Attualita' del socialismo

Nessuno aveva previsto la Grande Crisi del comunismo, tanto meno quelli che ora - peraltro con qualche fondamento - ne collocano la fase acuta non nell' '89, squallido e inglorioso finale, ma prima, nel '56 o piuttosto, e questa è la novità, nel "glorioso" '68 (V.M.Tronti, "Il tramonto della politica"). Malgrado questa ridda di periodizzazioni, nessuno, tranne una pattuglia come la nostra afflitta da maniacale ottimismo della volontà, si azzarda a scommettere un soldo bucato sull'ipotesi politica di un '89 come inizio della parabola discendente finale non del comunismo ma del capitalismo.

La lunga parentesi sovietica aveva creato robusti anticorpi alle leggi dell'accumulazione capitalistica, proteggendo il capitale dalle sue proprie tendenze autodistruttive. Ma dopo l' '89, il moderno Gulliver capitalistico si è liberato di un colpo dell'economia mista, di quella sociale di mercato, del welfare e del keynesismo, di tutte le varianti populistiche e socialdemocratiche di ridistribuzione sociale del reddito.

Ma è andato ben oltre il liberismo manchesteriano, che in realtà, come hanno mostrato le ricerche di Arrighi e Wallerstein, si può ben definire liberismo di Stato, nel senso che allo Stato era riservato un ruolo determinante sia nella nascita sia nel mantenimento di un quadro normativo strutturale che permetteva il gioco cosiddetto libero delle leggi di mercato.

Il liberismo reale era quindi cosa diversa dalla propria autorappresentazione ideologica.

La peculiarità dell'odierno liberismo sta invece proprio nel suo dare realtà alla sua proiezione utopico - ideologica, mettendo in atto un'economia senza Stato, la privatizzazione totale di ogni funzione produttiva, di servizio e persino istituzionale (si discute, in Inghilterra, su un eventuale appalto ad aziende private della funzione di difesa militare del Paese...) nel contesto di una globalizzazione che sopprime gli Stati semplicemente mettendoli da parte.

E non si tratta di obiettivo - limite, da realizzare all'infinito. In un decennio, possiamo dire, l'utopia si è già incarnata per metà. Prendiamo la mondializzazione. Che senso ha combatterla, dal momento che essa è quasi ultimata? Si può tornare indietro dai livelli di inaudita concentrazione e centralizzazione cui la socializzazione capitalistica ha dato luogo in gran parte dei più importanti settori produttivi e dei servizi? Le micro aziende del software di solo 10 anni fa si sono trasformate nel monopolio mondiale Microsoft, nell'industria aeronautica si è costituito il duopolio Airbus/Boeing, in quelle dell'hardware, militare, automobilistica, petrolifera tra pochissimo le aziende si ridurranno a 5 o a 6 mentre colossali processi di fusione aziendale, che nel '98 hanno totalizzato l'astronomica cifra di 2000 miliardi di dollari, stanno interessando tutti i settori dell'economia.

Questi ultimi 10 anni sono stati caratterizzati da un incontrastato e crescente potere di impresa, uscito vittorioso dallo scontro sia con il movimento comunista sia con la classe operaia d'Occidente. Interesse sociale e interesse di impresa si sono completamente identificati: le lotte sindacali quasi ovunque sono cessate o sono state senza difficoltà battute, a riprova delle falsità di tutti i vaneggiamenti di varia provenienza sul movimento comunista come gabbia o freno delle lotte sociali.

L'introiezione profonda della sconfitta del comunismo la troviamo anche nella classe lavoratrice USA. Solo quest'introiezione permette di comprendere come mai abbia da alcuni anni cessato di operare - sul mercato americano del lavoro - la legge della domanda e dell'offerta, per l'interruzione, tra il 1° e il 2° passaggio, del ciclo: 1 piena occupazione, 2 incremento sensibile dei costi unitari del lavoro e della massa salariale, 3 accensione o aumento dell'inflazione, 4 ascesa dei tassi di interesse, 5 diminuzione della produzione, dell'occupazione e dei salari.

Nonostante un livello di quasi piena occupazione, i lavoratori non riescono più a ottenere consistenti aumenti salariali. E non a causa della precarietà dei lavori, sia perché in America la precarietà c'è sempre stata e non sempre ha giocato a sfavore dei lavoratori, sia perché oggi riguarda una parte limitata dei nuovi posti di lavoro. Più verosimilmente, la caduta della lotta sul salario è imputabile alla caduta di ogni orizzonte di oltrepassamento dell'interesse d'impresa dopo il crollo dell'alternativa sovietica.

E cosi gli anni '90 sono diventati sempre più simili agli anni '20, quelli in cui viene incubata la Grande Crisi capitalistica del '29. La differenza sta nell'illusione di poter oggi contrastare il ristagno della domanda generato dall'impasse salariale, a sua volta conseguenza del dominio dell'impresa, con la manovra sui tassi di interesse e la massa dei rendimenti di titoli azionari posseduti da cerchie sempre più ampie di investitori. Il fatto è che la manovra sui tassi incentra limiti ben determinati e che i lavoratori, contrapponendosi a se stessi in quanto salariati, contribuiscono, in quanto azionisti, a comprimere le proprie retribuzioni influendo negativamente sulla domanda globale. Quest'ultima quindi cresce con lentezza, in proporzione solo alla massa salariale generata dall'occupazione aggiuntiva.

In presenza di incrementi di produttività modesti per la scarsa spinta al rinnovamento tecnologico esercitata dalla passività operaia, s'innesca un processo esteso e accelerato di fusioni aziendali volte a risparmiare lavoro con mere misure di razionalizzazione organizativa per incrementare gli utili e quindi i rendimenti azionari. L'attesa di utili in rialzo incrementa più che proporzionalmente rispetto agli utili il prezzo delle azioni, mentre i loro rendimenti rimangono modesti. Perciò quando una parte dei detentori di azioni si renderà conto di possedere titoli che solo in parte rappresentano una reale ricchezza o un'ipoteca di ricchezza futura certa, comincerà a venderli prima che i loro prezzi crollino, così generandolo, il crollo, e provocando una conseguente brusca e forte caduta della domanda globale, dei consumi, della produzione e dell'occupazione.

Questa sarà, nei prossimi anni, la probabile evoluzione del mix strapotere di impresa + passività operaia in USA: la depressione. In Asia gli scorsi anni le cose sono andate diversamente: centrale è stata, per un certo periodo, la combattività operaia. In Cina il comunismo è soprvvissuto contro ogni previsione grazie ad alcune innovazioni pratiche e teoriche - "l'economia di mercato socialista" come necessità della "fase primaria del socialismo"- che, sia pure a prezzo di una pesante caduta di immagine politica internazionale, hanno generato nel Paese un formidabile e prolungato sviluppo. Della vicinanza di una Cina in ascesa, del pericolo politico da essa rappresentato per il mondo capitalistico dell'Asia orientale hanno da un lato dovuto tenere conto i circoli dirigenti, dall'altro approfittato - opportunisticamente, viene da dire - i lavoratori, sia per stabilizzare l'occupazione, come in Giappone, sia per lanciare, in Corea del sud e nel sud est asiatico, quando si sono raggiunti i livelli di piena occup azione, poderose offensive salariali che hanno strappato incrementi anche del 20% annuo per più anni consecutivi, deprimendo gli utili aziendali, rendendo impossibile la restituzione dei prestiti bancari, inducendo crolli bancari e valutari, l'aumento vertiginoso dei tassi di interesse, la caduta verticale della produzione, in talune situazioni la catastrofe sociale e politica. (Abbiamo cercato di fare quello sforzo di interpretazione seria della crisi asiatica, di cui tempo fa l'economista Krugman, chissà perché, proponeva il rinvio). Ma alla fine, come dappertutto, anche la combattività degli operai d'Asia si è dovuta arrendere al risultato addirittura controproducente di un movimento autolimitato al terreno sindacale, confermando che la lotta di classe a livello mondiale continua a svolgersi nel segno dell'iniziativa strategica capitalistica, che dispone illimitatamente di tutti i fattori di produzione e non incontra alcun ostacolo politico al proprio strapotere economico. Accecato dal proprio stesso disp otismo il capitale automaticamente reagisce al ristagno della domanda aggregata provocata dalle misure di deregolamentazione e privatizzazione con altre misure della stessa natura, volte cioè a risparmiare "capitale variabile" (l'unico che, come sappiamo da Marx, può generare plusvalore e profitto!) con la flessibilità e i bassi salari, mettendo in moto un movimento spiralato al ribasso. E così, contraddittoriamente, gli USA chiedono ad Europa e Giappone, da un lato di deprimere la domanda rompendo la "rigidità" del mercato del lavoro e riducendo la spesa pubblica, da un lato di farla aumentare con la riduzione delle imposte, gran parte della quale però sarebbe utilizzata improduttivamente per acquistare aziende pubbliche in svendita e altre aziende da razionalizzare (altri tagli occupazionali), oppure gonfiare la bolla azionaria.

Di fatto, le scelte USA - FMI restano fondamentalmente deflattive e consapevolmente tali, nell'assunto che la disarticolazione di tutte le rigidità del mercato del lavoro comporta necessariamente un drastico aumento planetario della disoccupazione, fino a quando i lavoratori non siano costretti ovunque a mendicare lavoro a qualsiasi condizione il dominio di impresa magnanimamente lo conceda. Pertanto vengono visti con favore i crolli occupazionali presenti o futuri in Russia, Indocina, Brasile, Giappone, Europa. E per quanto in questi Paesi i governi cerchino di frenare il disastro produttivo e sociale con misure di keynesismo emergenziale - nazionalizzazione provvisoria di aziende bancarie e industriali, forte aumento della spesa pubblica con illimitate emissioni di obbligazioni - l'effetto positivo di tali misure è ben lontano dall'eguagliare i danni di una "razionalizzazione" soverchiante.

E' indubbio che l'economia mondiale è entrata in una fase di durevole e sempre più profonda depressione, da cui la parte più competitiva e moderna del capitale USA, quella che attualmente mena la danza, spera uscirà rigenerata come sistema in cui lo sfruttamento e il profitto, liberi da ogni impedimento politico o di mercato, potranno instaurare il proprio eterno paradiso in terra.

Nella nostra contrapposizione a tale folle utopia, noi dobbiamo guardarci dal combattere ciò che è strumento invece di ciò che è scopo, ciò che è causa invece di ciò che è effetto, ciò che è secondario invece di ciò che è principale.

Il nemico non è la finanziarizzazione dell'economia, poiché gli strumenti finanziari in determinate condizioni potrebbero adempiere a utili funzioni di misurazione indiretta dell'efficacia del lavoro sociale. E neanche il mercato, che può e deve essere utilizzato per evitare la deresponsabilizzazione dei soggetti produttivi nella lunga e accidentata marcia verso una società alternativa. E tanto meno la mondializzazione in sè, che invece bisogna battersi per realizzare fino in fondo, con una dura lotta per imporre il diritto per i lavoratori di tutto il mondo di fuggire dalla miseria per trasferirsi in totale libertà nelle aree di produzione della riccheza.

Il nemico è la sovranità d'impresa: anche la "public companyn più conforme al proprio modello, anzi proprio essa, deve fare esclusivamente gli interessi dei propri azionisti, ai quali importano nient'altro che le occasioni immediate relativamente a rendimenti e plusvalore. L'interesse sociale generale attuale e futuro cade assolutamente fuori dalla sfera di interesse dell'impresa, così come vi cadono i propri salariati, capitale variabile il cui minimo esborso frutti il massimo rendimento.

Il nemico è dunque ancora e sempre la proprietà privata. Tanto più oggi, quando, come dicevamo all'inizio, sempre di più essa si concentra in titanici monopoli ed oligopoli transnazionali che, liberi da ogni condizionamento pubblico e irradianti nello stesso tempo una potentissima influenza sociale, sono portatori di depressione economica, profonde distorsioni della struttura produttiva, disastri ecologici di immane portata.

Alla fine il capitalismo si rivela essere questo e solo questo. Il capitalismo dal volto umano c'è stato, ma ormai appartiene irrimediabilmente al passato. Forse nella Grande Crisi del comunismo ha operato l'astuzia della storia, forse un destino a noi benigno ha voluto che la nostra crisi servisse a scoprire il volto orrendo del capitalismo perché ne risultasse la radicale insostenibilità e ne fosse mille volte desiderabile la fine. Questo destino si sta compiendo, sotto i nostri occhi.

Di esso sono parti integranti la ripresa e la vittoria dell'iniziativa soggettiva comunista.

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