Referendum sull'Articolo 18: Un dibattito aperto

Nel penultimo numero del nostro foglio, accanto a un mio pezzo di positivo apprezzamento per il significato politico del referendum sull’art. 18 (in risposta a precedenti posizioni dei compagni Dubla e soprattutto Curatoli), è comparsa una nota non firmata, e quindi "redazionale", che riprende con veemenza le critiche all’iniziativa referendaria e sembra dunque voler mettere in quei termini il punto finale di "Aginform" sulla questione. Ritengo nel metodo che sarebbe stato più opportuno far uscire una nota finale più tardi e possibilmente dopo dibattito in redazione. Nel merito, confermo le mie valutazioni: molte posizioni di R.c. e in particolare di Fausto Bertinotti meritano critica anche assai ferma, anche assai decisa o addirittura rigetto: la concezione del Partito, la storia del movimento operaio e comunista, Stalin, Unione Sovietica e paesi socialisti, la necessità di difendere le rivoluzioni socialiste, il dogma della non violenza (attenzione: non la violenza fine a se stessa ma la risposta e la reazione alla violenza del sistema e dei dominanti soprattutto nella fase del cambiamento e quindi in quella del lavoro per una nuova società e della difesa di questa vanno ritenute fenomeni storicamente molto plausibili, forse inevitabili, e tale è la lotta contro l’oppressione coloniale, il nuovo colonialismo, l’imperialismo: si potrebbero demonizzare oggi la resistenza palestinese e quella irakena?), la negazione della necessità della presa del potere, e così via. Si tratta di punti fondamentali che ci separano da una concezione, per la quale il socialismo regredisce da scienza a utopia, fra l’altro ripresentando posizioni che non sono affatto nuove. Quando leggiamo, in un "contributo di Fausto Bertinotti al dibattito per lo sviluppo del movimento" ("Liberazione", 24 ottobre 2003), che "la critica alla guerra ha perso… ogni elemento, anche soltanto simbolico, di schieramento nella contesa, in quanto la critica alla guerra e il nuovo pacifismo hanno proposto la fuoriuscita dallo schema in cui guerra e terrorismo si fronteggiano", ci domandiamo, a parte la cancellazione della resistenza all’aggressione che sembrerebbe assurdamente assorbita nel "terrorismo" ed a parte quindi l’ambito ed il significato che si dà al terrorismo stesso: ma allora non si distingue più tra oppresso e oppressore, aggredito e aggressore, occupanti e resistenza (di nuovo, oggi, palestinese e irakena)? Che cosa significa questo chiamarsi fuori dalle lotte effettive? Lo riteniamo sbagliato, irresponsabile nei confronti di chi lotta contro l’imperialismo e in definitiva… troppo comodo. Ma veramente non ci rendiamo conto che se gli irakeni non resistessero, altre aggressioni sarebbero già state lanciate? Essi in realtà combattono per tutti coloro che vogliono vera pace e indipendenza. Riprenderemo il discorso, che però non ci impedisce considerazioni solo in apparenza contraddittorie.

Resta infatti che, sul piano sociale interno, al momento attuale, con tutte le inefficienze e manchevolezze teoriche e di prassi, R.c. è apparsa come la forza (istituzionale) più avanzata, almeno nelle esigenze sociali sollevate (si vedano, da ultimo, gli scioperi degli autotranvieri), nonostante equivoci e contraddizioni. E che in una fase storica, in cui si è cercato, da "sinistra", di cancellare lotta di classe, centralità del lavoro, significato del proletariato e della classe operaia, costituisce un merito quello di almeno gettare nell’agone politico e sociale queste tematiche, che si tenderebbe a obliterare del tutto. Anche se l’azione di R.c. può almeno in parte essere vista al tempo stesso come "gabbia" nei riguardi di obiettivi e lotte comunisti. Ma lo stesso vale, e ancor di più, per altre forze politiche di "sinistra".

Ecco allora il referendum: l’elemento decisivo non è il risultato "giuridico", prevedibile, bensì la mobilitazione sul problema del lavoro, che ha contribuito fortemente alla spaccatura dei D.s.: e questo è un risultato politico comunque importante. Così, tra i D.s., Cesare Salvi si esprime ("Liberazione", 25 settembre 2003) nel senso di sperare che nelle prossime consultazioni elettorali "ci sia il consenso e il voto di tutti coloro i cui valori, diritti, interessi sono colpiti da questa destra. A partire da coloro che hanno espressi i dieci milioni di sì sull’art. 18: una battaglia che, anche per questa ragione, non va archiviata". E’ sterile soffermarsi solo sugli elementi negativi: una visione dialettica, come deve essere quella dei marxisti-leninisti, critica le debolezze, ma incassa, non rigetta, gli aspetti positivi, che si deve essere capaci di mettere a frutto. Da questo punto di vista, il referendum sull’art. 18 è meglio che vi sia stato, di fronte all’offensiva avversaria, rispetto al silenzio e all’assenza di reazioni all’aggressione contro i diritti del lavoro. Nei riguardi dei quali, anche la manifestazione dei tre milioni è certo bene vi sia stata, ma pure essa, in sé, sarebbe stata insufficiente se non inserita in un processo di cui fanno parte il referendum e gli scioperi attuali. Tutte azioni sulle quali, non contro le quali, i comunisti dovrebbero saper agire e prendere l’iniziativa: soprattutto nei confronti della base di un partito frastornato dalle giravolte dei dirigenti. E questo vale sempre: davanti alla necessità di fermare l’attuale governo nella sua ormai pericolosa incidenza su equilibri sociali di base, su diritti fondamentali, su garanzie giuridiche, anche su un certo livello di moralità pubblica, sia pure "borghese", dobbiamo certo essere consapevoli pure della estrema e sottile pericolosità del "centro-sinistra". Ed è proprio qui che andrebbero messe a frutto la mobilitazione, referendum incluso, per il lavoro e quella contro la guerra. E’ sui programmi dell’alleanza che si va preparando e poi sulle realizzazioni concrete che si dovrà puntare la critica più severa e attenta, con l’occhio alla forza (istituzionale) più "avanzata", R.c., che rischia di cadere nuovamente nel gorgo del politicismo e del governismo a tutti i costi e di dissipare quindi i risultati delle mobilitazioni avvenute. Ciò di cui, purtroppo, oggi si palesano segni gravi e precisi, a cominciare dalle ignave posizioni sulla resistenza irakena, ma non solo.

La lettera di Bertinotti al "Corriere della Sera" (11 dicembre 2003) sull’identificazione oggi tra comunismo e non violenza e il rigetto della storia passata e l’articolo di "Repubblica" del 27 dicembre, ripreso da "Liberazione" il giorno successivo, sulla "lunga marcia del segretario di Rifondazione… dal proletariato ai no global", paragonata a una "Bad Godesberg allungata" nel tempo (ma quella fu un Congresso, qui Bertinotti fa tutto da solo, col sostegno dei "nuovisti"del partito) indicano un processo degenerativo, in cui il mantenimento del termine "comunista" - per quanto tempo? - sembra lo specchietto per ipnotizzare la base: è la stessa tecnica dei Gorbaciov e di altri liquidatori. La verità è che questa parte, purtroppo dirigente, di R.c. è propriamente anticomunista, se prospetta dalla grazia dei dominanti, per sollecitazione di spinte dal basso, l’attuazione del fondamentale principio dell’uguaglianza di fatto tra gli esseri umani ("l’abolizione, uguale per tutti, della proprietà privata dei mezzi di produzione") e quella di una gestione sociale, e non privata, dell’economia. Si predica il disarmo dei dominati di fronte alla perdurante e crescente violenza organizzata dei dominanti, il cedimento alle aggressioni e alle invasioni. Sogno di idioti o calcolato smantellamento di ogni argine contro il virulento imperialismo odierno, per accreditarsi magari a cogestirlo. Vero è che nella valutazione storica è infantile, e giova solo ai dominanti, la conta delle vittime di una parte e dell’altra, e tanto più ciò è vero per il "chiamarsi fuori" (vedi il convegno bertinottiano sulle foibe), ma deve valere - pur nella dovuta attenzione ad evitare vittime innocenti, purtroppo non sempre possibile - il criterio della giustezza della causa, nella gigantesca guerra civile interna ed internazionale che è tuttora in corso sul piano mondiale (ai non violenti piacendo o no), pur con tutte le distorsioni dovute all’impazzimento conseguente alla fine dell’Unione Sovietica e del campo socialista: sempre dovendosi mettere su un piatto della bilancia le centinaia di milioni di vittime del sistema capitalistico-imperialistico per il suo "naturale" funzionamento.

Aldo Bernardini

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