Globalizzazione e antimperialismo

I due documenti di politica estera pubblicati su "Liberazione" negli ultimi giorni costituiscono indubbiamente un notevole salto di qualità nel dibattito teorico-politico del nostro partito. Finalmente, si può dire, Rifondazione comunista comincia a discutere pubblicamente sui problemi che sono costitutivi della sua stessa ragion d’essere. Detto questo, è necessario però entrare nel merito delle due proposte che sono state avanzate, proposte che si presentano per larghi aspetti come alternative e difficilmente conciliabili.

Nel suo articolo già comparso su "l’Ernesto", il compagno Sorini ha sviluppato un’analisi della dinamica degli attuali rapporti di forza internazionali che rivendica in maniera evidente ed esplicita l’impiego della categoria leniniana di imperialismo. Su questa base, ha poi tracciato un quadro delle possibili alleanze anti-imperialiste internazionali fra forze politiche (anche statali) comuniste e forze politiche (anche statali) borghesi-progressiste interessate a sottrarsi al dominio del colosso statunitense e dei suoi vassalli. Mi sembra un’analisi seria e soprattutto argomentata, che tiene conto della sconfitta inflitta dagli USA e dal loro blocco al movimento comunista internazionale con l’abbattimento di gran parte del campo socialista e che, dunque, cerca di delineare un quadro realistico di resistenza di lungo periodo, tenendo conto che nessuna rivoluzione socialista mondiale sembra alle porte e che si tratta di fare i conti con le forze che abbiamo a disposizione.

Proprio qui emerge la radicalità della divergenza con le posizioni di Mantovani, sintomo a sua volta di una più profonda e radicale spaccatura di prospettiva politica - e persino di mentalità - che è presente nel nostro partito sin dalla sua nascita e di cui è urgente, ormai, prendere consapevolezza. Il compagno Mantovani, nella sua replica, muove infatti da premesse del tutto contrapposte a quelle di Sorini, premesse che però non vengono esplicitate come meriterebbero. Mantovani afferma apertamente, infatti, che la cosiddetta "globalizzazione" costituisce il compimento di una vera e propria transizione interna del modo di produzione capitalistico, tale da aver generato "un nuovo capitalismo" largamente diverso da quello con cui abbiamo finora avuto a che fare. Finanziarizzazione, concentrazione e passaggio al "post-fordismo" avrebbero prodotto una sorta di nuovo paradigma, che muta completamente lo scenario politico-sociale e impone al movimento anti-capitalista una totale ridefinizione - sul piano della politica interna e di quella internazionale - delle proprie forme politiche e di coscienza. Una ridefinizione che implica, a guardar bene, il superamento integrale dell’esperienza del movimento comunista novecentesco e in particolar modo del leninismo, considerato come un’esperienza politica ormai del tutto esaurita le cui analisi risultano per noi largamente inservibili. Si tratta di una cosa grossa, insomma: di una condanna a morte del progetto comunista moderno che è vano tentare di far passare nelle forme di un generico "aggiornamento" e che andrebbe, piuttosto, dichiarata senza infingimenti e - soprattutto - sottoposta a dibattito nel partito (tanto più nel momento in cui il segretario propone il superamento dell’esperienza di Rifondazione come partito comunista autonomo e la sua confluenza in una sorta di federazione della "sinistra d’alternativa").

In questa tesi, tuttavia, ciò che più colpisce è proprio l’assenza di quella "dimensione anticapitalistica e di classe" che viene rimproverata a Sorini. La rappresentazione delle trasformazioni del modo di produzione come un processo endogeno, legato a dinamiche tutte interne ai meccanismi economici e tecnologici, infatti, sembra rimuovere completamente la questione del conflitto di classe. Interpretando in tal senso questi movimenti, se ne equivoca la natura, confondendo la forma fenomenica con cui essi si manifestano con la loro essenza dialettica più profonda. Non solo si trascura del tutto il fatto che tali processi non costituiscono affatto una novità, ma che - prima tra tutte la finanziarizzazione - sono dinamiche intrinseche al modo di produzione capitalistico e di natura ciclica, ma soprattutto si fa sparire completamente la contraddizione di classe che li genera. Così come è avvenuto a suo tempo per il fordismo, il passaggio al "post-fordismo" non è affatto un salto interno al modo di produzione che proceda per vie puramente economico-tecnologiche ma semmai un processo che è in primo luogo di natura politica. Esso consiste nel libero scatenamento di dinamiche già in gran parte inscritte nel capitalismo sin dal suo sorgere e che nel corso del Novecento solo la crescita di forza relativa della classe operaia aveva tenuto a freno. Sconfitta sul piano internazionale, la classe operaia viene attaccata anche sul piano della politica interna e l’avversario di classe è libero di fare ora ciò che ha tentato di fare sin dall’inizio e che avrebbe fatto già da tempo, se ne avesse avuto la forza. Una classe operaia forte e cosciente, viceversa, mai avrebbe consentito - e mai ha consentito, finché è stata tale - quella trasformazione della fabbrica e dei rapporti produttivi che l’ha scomposta compromettendone così gravemente la capacità di potere politico.

Lo scardinamento del Welfare non costituisce nessuna novità dirompente della "globalizzazione", perché lo Stato sociale non è affatto un apparato consustanziale ad una forma specifica di capitalismo pianificato dai borghesi per neutralizzare l’impeto rivoluzionario delle masse ma un punto di compromesso politico-sociale - strappato nel corso della lotta di classe per l’emancipazione economica e la democrazia moderna - del quale i nostri avversari avrebbero fatto di buon grado a meno. Allo stesso modo, ad esempio, l’attacco ai contratti nazionali di lavoro non è una novità del "neoliberismo" - concetto discutibile e anch’esso spesso presentato come una fantomatica nuova forma del capitalismo - perché (basta rileggere i classici del liberalismo tout court) la borghesia europea non si è mai minimamente sognata di unificare spontaneamente il soggetto antagonista e avrebbe volentieri evitato i contratti collettivi già all’epoca del sorgere della produzione di massa (il contesto sociale statunitense, gravato dalla radicale disparità tra classi lavoratrici bianche e proletariato nero, è stato sin dall’inizio radicalmente diverso).

Sarebbe impossibile, in questa sede, mostrare come proprio quella prospettiva che muove dalla categoria di "neoliberismo" finisca per ridimensionare drasticamente la stessa contraddizione capitale-lavoro cui, pure, Mantovani intende richiamarsi (non a caso, molti interventi ispirati alle stesse posizioni finiscono con il rivendicare una valenza "non subordinata" per contraddizioni diverse, come quella ambientale o quella di genere). Più urgente è, qui, mostrare come l’idea di "globalizzazione" cui il suo intervento fa riferimento entri in collisione diretta con l’apparato teorico più potente che il movimento operaio sia finora stato in grado di produrre in merito alle dinamiche capitalistiche internazionali. Non è il caso di richiamare le teorie leniniane sull’imperialismo, che certamente tutti i militanti di Rifondazione comunista conoscono bene. E’ necessario ricordare, però, come in esse risulti centrale proprio la questione della sovranità nazionale, che Lenin, lungi dal liquidare come un pregiudizio borghese, si preoccupa di mettere in relazione diretta con il movimento d’espansione aggressiva del capitale finanziario concentrato. Proprio la contraddizione tra imperialismo e sovranità nazionale, in particolare, rende la guerra d’aggressione una realtà sempre potenzialmente inscritta nell’ordine borghese internazionale.

L’idea di un capitalismo globalizzato ultra-imperialistico che realizzi "una sorta di governo unipolare" - quell’"ultraimperialismo" che Lenin, non a caso, considerava un’"ultrastupidità" - finisce dunque per rimuovere la stessa radice materiale della guerra contemporanea, rendendone impossibile una corretta comprensione storico-materialistica. Si tratta di un’innovazione del corpo teorico del movimento operaio dall’enorme portata, che è certamente legittimo proporre ma della quale - anche in questo caso - sarebbe auspicabile un’esplicitazione più chiara: ciò che qui si afferma, infatti, è l’obsolescenza integrale del leninismo. Tuttavia, la tesi della fine dello Stato-nazione è difficilmente sostenibile, come spiegano Amin e gli economisti e i politologi borghesi di più chiara fama (tranne Ohmae, le cui analisi sono auspici paradossalmente convergenti con quelli di Mantovani) ma soprattutto la signora Albright. Anche in questo caso, la carenza di analisi di classe dell’intervento di Mantovani è molto grave. In esso, infatti, si perde completamente di vista quel processo di ridefinizione dell’interesse nazionale che costituisce, oggi, uno degli assi portanti della strategia de-emancipativa borghese. L’interesse nazionale viene ridisegnato, espellendo dalla piena cittadinanza dello Stato borghese quelle classi subalterne che solo con la fatica della lotta l’avevano conquistata. Esso tende a coincidere, oggi, con l’interesse di quelle classi che non hanno bisogno di alcuno Stato per la propria tutela. E’ chiaro, allora, che la difesa della sovranità nazionale costituisce un punto-cardine sia per un programma comunista di politica estera che per uno di politica interna. Nulla c’entra qui il "nazionalismo", in merito al quale, pure, domina ormai incontrastato quell’equivoco che lo assimila genericamente al nazionalismo aggressivo di stampo imperialistico, che è tutt’altra cosa.

Ma è poi una gran novità questa "globalizzazione"? In realtà, come dice Luttwak, sin dalla fine della seconda guerra mondiale gli Usa si sono impegnati allo spasimo "per l’unificazione dell’economia mondiale negoziando la rimozione di ogni genere di barriera ai commerci, agli investimenti e al rilascio di licenze". "Il movente decisivo per la liberalizzazione dei commerci", però, "fu sempre di ordine politico e strategico". E cioè, in parole povere: "Il GATT era stato chiaramente concepito come il corrispettivo commerciale dell’alleanza strategica stretta dall’intero occidente contro l’Unione Sovietica". Eppure, nota con stupore il politologo americano, c’è pure qualcuno a cui "il semiaperto mercato globale di oggi appare naturale". In realtà, esso non è il risultato di un’immanente dinamica sistemica del modo di produzione bensì "è in larga misura… una creazione degli Stati Uniti, il risultato di oltre cinquant’anni di diplomazia americana, di pressioni e di volontà degli Stati Uniti". E’ questa la realtà con cui oggi dobbiamo confrontarci: quella "globalizzazione" che viene intesa come un’irresistibile transizione interna del capitalismo, tale da determinare un salto epocale ed imporre alla sinistra mondiale di tagliare i ponti con l’eredità del leninismo, con il partito e l’idea di conquista dello Stato, si rivela nient’altro che l’esito storicamente determinato della strategia imperialistica adottata dagli Stati Uniti nella fase del conflitto di sistema con l’Unione Sovietica e il campo socialista. A questo processo ("globalizzazione" = imperialismo statunitense) si interseca, oggi, il risorgere di una dinamica distinta. Si tratta del conflitto inter-imperialistico organizzato sulla base di grandi spazi geopolitici, un conflitto che era già attivo dalla fine del XIX secolo e che, interrotto dalla guerra fredda dopo la sconfitta del nazismo, risorge oggi nella forma della contrapposizione delle tre grandi aree regionali presidiate da USA, Giappone e Unione Europea.

Il confronto economico e politico tra queste macro-regioni deciderà, sostiene Thurow, chi "dominerà il XXI secolo". Per quanto riguarda i comunisti, però, è nella crescita economica, politica e militare delle regioni esterne a questi tre grandi blocchi e da esse minacciate - in primo luogo la Cina -, nonché nella loro capacità di trarre vantaggio dalle contraddizioni inter-imperialistiche, che risiede l’unica realistica possibilità di un nuovo e diverso ordine multipolare della terra. Il coordinamento sempre più stretto di questi Stati nazionali è, in questo senso, la premessa fondamentale per ogni strategia anti-imperialistica unitaria, e non a caso Fidel Castro - a differenza di Mantovani - approva con queste parole l’ingresso della Cina nella WTO: "Se i paesi del Terzo Mondo agissero uniti, e con la Cina finalmente all’interno della WTO, quest’organizzazione potrebbe diventare uno strumento di giustizia, uno strumento di resistenza di fronte all’egemonia degli Stati Uniti, al nuovo ordine economico e politico che essi ci hanno imposto". Sono queste le dinamiche che dovrebbero guidare l’azione politica dei comunisti in Italia e in Europa: la lotta per lo sganciamento della macro-regione europea dall’alleanza con quella nordamericana e per un suo graduale avvicinamento ad un possibile polo anti-imperialista. E’ una strada infinitamente più realistica dell’appello retorico a un "nuovo internazionalismo", che sarà pure "sociale e dei popoli" e fautore politically correct dei "diritti umani" (come Clinton, del resto), ma per costruire il quale mancano i soggetti detentori del potere politico (né gli agricoltori americani bianchi che hanno partecipato alla protesta di Seattle sembrano le forze più adatte a fare la rivoluzione).

Stefano G. Azzarà

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