Intervista a Noam Chomsky

Intervista raccolta da Iaia Vantaggiato, Il Manifesto 20/9/2001

Sarà un caso, ma parlare con uno dei maggiori linguisti contemporanei non rappresenta mai un problema. Sempre raggiungibile, nonostante le migliaia di e-mail che affollano la sua posta elettronica; sempre disponibile, nonostante le interviste che da tutto il mondo gli vengono richieste: allo spirito critico e alla passione per la militanza Noam Chomsky non rinuncia. Con lui, profondo conoscitore della politica estera statunitense, commentiamo i tragici avvenimenti della scorsa settimana.

Nessuna vittima accompagnò la caduta del muro di Berlino eppure quell'evento modificò completamente lo scenario geopolitico mondiale. Ritiene che gli attentati dell'11 settembre possano produrre un cambiamento di uguale portata?

La caduta del muro di Berlino è stato un evento di grande importanza e ha certo modificato il quadro geopolitico, ma non come abitualmente si ritiene abbia fatto. Gli eventi dell'11 settembre rappresentano un fatto assolutamente nuovo per il mondo: non per le loro dimensioni né per la loro natura, ma per il loro obiettivo. E' la prima volta - dalla guerra del 1812 (ndr, il conflitto anglo-americano combattuto sul confine del Canada) - che il territorio nazionale degli Usa viene attaccato o anche solo minacciato. Molti commentatori hanno tracciato un'analogia con Pearl Harbor ma è un paragone che porta fuori strada. Il 7 dicembre del 1941 furono infatti attaccate le basi militari statunitensi di stanza in due colonie, non il territorio nazionale che non fu mai neanche minacciato.

A questo allude quando parla di «novità» dell'obiettivo?

Assolutamente. Nel corso del tempo, gli Usa hanno sterminato popolazioni indigene (milioni di persone), hanno conquistato metà del Messico, sono intervenuti violentemente nelle regioni circostanti, hanno conquistato le Hawaii e le Filippine (uccidendo centinaia di migliaia di filippini). E, nella seconda metà del '900, hanno esteso il ricorso alla forza nella gran parte del mondo intero. Il numero delle vittime è incalcolabile. Ora, per la prima volta, le armi sono state rivolte contro di loro. Si tratta di un cambiamento drammatico che non riguarda solo gli Stati Uniti. Pensiamo per esempio all'Europa che, nel passato, ha conquistato gran parte del mondo con altrettanta brutalità: salvo rare eccezioni, gli europei non sono mai stati attaccati dai paesi vittime del loro colonialismo. Certo, hanno patito stragi e distruzioni, ma sempre determinate da conflitti interni, da guerre tra stati europei. Per intenderci, l'Inghilterra non è mai stata attaccata dall'India, né il Belgio dal Congo, né l'Italia dall'Etiopia. Non stupisce, quindi, che l'Europa sia rimasta profondamente scioccata dagli attentati dell'11 settembre. E, di nuovo, non a causa delle loro dimensioni. Cosa questo sia destinato a provocare esattamente, nessuno può saperlo. Ma che si tratti di qualcosa di radicalmente nuovo mi sembra evidente.

Non crede che quegli attentati possano essere spiegati anche con la fragile «costituzione politica» dell'Impero, con l'esistenza di problemi legati alla sovranità?

Sicuramente sì. Del resto, i probabili colpevoli rappresentano una realtà autonoma ma, senza dubbio, traggono un supporto dall'accumulo di amarezza e rabbia nei confronti della politica degli Usa nella regione. Una politica che ha proseguito, in fondo, quella già attuata dai precedenti «padroni» europei. Sull'onda degli attentati, il Wall Street Journal ha esaminato i pareri dei «musulmani benestanti» della regione: banchieri, professionisti, uomini d'affari. Tutti legati agli Stati Uniti eppure tutti concordi nell'esprimere costernazione e rabbia per l'appoggio dato dagli Usa agli stati più autoritari, per la politica di appoggio ai regimi oppressivi, per gli ostacoli frapposti alla possibilità di uno sviluppo autonomo e democratico. La loro principale preoccupazione, tuttavia, era un'altra e riguardava la politica di Washington nei confronti dell'Iraq e l'occupazione militare israeliana. Nella massa delle popolazioni più povere e sofferenti, questa amarezza è assai più profonda. Le stesse popolazioni non sono certo contente di vedere le ricchezze defluire verso l'occidente, verso le piccole elités filo-occidentali e verso i governanti corrotti e violenti spalleggiati dai poteri occidentali. Anche qui si pone una questione di costituzione politica e di sovranità. E gli Usa hanno affrontato questi problemi limitandosi ad esasperarli.

Sono in difficoltà, gli Stati uniti, di fronte al governo della globalizzazione?

Gli Usa non governano la globalizzazione anche se, ovviamente, vi giocano un ruolo determinante. I programmi delle imprese globali, del resto, hanno incontrato un'enorme opposizione. Inizialmente nel sud del mondo, dove era però facile ignorare o reprimere qualsiasi protesta. Ma, negli ultimi anni, la contestazione si è diffusa anche nei paesi ricchi. Deriva da qui la preoccupazione dei potenti, ora costretti a stare sulla difensiva.

Il movimento di Seattle subirà ora una accelerazione o una battuta d'arresto?

Ci sarà certamente un rallentamento della protesta mondiale contro la globalizzazione che non è iniziata a Seattle. Atrocità terroristiche come queste sono un regalo per quanti sono favorevoli alla repressione e saranno certamente sfruttate - lo sono già, di fatto - per accelerare i tempi della militarizzazione, della irregimentazione, del capovolgimento dei programmi socialmente più democratici, del trasferimento della ricchezza verso settori sociali più ristretti e del sabotaggio della democrazia in ogni forma. Ma le resistenze ci saranno e il progetto non avrà successo se non nell'immediato.

Bombe intelligenti contro l'Iraq, intervento umanitario in Kosovo. Di «guerra» gli Usa ne hanno sempre parlato poco, ma tornano a farlo oggi: e lo fanno di fronte a un nemico invisibile e senza nome e non davanti a uno stato. Come lo spiega?

All'inizio gli Usa usavano il termine «crociata», ma fu presto evidente che si trattava di un clamoroso errore: come fare, con quel termine, ad arruolare alleati nel mondo islamico? La retorica slittò quindi verso la «guerra». E «guerra» fu definita, nel '91, quella del Golfo. «Intervento umanitario», invece, il bombardamento della Serbia: non era una novità ma l'abituale definizione delle avventure imperialiste europee del XIX secolo. Per limitarci agli esempi più recenti, il principale studio sugli «interventi umanitari» ne cita tre nel periodo immeditamente precedente alla II guerra mondiale: l'invasione della Manciuria da parte del Giappone, quella dell'Etiopia da parte dell'Italia e l'occupazione della regione dei Sudeti da parte di Hitler. L'autore, va da sé, non intendeva dire che la definizione fosse giustificata, ma che i crimini erano camuffati da «intervento umanitario». Solo che il pretesto dell'«intervento umanitario» non può essere adoperato nelle presenti circostanze e allora non resta che la «guerra». Chiamarla una «guerra contro il terrorismo», comunque, è semplicemente propaganda. A meno che la «guerra» non abbia effettivamente il terrorismo come suo obiettivo. Ma questo, in tutta evidenza, non è neppure contemplato. Potrei citare l'esperto di scienze politiche Michael Stohl: «Dobbiamo riconoscere che per convenzione - solo per convenzione - l'uso di un grande potere e la minaccia del ricorso alla forza sono normalmente descritti come 'diplomazia coercitiva' e non come 'forma di terrorismo', sebbene ciò comporti, stando al significato letterale del termine, la minaccia e spesso l'uso della violenza per scopi che sarebbero descritti come terroristici, se a perseguirli, con le stesse tattiche del terrorismo, non fossero le grandi potenze». Nel caso (ammettiamolo, inimmaginabile) che l'Occidente intendesse rispettare il significato letterale della definizione «guerra al terrorismo», questa dovrebbe assumere forme assai diverse da quelle attuali e più consapevoli della letteratura già esistente.

«Prima di qualsiasi provvedimento - ha dichiarato la Nato subito dopo gli attentati - aspettiamo di sapere se si è trattato di attacco interno o esterno». Come spiega questa cautela?

Non certo come la spiegano i portavoce della Nato anche perché non ci sono dubbi seri sulla natura «esterna» dell'attacco. Credo che le ragioni di questa esitazione siano altre, quelle peraltro già avanzate dai leaders europei e in particolare dal ministro degli esteri francese: un massiccio attacco contro la popolazione musulmana esaudirebbe le preghiere di bin Laden e dei suoi complici e porterebbe gli Usa dentro una «diabolica trappola».

Qual' è stato, se c'è stato, il ruolo dei servizi segreti americani?

Questo attacco ha certamente scioccato e colto di sorpresa i servizi di intelligence dell'Occidente, inclusi quelli degli Usa. La Cia ha effettivamente giocato un ruolo di primo piano ma negli anni '80, quando si unì ai servizi del Pakistan e di altri paesi (come l'Arabia saudita o l'Inghilterra) per reclutare, addestrare e armare i più estremisti tra i fondamentalisti islamici e combattere una guerra santa contro gli invasori russi in Afghanistan. Quando quel conflitto ebbe termine, gli «afghani» (molti dei quali, come bin Laden, afghani non erano) rivolsero la loro attenzione altrove: verso la Cecenia e la Bosnia ad esempio, dove potrebbero aver ricevuto quanto meno un silenzioso appoggio da parte degli Usa. E contro i loro nemici principali, l'Arabia saudita e gli Stati Uniti stessi colpevoli, secondo bin Laden, di aver invaso l'Arabia saudita esattamente come la Russia aveva invaso l'Afghanistan.

Come giudica le reazioni del popolo americano? Dall'esterno sono sembrate composte ma Saskia Sassen, al «manifesto», ha dichiarato: «Noi siamo già in guerra».

La reazione immediata è stata di choc, orrore, rabbia, paura e desiderio di vendetta. Ma l'opinione pubblica è più articolata, e non ci vorrà molto perché si sviluppino correnti opposte. Si possono già rintracciare nei principali commenti, sui giornali degli ultimi due giorni.

In una intervista rilasciata a «La Jornada», lei ha detto che ci troviamo di fronte a un nuovo tipo di guerra. In che senso?

È un nuovo tipo di guerra perché le armi sono puntate in una dirczione diversa. Non era mai successo nella storia dell'Europa e dei suoi paesi satelliti.

Sono gli arabi - semplicisticamente intesi come fondamentalisti - i nuovi nemici dell'Occidente?

Certamente no. Innanzitutto perché nessuno con un barlume di razionalità definirebbe gli Arabi «fondamentalisti». In secondo luogo, gli Usa e l'Occidente in generale, non hanno obiezioni nei confronti del fondamentalismo religioso in quanto tale. Gli Usa, in effetti, rappresentano una delle culture religiose fondamentaliste più estreme nel mondo, non al livello dello stato, ma nella cultura popolare. Nel mondo islamico, lo stato fondamentalista più estremista, a parte i Talebani, è l'Arabia saudita, «stato-cliente» degli Usa sin dalle sue origini. Sappiamo che negli anni '80 gli estremisti fondamentalisti islamici erano i favoriti degli Usa, perché erano i migliori killer che si potessero trovare. In quegli anni, il nemico principale degli Usa era, piuttosto, quella piccola parte della Chiesa cattolica che aveva gravemente peccato in America latina adottando «l'opzione privilegiata a favore dei poveri», e che pagò per questo. Il criterio è la subordinazione e la disponibilità verso il potere, non la religione.

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