Lotta contro la guerra

L'anello mancante

Non possiamo ancora dire che la bestia imperialista ha sollevato il masso della guerra e se l’è fatto ricadere addosso. Certo è che ci troviamo ad una svolta epocale a distanza di appena dieci anni dalla modifica degli equilibri internazionali successivi al crollo dell’URSS. Siamo passati dalla inarrestabile avanzata delle forze imperialiste ad una guerra contro l’Iraq che apre contraddizioni profonde nello schieramento offensivo sul piano politico, militare e strategico.

In questo contesto non è possibile nè serio fare ipotesi superficiali e ottimistiche. Gli Stati Uniti hanno certamente commesso madornali errori di previsione politica e di impostazione tecnica, errori che li stanno mettendo in serie difficoltà e minano la credibilità della campagna militare. Però una cosa è certa: la determinazione alla guerra di Bush e del suo criminale apparato è solida e prevede scenari sempre più foschi. La guerra è diventata una necessità fisiologica per l’imperialismo USA e questa necessità prevede l’allargamento dei conflitti e non è escluso che l’attuale guerra all’Iraq sia l’inizio di una guerra con caratteristiche mondiali.

Le ragioni di questa prospettiva ci sono tutte. Non solo i paesi arabi stanno vivendo una fibrillazione che può coinvolgerli tutti, ma anche lo scontro tra Stati Uniti e resto del mondo prevede sempre maggiori contrasti di fronte ad una aggressività che restringe lo spazio vitale anche delle grosse entità nazionali e regionali, a partire dall’Europa. Se è verò che alcuni atteggiamenti texani di Bush hanno trovato smentite rapide sul suolo iracheno, la determinazione alla guerra infinita è una scelta strategica che si concluderà solo con la fine dell’impero americano. Bisogna essere consapevoli che difficilmente il trend potrà essere invertito senza sconvolgimenti profondi. Questa consapevolezza, che ci deriva non solo dalla base leninista del nostro pensiero, ma anche da una analisi concreta dei fatti, ci deve portare a valutare le due questioni che stanno emergendo e che rappresentano i punti di orientamento per il lavoro dei comunisti.

Una prima questione riguarda il movimento contro la guerra. Per dirla come il Che, è ormai evidente che questa grande umanità ha detto basta alla guerra e si è messa in marcia. Anche il papa se ne è accorto quando ha affermato che la guerra non è solo contro la storia e contro la morale, ma è soprattutto un fatto che viene rifiutato dalla gente. In questo senso abbiamo assistito, in Italia e nel mondo, ad uno sviluppo di iniziative senza pari. L’Italia è tappezzata di bandiere iridate come se fossimo in un nuovo 25 aprile.

Questo testimonia che il rifiuto della guerra ha travalicato i vecchi steccati politico-ideologici ed è diventato coscienza popolare. Il fatto, come si è detto, non è solo italiano, ma mondiale. La mobilitazione contro la guerra diventa tanto più forte quanto più i governi si pronunciano a favore della guerra. Nei paesi arabi e islamici la solidarietà coi combattenti iracheni è totale. E’ ovvio che la costruzione di ogni ipotesi di lotta passi attraverso questa realtà. Ma allo stesso tempo dobbiamo domandarci: perchè la guerra continua o, meglio, le guerre imperialiste vanno avanti?

Al fondo di questa contraddizione c’è il fatto che l’imperialismo ha una strategia e le forze che vengono travolte dai suoi attacchi o coinvolte nelle sue avventure non hanno respiro strategico. Per quanto grandiose nelle loro dimensioni, le proteste pacifiste non fermano la guerra e questo sarà vero finchè la strategia di lotta non sarà in grado di mettere l’imperialismo in crisi strategica. Questa crisi dovrà avvenire sul piano militare e su quello politico.

Oggi la questione militare è affidata all’impegno degli arabi e del movimento islamico. Se come si spera il Medio Oriente sarà il nuovo Vietnam per gli americani, tutto il potenziale del movimento contro la guerra potrà trasformarsi in una base per un nuovo passaggio epocale di trasformazioni sociali e nei rapporti internazionali.

Se la questione militare si gioca per ora nello scontro armato in Medio Oriente, la questione politica ripropone come necessità storica lo sviluppo di organizzazioni che abbiano il respiro strategico e la capacità tattica di seguire la dinamica innescata dalla nuova spirale imperialista e la sappiano utilizzare per colpire efficacemente il nemico e rovesciarne le contraddizioni. Gli imperialisti americani e le forze mondiali ad essi collegate hanno previsto scenari di guerra che prevedono scontri armati di vaste dimensioni e contro questa strategia la protesta non basta. La protesta, il rifiuto della guerra e della logica imperialista sono la base dello sviluppo della nostra forza, ma dentro questa dinamica il fattore organizzazione e il fattore strategia diventano essenziali.

Per questo si pone oggi, ai compagni e alle compagne il problema dello strumento con cui combattere, del partito in cui organizzarsi. La questione è posta oggettivamente, ma non ha trovato ancora il punto di maturazione e di sintesi. A ben vedere e paradossalmente, in questo momento di massima offensiva imperialista, sono proprio gli antimperialisti e quelli più coerentemente antimperialisti, i comunisti, ad essere i grandi assenti. Sulla scena ci sono tutti, dai cattolici ai no global, dai pacifisti ai disobbedienti, ma manca una forza organizzata contro l’imperialismo che abbia un disegno strategico. Alcuni compagni, negli ultimi tempi hanno preso atto, sconsolatamente, di questa realtà e si sono rifugiati in attività testimoniali che non hanno certamente retto alla complessità e ai livelli della nuova situazione, diminuendo così la loro visibilità politica. A questi compagni stiamo rivolgendo da tempo l’invito a consolidare i rapporti e trovare una via comune, al di fuori di ogni ipotesi gruppettara.

Ora che la crisi è esplosa e che il movimento contro la guerra richiede un impegno di chiarezza teorica e di dimensioni strategiche ci sentiamo ancora più frustrati e impotenti, costringendoci ad affidare ai kamikaze le nostre speranze. Ma come ha ben detto un falco del governo Sharon alla televisione italiana, "ai kamikaze siamo ormai abituati e ci siamo attrezzati", come gli americani sono convinti che basta liquidare Saddam per vincere, morti a parte. Chi oserà dire, di fronte alla vittoria delle armi, che la guerra non è stata fatta per la democrazia?

Uscire dai ghetti e costruire una discussione su queste questioni può essere un primo passo per individuare quello che si può definire l’anello mancante di questa straordinaria stagione aperta dalle guerre imperialiste.

Dopo tante accademie sulla costruzione del partito, dovremmo lavorare a questa ipotesi dentro la crisi imperialista e su necessità oggettive. La mancanza di una risposta, darebbe un giudizio inappellabile sui teorici del partito qui e subito e sui numerosi comunisti ‘diffusi’ che alla prova della storia si trastullano ancora col chiacchiericcio ‘antimperialista’.

Roberto Gabriele

Ritorna alla prima pagina