Cobasismo e organizzazione di classe
una messa a punto necessaria per evitare equivoci

Dopo tanti discorsi sul cobasismo è arrivato il momento di fare chiarezza e lo sciopero degli autisti di Genova ce ne fornisce l'occasione, anche se i protagonisti delle più note sigle del sindacalismo indipendente si guardano bene dall'affrontare la discussione e continuano a macinare scadenze senza punti di riferimento solidi.

Il perchè di questi comportamenti sta nella storia di questi due ultimi decenni in cui le esperienze si sono sviluppate su un terreno sminuzzato dalla crisi e dalle sconfitte operaie. Il polverone che si è alzato non consentiva di vedere quello che stava succedendo veramente. Dietro la retorica del sindacalismo di base e l'agitarsi continuo delle sigle che lo rappresentavano, quello che emergeva dal polverone era solo il ripetersi della scadenza annuale d'autunno che serve, quasi come un elenco della spesa, a denunciare le questioni sul tappeto senza però un bilancio dei risultati dell'azione sindacale e delle lotte. Come è tradizione degli 'alternativi', o meglio degli 'antagonisti', si tende sempre a sostituire l'analisi con gli slogans, a sollecitare lo scontro senza verificare le basi da cui dovrebbe scaturire e, soprattutto, si sostituiscono alle sintesi progettuali inviti generici a cambiare le cose.

All'origine di tutto ciò c'è innanzitutto l'equivoco sulla natura e le potenzialità del sindacalismo di base. Intanto è necessario distinguere due fasi del sindacalismo di base. Sembrerà una questione di lana caprina, ma non lo è. C'è stata una prima fase, quella attorno agli anni '80, in cui la politica dell'allora PCI e del sindacalismo confederale entrava in conflitto aperto con gli interessi dei lavoratori e attorno alla difesa di questi interessi si andava costituendo una linea di resistenza nei maggiori centri operai. Su questa linea di resistenza si sarebbe dovuta piazzare la nuova organizzazione operaia, ma questo è stato impossibile perchè i cattivi maestri dell'operaismo si sono dibattuti tra estremismo e opportunismo filoconfederale. Lasciando quindi mano libera alla connivenza tra sindacato confederale e padronato, il che ha dato il via ai processi di ristrutturazione che hanno ridotto al minimo il potere contrattuale dei lavoratori. Con questo, allo stesso tempo, si è segnato però anche il destino dei confederali che hanno cessato di essere il sindacato dei lavoratori come lo avevamo conosciuto negli anni '60 e lo hanno trasformato in un organo burocratico di ratifica della politica padronale e governativa. Peraltro, a dire oggi che il sindacato confederale è morto è lo stesso Landini, anche se è ovvio che egli sta lavorando per la sua riesumazione.

Che cosa è rimasto di questa esperienza? Solo qualche residuo archeologico dove l'ideologismo operaista ha continuato a sopravvivere mascherando un comportamento da gruppetto politico senza una sostanziale presenza operaia. C'è voluto Landini a riprendere un discorso interno alla FIAT, ma con l'impostazione e con gli esiti che conosciamo. Mentre il sindacalismo di base è rimasto ai margini.

Per intenderci, non si tratta di sottovalutare le difficoltà che un sindacalismo di base può incontrare per svolgere un ruolo in una situazione difficilissima, ma di capire che il sindacalismo di classe, se non è capace di vedere in che modo il padronato si è riorganizzato dopo la grande ristrutturazione e di piantare lì la sua iniziativa di lotta, diventa ininfluente. Il sindacalismo di base, intendendo con questo l'organizzazione operaia indipendente, non potrà prescindere da questo.

La poca chiarezza sul sindacalismo di base si è prolungata dopo la grande sconfitta operaia degli anni '80. Successivamente infatti il discorso sul sindacalismo di base si è spostato su altri terreni: la scuola, alcuni settori dei servizi, il pubblico impiego. E' stato sicuramente questo il maggior punto di propaganda dell'ipotesi dell'organizzazione di base che, nascendo da un malessere diffuso contro la politica confederale e avendo dietro una storia corporativa, ha potuto sfruttare anche la rendita di posizione che derivava dalla sicurezza del posto di lavoro. Ed è proprio in questi settori infatti che si è riusciti a strappare il diritto alla rappresentanza, ma non, si badi bene, alla contrattazione effettiva che è rimasta ben salda in mano ai confederali. A questo punto c'era da domandarsi: perchè nonostante lo sviluppo organizzativo e la conquista della rappresentanza non si riuscive a contrattare sostanzialmente niente? Come accennavamo all'inizio, discussioni di questo genere non ci sono state.

Peraltro, quando anche qui ha cominciato a piovere, col blocco della contrattazione nel pubblico impiego, con la riorganizzazione delle ferrovie, con la privatizzazione dei servizi, la ritualità dei comportamenti del sindacalismo di base e le caratteristiche della composizione sociale di queste categorie non hanno consentito una svolta.

Per ovviare alle evidenti difficoltà qualcuno, per sbarcare in lunario, ha tentato il salto della quaglia spostando di fatto il discorso del sindacalismo di base dentro ipotesi movimentiste dove non si capisce dove e come l'organizzazione di classe dovrebbe configurarsi. Se si partisse, dopo tante chiacchiere, dalla constatazione di quello che è il punto d'arrivo della la situazione in cui ci troviamo ora - blocco dei salari, lavoro interinale e a progetto, precarietà, delocalizzazione e deindustrializzazione, normativa sul lavoro, stravolgimento del sistema pensionistico e infine l'enorme aumento della disoccupazione - avremmo già un vero punto di partenza su cui lavorare seriamente. In altri termini dovremmo onestamente domandarci, in questo contesto: qual'è la linea del Piave che ci consente di affrontare la situazione?

Il discorso si sposta innanzitutto dal vecchio modello organizzativo ai contenuti. C'è bisogno oggi di una consapevolezza di quella che è la linea su cui bisogna fronteggiare il nemico. Il susseguirsi delle proteste di vario genere senza un punto di unificazione che faccia i conti, e non a parole, col livello dello scontro non rende efficace la lotta. Invece, in questo momento, abbiamo bisogno che ci sia un salto di qualità nella coscienza di massa degli strati sociali interessati alla lotta e dei suoi punti d'appoggio organizzativi.

Se, come sempre, è la situazione reale apre i processi di crisi e di lotta, è anche vero che ci sono condizioni come quelle odierne che impongono una chiara direzione di marcia che indichi la prospettiva e misuri in senso strategico la sua capacità d'attacco. E questa capacità si deve estendere anche sul terreno politico dove le decisioni contro i lavoratori vengono prese.

Il sindacalismo di base ha avvertito chiaramente che un certo schema operativo entrava in crisi e le avvisaglie si sono avute ultimamente coi fatti di Genova e anche di Roma dove gli autoferrotranvieri hanno travolto tutti gli schemi non solo del sindacalismo confederale, ma anche di quello di base. Gli autoferrotranvieri vanno allo scontro uniti e senza steccati e si impongono.

Lo schema è: autonomia, unità e lotta. Rovesciando in questo modo la deriva organizzativistica e velleitariamente trattativista dominante in quello che oggi si definisce sindacalismo confederale di base.

Aprire dunque il dibattito. Innanzitutto su che cosa deve essere seriamente il movimento organizzato dei lavoratori. Volutamente usiamo questa espressione e non quella di sindacalismo di base che, nei fatti, ha cessato di esistere e ora va ricostruito su un terreno di classe e nella nuova situazione. Anche se non dobbiamo buttare il bambino con l'acqua sporca, nel senso che di certe esperienze positive dobbiamo tener conto. Queste ultime hanno influenzato settori molto vasti di lavoratori, ma ora si rischia di perdere questa influenza perchè i cattivi maestri che si sono improvvisati dirigenza non hanno avuto l'onestà e la capacità di misurarsi con la realtà, mantenendo il livello della cialtroneria movimentista.

Oggi, a differenza degli anni ottanta del secolo scorso quando per emergere abbiamo dovuto condurre una battaglia durissima contro i confederali, abbiamo invece di fronte una prateria dove quello che conta è la capacità di lotta, di unificazione, di strategia che sapremo esprimere.

La democrazia di base come leva per la mobilitazione è un'arma spuntata. Noi intravediamo due obiettivi su cui l'organizzazione di classe si deve riorganizzare.
Il primo è quello di una sorta di corpo a corpo là dove il nuovo capitalismo riorganizzato morde e dove appunto bisogna dimostrare che non siamo il sindacato del giorno dopo la sconfitta o della difesa di sacche residuali.
Il secondo obiettivo è quello di dare in modo organizzato, unificato e generale una risposta valida alla drammatica situazione che la crisi e le politiche padronali e governative hanno provocato. Questa situazione si chiama disoccupazione di massa, precariato, bassi salari, delocalizzazione, riduzione del sistema pensionistico a carità pubblica.

[traccia di discussione, 1 dicembre 2013]


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