In occasione dell'8 marzo, giornata internazionale della donna

I comunisti e il velo

di Adriana Chiaia

Accade ai giorni nostri, in uno dei Paesi del G8, cosiddetto "civile"

E’ stata recentemente approvata dall’Assemblea nazionale francese, con divisioni all’interno dei partiti, una legge governativa sulla liceità di indossare o esibire a scuola simboli religiosi. La cortina fumogena dell’affermazione del laicismo nasconde in pratica la proibizione per le donne di indossare il velo islamico.

Molte organizzazioni che in Francia si battono per l’uguaglianza dei diritti delle persone, indipendentemente dalla razza, nazionalità e credo religioso, hanno sottolineato come questi diritti, anche se dovrebbero essere garantiti dalle "Commissioni distrettuali per l’accesso alla cittadinanza", appositamente istituite, e se raccomandati nelle direttive dell’Unione Europea, restino lettera morta per le comunità immigrate per quanto riguarda questioni vitali quali le assunzioni al lavoro, l’assegnazione degli alloggi, l’accesso all’istruzione e al sistema sanitario pubblico. In tutti questi campi sono all’ordine del giorno le discriminazioni, persino nei confronti dei giovani immigrati di seconda generazione, tra l’altro originari dei paesi ex-colonizzati dalla Francia, immigrati che vivono in condizioni di ghettizzazione nelle periferie parigine e delle altre grandi città. Come sempre, le donne vivono una doppia condizione di discriminazione: in quanto donne devono lottare contro le leggi capitaliste del massimo profitto (sui luoghi di lavoro) e contro la mentalità maschilista (tra le mura domestiche e nella società) e in quanto emigrate contro i pregiudizi razziali.

Si deve inoltre osservare che molto spesso l’esibizione di simboli religiosi, politici o tradizionali rappresenta per le comunità discriminate, al di là del loro significato intrinseco, un segnale di affermazione della propria identità. Da questo punto di vista il velo indossato dalle donne musulmane, anche culturalmente emancipate, cessa di essere un segno di oppressione per rivendicare invece un’appartenenza. La legge recentemente approvata viene quindi interpretata come il rifiuto di riconoscere e rispettare le diversità.

Senza prendere atto del quadro di disuguaglianza economico - sociale sopra denunciato e senza porvi rimedio assicurando l’esercizio di un’effettiva uguaglianza, lo Stato francese non può imporre a colpi di decreti una "integrazione" formale delle minoranze straniere, ed in particolare delle donne, nei propri valori.

Quale emancipazione femminile?

La questione di fondo sopra considerata, parità formale o parità effettiva, si estende ad un campo più generale: quello dell’emancipazione femminile, che riguarda tutte le donne e, naturalmente, l’intera società. Nell’ambito della parità di genere quale dovrebbe essere il ruolo dello Stato, che, ancora una volta, non può consistere in vuoti e retorici riconoscimenti formali e nell’imposizione di regole o proibizioni? Il ruolo dello Stato dovrebbe consistere nell’emanazione di leggi che garantiscano, e non solo sulla carta, la parità dei diritti dei sessi in ogni campo, da quello del lavoro a quello dell’istruzione, e nell’istituzione di strutture amministrative e di servizi sociali che ne assicurino l’attuazione e ne consentano l’esercizio effettivo da parte delle donne. Senza di ciò, ogni orpello, del tipo delle recenti direttive europee sulle quote di genere nelle liste elettorali dei gruppi parlamentari, lascia il tempo che trova.

Tuttavia, anche una base giuridico - istituzionale non di pura facciata costituisce soltanto la condizione perché la lotta per l’emancipazione delle donne possa avere successo. Condizione necessaria ma non sufficiente, poiché la parità della "metà del cielo" rispetto all’altra metà dipende in modo determinante dalla presa di coscienza della propria condizione di inferiorità e di oppressione da parte delle donne stesse e dalla loro volontà di lotta per superarla e condurre una battaglia culturale che le veda protagoniste e che investa e trasformi l’intera società.

Accadde, settant’anni fa, in un Paese del cosiddetto "impero del male"

Ci sembra istruttivo, a questo proposito, proporre l’esperienza della lotta per l’emancipazione femminile in situazioni economicamente e culturalmente arretrate quali quelle della Siberia e di altre piccole località asiatiche dell’Unione Sovietica negli anni Trenta. Ce le descrive, con grande senso della realtà e viva partecipazione, Anna Louise Strong, nota scrittrice e giornalista statunitense, della tempra dei suoi connazionali John Reed e Edgar Snow, che furono capaci di varcare le colonne d’Ercole dei pregiudizi anticomunisti del loro paese e del mondo occidentale e di rappresentare con onestà intellettuale la realtà delle nuove società socialiste che osavano costruire un nuovo mondo senza sfruttamento ed oppressione. Anna Louise Strong ha trascorso gran parte della sua vita in Unione Sovietica dopo la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre e, successivamente e fino alla sua morte nel 1970, nella Repubblica Popolare Cinese. L’autrice ci offre, nelle pagine del suo libro L’era di Stalin che riguardano appunto il tema dell’emancipazione della donna, lo spaccato di una di quelle realtà, ricche di valori universali, che il revisionismo storico imperante vorrebbe cancellare dalla nostra memoria. Ne riportiamo alcuni stralci.

"In tutte le parti dell’Unione Sovietica il mutamento della condizione della donna fu uno dei cambiamenti più importanti della vita sociale. La rivoluzione diede alla donna l’eguaglianza legale e politica: a questa l’industrializzazione fornì la base economica nell’eguaglianza del salario. Ma in ogni villaggio erano ancora vive le abitudini durate per secoli, e le donne dovettero lottare contro il loro potere. Di un villaggio siberiano, ad esempio, si seppe che, dopo che le fattorie collettive ebbero dato alle donne un salario indipendente, le spose "scioperarono" contro il venerando costume patriarcale di picchiare le mogli e lo spezzarono in una settimana.

‘ La prima donna eletta dal Soviet del nostro villaggio si prese gli scherni di tutti gli uomini - mi raccontava una presidente contadina. - Ma all’elezione successiva eleggemmo sei donne e adesso tocca a noi ridere ‘. In Siberia, nel 1928, incontrai venti di queste donne presidenti di Soviet sul treno per Mosca, dove andavano a partecipare a un congresso femminile: la maggior parte di esse viaggiava in treno per la prima volta, e una sola era già stata fuori dalla Siberia nella vita. Erano state invitate a Mosca a "consigliare il Governo" sulle esigenze delle donne: i loro direttivi le avevano elette, e adesso andavano.

La lotta più dura per la libertà della donna fu quella che si svolse nell’Asia centrale. Qui, le donne erano semplici oggetti di proprietà: vendute giovanissime per il matrimonio, non apparivano più in pubblico, da quel momento, senza l’orribile paranja, un lungo velo nero tessuto di crine di cavallo, che copriva tutto il volto ostacolando la vista e la respirazione. Per tradizione i mariti avevano il diritto di uccidere la moglie che si fosse tolta il velo e i mullah - i preti musulmani - sostenevano questa tradizione con l’aiuto della religione. Donne russe portarono un primo messaggio di libertà in queste tenebre: nei nidi d’infanzia le donne indigene impararono a togliersi il velo in presenza l’una dell’altra e a discutere i diritti delle donne e i mali del velo. Il partito comunista fece pressione sui suoi membri perché permettessero alle loro mogli di togliere il velo.

Quando visitai Tashkent per la prima volta, nel 1928, una Conferenza di donne comuniste annunciò: ‘ Nei villaggi arretrati delle campagne la nostre compagne vengono violentate, torturate e uccise. Ma questo sarà un anno storico per i nostri paesi: l’anno in cui la faranno finita con l’orribile velo’. Questa risoluzione veniva lanciata proprio mentre alcuni eventi tragici ne sottolineavano la portata. Il corpo di una ragazza, studentessa a Tashkent, che aveva voluto dedicare le sue vacanze al lavoro di agitazione per i diritti delle donne nel suo villaggio natio, fu rimandato a pezzi alla scuola, su un vecchio carro recante la scritta: ‘Questo è per la vostra libertà delle donne ‘. Un’altra donna, che aveva rifiutato le attenzioni di un proprietario terriero e sposato un contadino comunista, fu assalita da una banda di diciotto uomini sobillati dal signorotto: la violentarono, mentre era all’ottavo mese di gravidanza, e gettarono il suo corpo nel fiume.

Vi furono poesie, scritte dalle donne, che esprimevano la loro battaglia. Per Zulfia Kahan, una combattente per la libertà delle donne che fu arsa viva da un mullah, le donne del suo villaggio composero un canto di dolore:

O donna, la tua lotta per la libertà non sarà
dimenticata in questo mondo.
Il tuo fuoco: non pensino che ti abbia consumata!
La fiamma in cui ti hanno arsa
è una fiaccola nelle nostre mani.

Buchara, la ‘città santa ‘, era la città di questa ortodossia d’oppressione. Qui, nella ‘città santa ‘ fu organizzata una drammatica azione collettiva di getto del velo. Verso l’8 marzo, giornata internazionale della donna, corse voce che ‘qualcosa di spettacolare sarebbe accaduto’: in quel giorno, comizi di massa di donne furono tenuti in diversi luoghi della città e le oratrici chiesero all’uditorio che ‘si levassero il velo tutte insieme ‘. Allora le donne passarono davanti al palco: giunte davanti al podio, gettarono il velo e poi, tutte insieme, andarono a sfilare per le strade. Erano state erette delle tribune per i dirigenti e i membri del Governo, che salutavano la sfilata. Alcune donne uscirono dalle loro case, si unirono alla sfilata e gettarono il velo davanti alle tribune. Così fu rotta la tradizione del velo nella città santa di Buchara."

Queste cronache, vivaci e realistiche, meritano alcune riflessioni. La prima è che esse mostrano che lo Stato socialista dell’Unione Sovietica riunì tutte le condizioni per favorire - anche in una situazione di estrema arretratezza - il dispiegarsi della lotta per la liberazione delle donne, costrette nei ceppi di una tradizione medievale, familiare e religiosa. Cioè lo Stato adottò tutte le misure politiche, giuridiche ed economiche - quelle che abbiamo precedentemente indicato come indispensabili - per sostenere il movimento di emancipazione delle donne. Ma non basta: la lotta per la liberazione delle donne fu iscritta nella battaglia culturale più generale per l’emancipazione delle masse lavoratrici, in particolare di quelle contadine, dall’alfabetizzazione fino ai livelli più alti dell’istruzione.

Il secondo aspetto importante che emerge da queste testimonianze è il ruolo del partito comunista, caratterizzato dalla determinazione e dalla dedizione, fino al sacrificio della vita, dei suoi membri. Un partito, portatore di civiltà ed avanguardia di lotta, ma interno alle masse come il seme nella terra, come il lievito nel pane.

Tale è stata la natura del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, diretto prima da Lenin e poi da Stalin. Tuttavia queste sue caratteristiche di avanguardia della classe operaia e di profondo legame con le masse non erano virtù metafisiche, ma il risultato di una linea politica vincente, al prezzo di una dura lotta all’interno del partito, condotta dai suoi dirigenti, sostenitori di un avanzamento sulla via socialista, verso il comunismo, contro i sostenitori di un graduale ritorno al capitalismo. Quando, dopo il XX Congresso, nel gruppo dirigente del PCUS prevalsero questi ultimi, cioè le correnti revisioniste, ebbe inizio il declino che portò al crollo dell’Unione Sovietica e allo scioglimento del partito stesso.

I nuovi partiti comunisti che si ricostruiranno dovranno far tesoro delle esperienze del PCUS e degli altri partiti comunisti, per imparare da quelle positive ed evitare di ripetere quelle negative.

Questo processo di critica delle deviazioni e degli errori del passato, che è compito di tutti i sinceri comunisti, non ha niente a che vedere con la campagna anticomunista condotta, in chiave volgare e grossolana, dai comunicatori al soldo della borghesia e, in versione più sofisticata, dai loro lacchè sedicenti di sinistra. Gli uni e gli altri fanno a gara per inventare quotidianamente "errori ed orrori" allo scopo di dipingere un volto ripugnante del comunismo e dei suoi ideali e con l’illusione di esorcizzare e scoraggiare, in tal modo, il sorgere di una nuova ondata rivoluzionaria.

Alcune conclusioni

Nostro compito non è soltanto quello di smentire simili campagne calunniose, ma soprattutto quello di studiare e riscrivere la storia del movimento rivoluzionario, dei partiti comunisti che lo hanno guidato e dei paesi socialisti nati grazie alle loro lotte vittoriose. Nel periodo della massima espansione del campo socialista, la sua popolazione ha raggiunto un terzo dell’umanità.

Nonostante il loro crollo, i paesi socialisti ci hanno lasciato un ricco patrimonio a cui attingere. Dobbiamo indagare - usando il metodo del materialismo dialettico come strumento di interpretazione della realtà - e ricostruire le tappe del processo di costruzione del socialismo (cioè della fase di transizione dal capitalismo al comunismo). Processo che ha dimostrato la superiorità del modo di produzione socialista rispetto a quello capitalista. Si pensi, ad esempio, ai grandi progressi economici, sociali e culturali conseguiti dall’Unione Sovietica negli anni Trenta, quando il sistema capitalista si dibatteva in una crisi profonda, e alla ripresa, straordinariamente rapida e in tutti i campi, dell’Unione Sovietica, uscita dalle immani perdite umane e dalle devastazioni causate dall’invasione nazi-fascista.

Una mole enorme di studio che richiede il concorso di tutte le forze che lavorano per la rinascita del movimento comunista.

Una ricerca non accademica, non da consegnare agli archivi, ma che serva a fare sì che l’attuale, idealistica aspirazione ad "un mondo migliore", parola d’ordine delle masse popolari che si mobilitano per il lavoro e i diritti sociali e contro le guerre imperialiste, si trasformi in consapevole volontà di lotta per il comunismo.

Adriana Chiaia

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