Caso Faurisson e senso di responsabilità'

Aldo Bernardini


Qualche riflessione, a distanza, sul caso Faurisson a Teramo, anche come risposta al messaggio di Paolo e Roberto del 2 giugno 2007. Considero normale la reazione di una parte della redazione di Aginform (la parte che io riconosco “operativa”): qualunque cosa si pensi del “negazionismo” rispetto a quello che viene correntemente chiamato l'Olocausto degli ebrei, lo sterminio compiuto dal nazifascismo, non sono più tollerabili, nel sistema anche costituzionale in cui viviamo, “verità di regime”. Quei tragici fatti, alquanto ritagliati e decontestualizzati, sono divenuti una sorta di intoccabile evento mitologico, che non solo circoscrive a una parte soltanto delle vittime il proprio mitico o mistico alone, ma ne trae conseguenze politiche inaccettabili: ad es., la legittimazione di un'occupazione coloniale (che è del 1948, non del 1967) ai danni dell'innocente popolo palestinese. Una sacralità poi che viene utilizzata per stabilire criteri di bene e male assoluti nelle vicende storiche, utili a giustificare gli orrori compiuti attualmente dalla parte (per ora apparentemente) vincente: quanta ipocrisia in chi si agita per veri o presunti sfregi al chiamato Olocausto, nel silenzio più assoluto per il martirio inflitto oggi a popoli che solo lottano per l'indipendenza. E servono a una “criminalizzazione” assoluta e demonizzante della parte allora perdente (i nazifascismi, certamente autori di crimini inenarrabili , ma questo certo non esaurisce l'analisi…), che è un ostacolo alla comprensione storico-sociale del nazifascismo; addirittura ad estendere tali criteri “criminologici” alla parte decisiva, nel 1945 (i comunisti anzitutto sovietici), nella vittoria contro il nazifascismo, che a questo finisce oscenamente per venire equiparata, così da veder costituito una volta per tutte un “asse del bene” nella odierna vicenda mondiale (“i nostri”): al quale al peggio vengono ascritti “tragici errori” e “danni collaterali” in operazioni complessive che per sé risultano giustificate (diritti umani, esportazione della democrazia…), mai invece parlandosi di politiche radicalmente e integralmente criminali (aggressioni, invasioni, occupazioni, bombardamenti aerei…) da parte dei novelli e aggiornati nazifascisti.

Non c'è dubbio che, come ogni fatto storico, anche il nominato Olocausto possa e debba essere studiato e se ne debba poter parlare. Non può accettarsi che non si ritengano consentite in proposito una ricerca storica non conformista e la relativa espressione. E' anche proprio un simile atteggiamento “proibizionista” di principio e senza sfumature che provoca le reazioni magari eccessive, che arrivano al “negazionismo” (essendo chiaro che la radice di questo è comunque soprattutto nei residui tuttora operanti del nazifascismo). Nel nostro sistema (e ciò può dunque non valere per altri sistemi, ad es. rivoluzionari) questo vale per ogni settore culturale, per ogni idea: non vi sono (fortunatamente! e sarebbero incostituzionali) leggi che stabiliscano che un'idea è proibita, è buona o cattiva, ma tanto meno la decisione in merito può spettare all'autorità amministrativa (ministro, rettore di Università). Naturalmente, in sede politica e culturale, noi, intendo proprio noi comunisti e marxisti-leninisti, sappiamo che vi sono concezioni aberranti e che rifiutiamo: personalmente, la negazione assoluta o la minimizzazione della Shoah ritengo siano storicamente e storiograficamente escluse, ma ciò va affrontato appunto in sede culturale e politica, non certo giuridica. Al tempo stesso però ne va, nelle stesse sedi, ripristinata l'esatta portata con estensione alle altre vittime e devono essere respinte le aberranti conseguenze che se ne traggono. Al riguardo, ad ogni buon fine, una considerazione di opportunità: a fini politici mi pare più utile evitare il polverone inevitabilmente determinato dalla questione in sé dell'Olocausto ebraico, per soffermarci invece sulle inaccettabili sequele politiche, ai danni dei palestinesi.

Come si concilia però il principio di libertà di ricerca ed espressione, che riaffermo, con la realtà, con il “senso comune” generalizzato e cristallizzato, con il sentimento, per quanto ci riguarda più da vicino, di tanti compagni autentici, generalmente schierati dalla nostra parte, ma che sulla vicenda Faurisson sono stati categorici nella condanna dell'iniziativa centrata su questo stesso personaggio? Con la necessità, dall'altra parte, di incidere su tale senso comune e modificarlo? Come ogni volta che si toccano aspetti del senso comune consolidati e atti a suscitare ondate emozionali (sincere o strumentali che siano…), occorre verificare che in concreto si sia operato e si operi – e qui il giudizio sulle singole e specifiche iniziative può discostarsi dai principi astratti sopra accennati, e da cui non può operarsi per semplice applicazione deduttiva – con consapevolezza delle conseguenze, con pieno senso di responsabilità, con attenzione ai diversi contesti e ambienti (una sede di partito o culturale autonoma è altro da un'Università, e in questa la didattica è attività particolarmente delicata…), con scelte adeguate di protagonisti e di possibili riequilibri dialettici, con rispetto delle regole amministrative e procedurali in specie di un'istituzione universitaria (in mancanza vi è abuso dell'istituzione), con la cura del non coinvolgimento di persone inconsapevoli in situazioni arrischiate…

Tutto ciò è mancato nell'iniziativa di Teramo. E' chiaro che sento il disagio provocato dalla reazione “pavloviana” di massa all'episodio Faurisson, che è scaturita anche nel quadro del condizionamento “mitologico” di cui sopra. Perché allora, riaffermata in principio la libertà di ricerca e di espressione, non ho potuto solidarizzare, da componente dell'Ateneo teramano e della Facoltà di Scienze politiche, con l'iniziativa Farisson? Proprio perché non ho riscontrato in essa gli inderogabili requisiti di affidabilità e responsabilità – ne ho enunciati alcuni –, che soli avrebbero potuto consentire, soprattutto nel preciso contesto universitario, un'impresa oggettivamente di estremo rischio: che è pura follia e politico suicidio portare avanti come mera provocazione, sfida contro tutto e contro tutti. Oltretutto, a chi vuole parlarsi, qual è il popolo cui ci si rivolge pur con tutta la giusta critica all'odierno conformismo di massa? Non scendo in particolari, ma riguardo a Faurisson siamo informati da Domenico Losurdo che egli parte dall'idea per cui “Hitler non ha ucciso nessuno per ragioni di razza o di religione”: forse questo è un po' troppo e non contribuisce alla credibilità del personaggio… Quanto alle regole universitarie, si è dovuto formalmente constatare che il Master “Enrico Mattei” (dove fra l'altro l'iniziativa Faurisson è nata già con la proiezione di un DVD, mentre il suo trasferimento in un corso d'insegnamento nominalmente esterno al Master appare solo espediente dell'ultimo momento…) è stato gestito senza appropriate convocazioni dell'organo collegiale decisionale, del tutto esautorato, mentre appare assolutamente carente la documentazione amministrativa. Sicché il Consiglio di Facoltà di Scienze politiche, solo marginalmente toccato il caso Faurisson, non ha potuto nella sostanza che commissariare il Master (per non interromperlo, dunque nell'interesse degli studenti) in vista di ulteriori decisioni di Ateneo. Particolare di colore, che non è insignificante ma conferma come equilibrio e senso di responsabilità non abbiano presieduto alla gestione di tutta la vicenda: nella seduta del Consiglio di Facoltà di Scienze politiche, che stava prendendo le decisioni fondamentali sulla questione, il coordinatore del Master (cui si deve l'iniziativa Faurisson) è stato sorpreso a registrare di nascosto la seduta, come è stato verbalizzato. Per non parlare poi di altri avvilenti comportamenti, quali le raffiche di strampalati e a volte deliranti messaggi di contumelie assurde, spesso non pertinenti, distorsive della realtà, che mirano a denigrare chi comunque non si schiacci sulle posizioni del coordinatore, incapace questi persino di distinguere, nella sua furia totalizzante, elementi non consoni con il pensiero unico e quindi, in fondo, corrispondenti al principio astratto che egli afferma sotteso alla sua iniziativa. Si può difendere tutto ciò? E' segno di affidabilità e responsabilità?

Senza dubbio, nei fatti avvenuti fuori dell'Ateneo il 18 maggio u.s., vanno condannati gli atti di “squadrismo sionistico”, ma neppure può apprezzarsi la contrapposta “squadra nera”, unica a circondare Faurisson e il coordinatore, protagonisti della vicenda.

Alla luce di quanto detto, anche se io in teoria avrei preferito altra soluzione, devo ribadire che non può certo respingersi, soprattutto perché i fatti successivi e l'inaffidabilità complessiva di tutto il contesto hanno confermato la pericolosità della situazione, la decisione di “ordine pubblico” del Rettore Mattioli. Mentre vanno respinte in assoluto altre motivazioni ventilate nel corso della vicenda, come quella ad es. di una valutazione formale di non scientificità di Faurisson, espressa da sedi giuridicamente non competenti.

In conclusione: è inevitabile distinguere i principi astratti che condividiamo e la gestione concreta di una vicenda, che ha portato a rovesciare il significato e il risultato dell'operazione Faurisson. Una distinzione senza dubbio non facilmente percepibile dal di fuori, ma non di meno reale e sostanziale. Chi appare vincitore a Teramo sono, da una parte, drappelli di fascisti che hanno trovato modo di rialzare la testa, dall'altro proprio i sionisti: e questo non per “colpa” di chi ha contrastato nell'Ateneo (era prevedibile che vi sarebbero state forti opposizioni, giustificate o meno che si ritengano), bensì per il modo in cui è stata portata avanti un'iniziativa (oggettivamente rischiosa) come quella con al centro Faurisson. E ciò ha bruciato, certo per buon tempo, ogni possibilità di affrontare a Teramo e in tutto l'Abruzzo, per non parlare dell'Università, i temi che proponete e nella nostra prospettiva. Se lo farà la Facoltà con la sua maggioranza, sarà tutt'altra canzone… altrimenti, vi sarebbe la strada aperta dell'estrema destra e delle sue sedi, che non credo si renda per noi percorribile.

Aldo Bernardini

26 giugno 2007

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