stato soprattutto il PCI a difendere lo "status quo" nel nostro paese, ma la linea di Togliatti, con l’andare del tempo, si è intrecciata al più vile opportunismo - quello che fa sì che una guerra di aggressione neocoloniale contro un paese vicino venga condotta proprio da coloro i quali fino a pochi mesi prima davano del "fascista" a chiunque osasse mettere in discussione la Carta Costituzionale, a meno poi di violarla loro stessi! - nonchè, nella fase esiziale (dalla Bolognina in poi) al noto TRASFORMISMO che è il principale ingrediente della politica italiana sin dalla fine del secolo scorso. L’altra linea, quella progressiva e rivoluzionaria, fedele ai principi del marxismo e del leninismo, storicamente nel PCI si è arenata e spenta insieme a Pietro Secchia. Sulla sua figura e sulla analisi della dialettica tra queste due tendenze nel PCI, e tra lo stesso PCI ed ogni istanza di carattere rivoluzionario successivamente emersa all’interno della società italiana, merita certamente la lettura il libro "Secchia, il PCI ed il ’68", di Ferdinando Dubla. A coronamento di tutto il suddetto processo di omologazione siamo giunti, alla fine degli anni Novanta, all’ingresso nel Palazzo di una classe dirigente che non ha più nemmeno l’impronta della socialdemocrazia, e che ha "vinto" solo previa dismissione di tutti i suoi stessi valori fondativi, cioè tradendo in toto se stessa e la sua storia.

Della grande tradizione del PCI sopravvivono dunque solamente da una parte una specie di cristallizzazione svuotata di contenuti e potenzialità rivoluzionarie (PRC), ma caricata ulteriormente di componenti e contraddizioni; dall’altra un teatrino di imbroglioni ed affaristi (DS eccetera). Entrambi questi fattori sono abbastanza forti da rappresentare un blocco ed un impedimento per lo sviluppo di dinamiche rivoluzionarie. Però il movimento concreto della storia e della società, a livello nazionale e soprattutto internazionale, non è per niente "bloccato", come dicevamo all’inizio: siamo viceversa di nuovo in una fase "di guerre e di rivoluzioni". Perciò, possiamo dire che già si sente, e si sentirà sempre più forte con l’andare del tempo, la necessità di un superamento della fase di stallo attraverso un processo di ORGANIZZAZIONE di quelle istanze che non trovano più rappresentanza a livello politico-istituzionale.

Compito del Partito sarà prendere il potere

Quali esiti avrà il processo di auto-delegittimazione delle classi dirigenti? Il potere dei media, la manipolazione del consenso, sembrano essere tali da costruire nuove "legittimazioni" tutte artificiali, e dunque anche di imprimere svolte in direzioni inaspettate - proprio come il Fascismo ed il Nazismo sorsero in una fase di grave crisi sociale ed economica. Nell’Italia del "dopo-Ottantanove", ad esempio, abbiamo avuto sì un cambiamento di classe dirigente, ma non sostanziale bensì superficiale e tutto gestito con una operazione costruita a tavolino da chi detiene il potere reale! "Mani pulite" o "Tangentopoli" è il nome che a questa operazione è stato assegnato da coloro - giornalisti, propagandisti, strateghi, massoni - i quali l’hanno di fatto costruita. La vecchia classe politica "filo-araba", quella dell’ENI per intenderci, è stata apparentemente scacciata per far posto a personaggi senza scrupoli che ci dovrebbero "traghettare" verso il presidenzialismo bipolarista di cui sopra. Questi personaggi non sono nemmeno dei politicanti, sono semplicemente degli attori, che devono sapersi gestire spazi teatrali e televisivi, ed una montagna di soldi.

Bisogna innanzitutto capire questi meccanismi attraverso i quali il potere borghese riesce a perpetuarsi nelle fasi di crisi per saperli contrastare, e per assumersi credibilmente il compito di indirizzare in senso diverso, progressivo e rivoluzionario, l’evoluzione storica e sociale. Il Partito Comunista, come organizzazione dei comunisti, si prefigge come scopo quello di espropriare la borghesia monopolistica della sua proprietà e del suo potere per costruire una società basata sulla gestione collettiva - e alla collettività rivolta - dei mezzi di produzione. È una responsabilità enorme, che i comunisti si assumono non solo nei confronti delle classi subalterne ma proprio per la salvezza del pianeta e di tutti i popoli che ci vivono. I compiti del Partito Comunista andranno quindi ben al di là della organizzazione di campagne elettorali, della presenza parlamentare, del lavoro di comunicazione e proselitismo... Tutto questo è pure essenziale, e già darebbe la misura della nostra attuale inadeguatezza ed insufficienza, politica ed umana, ad imbarcarci fattivamente nella ricostruzione del Partito; ma non è ancora che una parte del problema complessivo di GESTIRE una società intera...

Poche idee pratiche

Di cosa dunque abbiamo bisogno per sottrarre alla borghesia monopolistica - insieme ai mezzi di produzione - la sua nefasta dittatura sulla intera società? Abbiamo bisogno innanzitutto di liberarci da una subalternità culturale che ci imprigiona. Proprio questo dovrebbe essere il ruolo degli intellettuali comunisti, i quali sono oggi però merce rarissima più che rara. Essi non vanno confusi con gli intellettuali tout court - che sono tradizionalmente al servizio della classe dominante, della quale giustificano e celebrano le azioni ed il dominio - nè tantomeno con gli intellettuali "impegnati" o "di sinistra" i quali, più o meno in buona fede, finiscono con il parlare il linguaggio del padrone ("globalizzazione" piuttosto che "imperialismo", "terzo settore" piuttosto che "sfascio dello stato sociale", eccetera). Gli intellettuali comunisti devono conquistare l’egemonia culturale servendosi della razionalità, della conoscenza e della scienza, strumenti che la borghesia in realtà non sa usare poichè se ne serve solo parzialmente e solo per accrescere il proprio profitto e la propria forza.

Certo, la evoluzione delle società a capitalismo avanzato come la nostra ha fatto sì che il ruolo della classe operaia - qui ed ora, ma non sempre e dappertutto - sia problematico da definire. Questo però non significa che si debba rinunciare alla egemonia ideologica e culturale dei comunisti. Anche i borghesi (e chi scrive è di estrazione borghese, benchè "proletarizzato") possono riconoscere i danni arrecati dalla loro classe e lavorare per porre rimedio, se hanno per davvero compreso che la alternativa rimane sempre e soltanto quella tra socialismo e barbarie. Forse, in Occidente la battaglia per l’affermazione ideologica e culturale dei comunisti è ormai demandata soprattutto a questi borghesi "illuminati": essi dovranno unificare la loro battaglia con la lotta dei proletari, in particolare con la lotta delle masse del Secondo e del Terzo Mondo.

Ma di cosa c’è bisogno *in pratica* per costruire l’organizzazione dei comunisti? Per iniziare dirò quali sono, secondo me, tutte le cose di cui NON c’è bisogno per ricostruire un Partito Comunista.

Non c’è bisogno di ansie da presenzialismo. No alla rincorsa delle emergenze, alla mobilitazione a tutti i costi che poi lascia solo l’amaro della frustrazione... Peraltro, dovremmo avere ormai imparato che nessuna manifestazione-passeggiata con palloncini e maschere può fermare una guerra. Poi, NON c’è bisogno di movimentismo, anzi: il movimentismo ha fatto danni gravissimi. No alle frenesie "firmaiole", alla illusione delle campagne d’opinione che poi non si sanno gestire perchè gli strumenti per farlo ce li ha solo la controparte! Bisogna liberarsi da una concezione "studentistica" del fare politica, e da una serie di pessime abitudini. Mi è recentemente capitato di essere invitato ad intervenire ad una iniziativa che si è tenuta a Roma: due giorni prima ricevo una telefonata e mi viene detto che, per lo stesso pomeriggio, ne è stata fissata anche un’altra sullo stesso identico tema ma, in più, anche di carattere decisionale-organizzativo. Ed il pomeriggio stesso scopro che ne era stata fissata pure una terza, contemporaneamente alle due precedenti. Nessuno, nel pur ristretto ambiente della sinistra antiimperialista romana, ha saputo spiegarmi il motivo di tali masochistiche coincidenze. Bisogna dare un taglio alle perdite di tempo ed al "poster-comunismo", che è molto peggio del "post-comunismo". Il "poster-comunismo" è l’impegno politico occasionale di chi incomincia e finisce la sua militanza nell’indossare la maglietta del Che. Viceversa, per la costruzione del comunismo la maglietta del Che è del tutto inutile, mentre può essere utile la conoscenza della vita e dell’opera di Guevara, se questa conoscenza non resta solo un patrimonio personale.

Quello che serve qui da noi è ritornare ad usare il sapere di ciascun comunista, a "spendere" per la nostra causa il nostro impegno e capacità lavorativa, il nostro tempo, a "riconvertire" il nostro lavoro (tutto) perchè sia lavoro utile a tutti oltrechè a se stessi. E tuttavia, subito nel processo organizzativo si porrà ancora un problema molto grande: quello dei mezzi materiali, ed innanzitutto dei soldi necessari a far funzionare il Partito. Non bisogna mai dimenticare che la borghesia lavora CONTINUAMENTE a mantenere e consolidare il proprio potere, ed anche i proletari ed i comunisti in genere, in quanto salariati dalla borghesia ovvero interni al sistema produttivo borghese, a loro volta per campare lavorano per la borghesia! Oggi come oggi "lavorare per la rivoluzione" significa dedicare tempo e fatica a titolo assolutamente gratuito, ed anzi mettendo spesso a rischio altri aspetti della vita personale. La borghesia dispone di intere Fondazioni, lautamente stipendiate, per studiare ogni minimo dettaglio del suo sistema di potere. Viceversa, solo per comprendere il sistema nel quale ci troviamo noi comunisti dobbiamo lanciarci in un lavoro di carattere volontaristico che ha dei limiti già nelle sue stesse premesse, visto che "la pagnotta" non può venire da questo... Ecco il motivo concreto del velleitarismo!

Soldi, strutture, macchinari, sedi, computer, giornali... tutto questo si costruisce solo con il lavoro e con l’organizzazione. E perchè non si sfasci tutto, c’è bisogno di serietà. Un Partito Comunista deve essere in grado di proteggere se stesso, innanzitutto guardandosi dalle infiltrazioni (e qui ritorno al discorso del comandante "Giacca" di cui sopra). C’è bisogno di un servizio informazioni affidabile, c’è bisogno di saper raccogliere e gestire le notizie, c’è bisogno di saper fare (contro)informazione, cioè destrutturare in ogni momento e senza un attimo di pausa la propaganda avversaria, e contemporaneamente diffondere cultura ed ideologia.

Contro il velleitarismo e contro ogni individualismo bisogna adottare dei codici comportamentali da comunisti: non l’interesse materiale, non il desiderio di improbabili affermazioni personali, ma l’uso costante della propria creatività ed un atteggiamento sempre dialettico, soprattutto nei confronti degli altri compagni. Questo anche perchè, mi sembra, in Italia oggi non si arriverà a nessun risultato nel processo di costruzione del Partito Comunista se non per sintesi, cioè per aggregazione di compagni e di strutture. Ogni soggetto deve mettere a disposizione la propria esperienza e ricchezza (chi organizzativa, chi di propaganda e comunicazione, chi teorica, chi di rapporti con compagni all’estero, eccetera) con la massima generosità. Per quanto riguarda il PRC, esso dovrà semplicemente scomparire per consentire la liberazione delle forze rivoluzionarie. Non "essere sconfitto", ma scomparire: il PRC deve essere "rivoluzionato" e diventare qualcosa di diverso. Io non so come questo può accadere, ma questo della fine del PRC è un nodo che riguarda tutti i comunisti in Italia. La fine del PRC non può essere "la sua sconfitta", bensì deve essere il suo superamento verso qualcosa di diverso, la trasformazione e "riconversione" di tutto il suo patrimonio ancora "spendibile".

Deve essere comunque chiaro che risolvere il problema della costruzione del Partito Comunista è necessario, per quanto difficile, e che arrivarci significa ormai ENTRARE direttamente nella fase rivoluzionaria. Costruire - per davvero - il Partito Comunista, in queste condizioni oggettive, significa ormai esattamente incominciare a FARE la rivoluzione.

Italo Slavo

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