di Amedeo Curatoli
In Unione Sovietica cè mai stato il socialismo? Oppure - accantonata la parentesi romantica (e incruenta) della presa del Palazzo dInverno - nei mesi successivi allOttobre e negli anni seguenti al 1917 non è accaduto nulla di nuovo sotto il sole che illumina le vaste terre sovietiche? Insomma, lì in Urss si è realizzato un "socialismo" oppure un "capitalismo" (magari di Stato)?
La stessa domanda vale per la Cina: cosa sta accadendo in quel grande paese dellEstremo Oriente: stanno tentando vie nuove, inedite, di edificazione "socialista", oppure è tutto un imbroglio, si tratta, anche lì, solo e sempre di "capitalismo" (magari ancora più feroce di quello a cui siamo abituati noi)?
Tralasciamo per ora la Cina e occupiamoci dellUnione Sovietica. Loccasione ce la dà un da poco nato Centro Studi sulla Transizione (al socialismo nellUrss) cui hanno dato il loro contributo molti compagni, fra i quali diversi professori universitari. Questo centro studi - si suppone - alla fine dovrà sciogliere lenigma ed emettere un verdetto: SI, in Urss la "transizione" al socialismo cè stata; oppure NO, "credevano" di fare qualcosa che somigliasse al socialismo, ma si è trattato di "altro" (vale a dire: capitalismo sotto mentite spoglie). Ora, prima di svolgere delle riflessioni su alcuni saggi scritti per loccasione, potrebbe essere utile ripercorrere, fugacemente, la storia della grande polemica che si sviluppò in Urss dal 1924 al 1927, una polemica di carattere teorico di importanza cruciale, potremmo dire di portata storica, poiché lesito di quella discussione avrebbe investito il destino stesso dellUnione Sovietica. La divergenza verteva proprio sul punto specifico sul quale, a quanto pare, si dovrebbe esprimere il suddetto Centro Studi sulla Transizione: è (è stato) possibile costruire il socialismo in un solo paese in assenza dello scoppio della rivoluzione almeno in alcuni paesi avanzati dellOccidente, oppure non è (non è stato) possibile?
Dicevamo che il contrasto divampò nellarco di tempo di 4 anni, dal 24 al 27, ma esso ebbe i suoi prodromi in anni precedenti, e protagonisti e fautori delle due posizioni teoriche contrapposte furono Trotski da una parte e Lenin dallaltra. Dire che fu Stalin ad "inventarsi" il socialismo in un solo paese è un falso storico di Trotskij e dei suoi discepoli. Maitan, che è un autorevole esponente del trotskismo italiano, dice: "Questa teoria del socialismo in un solo paese , come è noto (??) era stata enunciata per la prima volta da Stalin, ispirato da Bucharin, nellautunno del 1924 e Trotskij vi si era immediatamente opposto" (L.Maitan: "Destino di Trotski" - Rizzoli pag.73). Ma come andarono effettivamente le cose?
Nel 1906, nel saggio "La nostra rivoluzione", Trotski, che si occupò della questione ben 18 anni prima di quando afferma Maitan, scrisse: "Senza lappoggio diretto del proletariato europeo al potere, la classe operaia della Russia non potrà né mantenersi al potere né trasformare il suo dominio provvisorio in una dittatura socialista durevole. Non si può dubitare nemmeno un istante" (cit. da Stalin, Opere complete, edizioni Rinascita, vol. 7° pag. 131). E bisogna dire che per tutta la sua vita, effettivamente, "nemmeno per un istante" Trotskij ebbe dubbi o ripensamenti su questidea. Alcuni anni dopo, in un articolo che dimostrava lerroneità della parola dordine degli Stati Uniti dEuropa (sostenuta da Trotskij) Lenin spiegò che avanzare una simile prospettiva "potrebbe ingenerare lopinione errata dellimpossibilità della vittoria del socialismo in un solo paese". Più avanti aggiunse: "Lineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico preso separatamente". (Lenin, Opere scelte, Editori Riuniti, pag. 556). Nella sua polemica risposta, Trotskij ammetteva sì che la legge dello sviluppo ineguale del capitalismo avrebbe potuto produrre provvisoriamente la comparsa di una sola rivoluzione sociale vittoriosa, tuttavia aggiungeva: "Considerare le prospettive della rivoluzione sociale nel quadro nazionale significherebbe diventare vittime di quella stessa grettezza nazionale che costituisce lessenza del socialpatriottismo" Qui Trotskij taccia Lenin implicitamente di "grettezza nazionale" e "social-patriottismo" proprio perché Lenin (e non Stalin) enunciò a chiare lettere la tesi della possibilità del socialismo in un solo paese. Siamo nel 1915, mancavano 2 anni alla rivoluzione, la divergenza su questo argomento era soltanto occasionale, e, necessariamente, di carattere puramente teorico. Né Trotskij (che entrò nel partito bolscevico pochi mesi prima dellOttobre), osò riproporla, apertamente, come suo cavallo di battaglia, allindomani della conquista del potere. La mole di decisioni da prendere era davvero gigantesca, e il carattere delle scelte politiche, in quei primi anni terribili ma anche esaltanti, era emergenziale: lemergenza assolutamente primaria consisteva nel salvare, a qualunque costo, la giovane repubblica dei Soviet dagli imperialisti e dalle Guardie bianche. Tuttavia ancora in altre tre occasioni, nel 1921, 1922 e 1923 la polemica Trotskij-Lenin, sotterranea e non ancora dirompente (acquisterà questo carattere solo nel confronto con Stalin) ebbe per oggetto, di nuovo, la questione della possibilità di edificazione del socialismo. Nel 1921, dopo la vittoria nella guerra civile contro i generali bianchi, quando allordine del giorno vennero posti i problemi della edificazione, Lenin definì la Nuova politica economica (Nep) come via che conduceva alla vittoriosa edificazione del socialismo, e qualche mese dopo Trotskij, nella prefazione allopuscolo "Il 1905" enuncia una tesi opposta dichiarando che "le contraddizioni nella situazione del governo operaio, in un paese arretrato, con una maggioranza schiacciante di popolazione contadina, potranno trovare la loro soluzione soltanto su scala internazionale, sullarena della rivoluzione mondiale del proletariato" (Cit. da: Stalin, vol. 7° pag. 232). Un anno dopo, alla dichiarazione di Lenin fatta ad un plenum del Soviet di Mosca secondo cui "Dalla Russia della Nep nascerà la Russia socialista", Trotskij rispose, nel poscritto al "Programma di pace": "Uneffettiva ascesa delleconomia socialista in Russia sarà possibile soltanto dopo la vittoria del proletariato nei principali paesi dEuropa" (Ibid. pag. 232). Infine, siamo nel 1923, poco prima di morire, nellarticolo "Sulla cooperazione" Lenin ribadì, inequivocabilmente, che nellUnione Sovietica esisteva "tutto ciò che è necessario per costruire una società socialista integrale" (Lenin, Opere scelte, Editori Riuniti, pag. 1798). E opportuno anche ricordare (ma solo di sfuggita, se no rischiamo di andare fuori tema) che Trotskij, in questo stesso arco di tempo, anche su altre questioni di grande portata ebbe contrasti con Lenin, e cioè sia sulla firma della pace di Brest-Litovsk sia sulla valutazione della Nep. Sulla prima questione egli assunse un atteggiamento classicamente ultrasinistro poiché, in contrasto con le decisioni prese dal Comitato centrale di firmare immediatamente la pace, con la sua linea temporeggiatrice "né pace né guerra", egli che era il negoziatore a Brest, fu responsabile di immense perdite territoriali, nel senso che diede tempo, di fatto, alla Germania, di conquistare Lettonia, Estonia e di far staccare dalla neonata Repubblica sovietica lUcraina divenuta "protettorato tedesco" cioè uno stato vassallo della Germania. Fu questa la più grave divergenza scoppiata nel partito bolscevico ma - per onorare la verità della storia - il portabandiera dellopposizione irriducibile alla firma di pace fu Bucharin, e Trotskij si mise "dietro" quella bandiera. Sulla seconda questione (la valutazione della Nep), Trotski mostrò laltro lato della sua personalità, opposto e simmetrico allestremismo: egli che non aveva alcuna fiducia nelle possibilità di edificazione socialista, dopo la svolta che metteva fine al "comunismo di guerra" ed inaugurava la Nep, propugnava grandi concessioni al capitale privato sotto forma di società miste per azioni.
La malattia e la morte di Lenin, avvenuta il 21 gennaio del 1924, diedero unaccelerazione, per così dire, alliniziativa di Trotskij. Anche in questa occasione egli non si smentì: senza valutare i rapporti di forza interni, e definendo la maggioranza del partito "la frazione capeggiata da Stalin" andò ad una guerra decisa e determinata, volta a conquistare di slancio (poiché riteneva presumibilmente del tutto maturi i tempi) la leadership del partito bolscevico. Fu questerrore di valutazione che lo spinse a rendere irrimediabilmente antagonistici i suoi rapporti con il partito di Lenin: egli usò un linguaggio talmente violento, e lanciò delle accuse così gravi, da distruggere ogni possibilità di ritorno indietro. Fu una lotta allultimo sangue, senza spazi di mediazione. Trotskij non solo accusò Stalin di essere lartefice di un Termidoro (cioè di una controrivoluzione), ma, coerentemente con questa analisi affermò pure che, in caso di attacco allUrss, anche se il nemico era a 80 chilometri da Mosca, anzi proprio per questo, dovere dei veri rivoluzionari (cioè di coloro che condividevano le sue idee) consisteva nello "spazzare via il pattume" "nellinteresse della vittoria dello stato operaio". Il pattume era, ovviamente, la maggioranza del partito. Espose questa tesi in una lettera inviata ad un membro (che non era neanche di parte trotskista!) della Commissione centrale di controllo (citata in: Stalin, op. complete, vol. 10° pag. 62). In questa lettera egli paragonava la futura azione dei "veri rivoluzionari" al comportamento che, allinizio della Prima guerra mondiale, ebbe Clemenceau, un energico uomo politico francese, che, con i tedeschi a 80 chilometri da Parigi, estromise dal potere i membri del precedente governo. Il fatto che Trotskij con la sua famosa tesi Clemenceau - così passerà alla storia - parlasse apertamente di un possibile colpo di Stato in caso di attacco allUrss, rivela non solo il clima rovente e - ripetiamo - irrimediabilmente antagonista che egli impresse alla polemica, ma anche il suo incredibile soggettivismo che lo indusse a ritenere se stesso, a dispetto dellandamento concreto della lotta in seno al partito e allInternazionale comunista (in cui era in assoluta minoranza), il salvatore delle sorti della Rivoluzione proletaria.
Non fu, quello, uno scontro basato semplicemente su scambi di accuse roventi come vuol far credere non solo la storiografia trotskista ma anche quella socialdemocratica o borghese, le quali ultime, nella quasi totalità, danno credito a Trotskij perché sono schierate (per la convenienza strumentale che alimenta la lotta di classe anche nel campo della storiografia) dalla parte di Trotski. Non si trattò di una lite, ma di un grandioso dibattito, fu una battaglia politica e ideologica che si dispiegò in campo aperto, su posizioni teoriche contrapposte ma chiaramente enunciate, non dissimulate dal politichese e dal fair play che è nel nostro stile di comunisti occidentali. La lotta si svolse sul terreno della "Rivoluzione permanente" da una parte, e del leninismo dallaltra: lo scontro passò al vaglio di ben 3 Congressi (13°,14°, 15°) e due Conferenze nazionali di partito. Questa polemica investì il movimento comunista mondiale: in quegli anni si svolsero anche diverse runioni del Comitato Esecutivo allargato dellInternazionale Comunista nei quali si riverberò il contrasto di linee che si svolgeva nel partito sovietico. Nel 1925, quando in Italia cera già la dittatura fascista, nelle cellule clandestine del PcdI si studiava un opuscolo dal titolo "Materiale per il congresso N. 3" (congresso che si svolgerà a Lione lanno successivo). Questa pubblicazione conteneva, per intero, "Le lezioni dellOttobre" di Trotski (scritto in polemica soprattutto contro Zinoviev e Kamenev) nonché una sua lettera a Olminski "sulle sue divergenze di vedute con il Partito bolscevico"; vi era poi una breve "postilla" di Kamenev a questa lettera e un articolo della Pravda dal titolo: "Come non si deve scrivere la storia della Rivoluzione di Ottobre" (Reprint Feltrinelli, 51 pagine). Dunque, i partiti comunisti erano perfettamente informati dei termini dello scontro in corso. I militanti comunisti di ogni paese, lungi dallessere marionette plagiate e orientate dalla longa manus di un deus ex-machina (Stalin), versione tanto stupida (e offensiva della intelligenza dei comunisti) quanto ridicolmente infantile, scelsero "da che parte stare" sulla base di un confronto di documenti originari. Kamenev, che insieme a Zinoviev era la punta di lancia della critica (meglio sarebbe dire della controffensiva) nei riguardi di Trotskij, scrisse, nella suddetta postilla: "La pretesa di Trotskij di trasformare il leninismo per atteggiarsi a creatore della sola teoria rivoluzionaria giusta si manifesta nettamente in questa lettera; essa è così ridicola, ha un carattere sì apertamente personale che non vale neanche più di discuterne. La lettera di Trotskij ha confermato definitivamente le peggiori supposizioni" (Op.cit. pag. 41). Giova anche ricordare che Kamenev e Zinoviev, i quali avevano un largo seguito nel Comitato provinciale di Leningrado, nel 1924 proposero di espellere dal partito Trotskij. Il Comitato centrale vi si oppose, ma qualche tempo dopo Kamenev ne chiese, questa volta, lesclusione dallUfficio politico. Anche allora il Comitato centrale respinse la proposta. Al 14° Congresso del partito (1925), nel ricordare questi episodi, Stalin disse: "Non fummo daccordo con Zinoviev e Kamenev, perché sapevamo che la politica dellamputazione comportava gravi pericoli per il partito, che il metodo dellamputazione, il metodo del salasso - ed essi chiedevano sangue - era pericoloso, contagioso" (Stalin, op. cit. vol. 7° pag. 430).
Inaspettatamente, da che erano i più decisi oppositori di Trotskij ("chiedevano sangue") Zinoviev e Kamenev con una scandalosa operazione che oggi definiremmo "politicista" si convertirono, di lì a poco, al trotskismo, al punto che, al 14° Congresso, si assunsero lonere di difendere e rilanciare le tesi trotskiste in una controrelazione di Zinoviev (pubblicata dagli Editori Riuniti a cura di Lisa Foa). Ma come poté accadere? Evidentemente, anche loro, considerate insormontabili le difficoltà di andare avanti nelle condizioni dellaccerchiamento capitalistico, persero la fiducia nella possibilità di costruire il socialismo, e, inevitabilmente, forzatamente, si allearono con lavversario di ieri, con colui che prima di loro e meglio di loro si era battuto da sempre per dimostrare la tesi dellimpossibilità di edificare il socialismo in Urss senza il soccorso di altre rivoluzioni vittoriose. Ma perché questoperazione di "trasloco" verso le posizioni trotskiste potesse passare senza suscitare troppo sconcerto, Trotski perdonò Zinoviev e Kamenev per le critiche che costoro gli mossero in passato, e questi ultimi, a loro volta, perdonarono Trotskij per gli attacchi che egli fece loro. Infatti, nel luglio 1926 Zinoviev dichiarò: "Noi diciamo che oggi non vi può essere più alcun dubbio che il nucleo fondamentale dellopposizione del 1923 (allude alle "Lezioni dellOttobre" di Trotskij) come ha dimostrato levoluzione della linea direttiva della frazione (vale a dire della maggioranza del Comitato Centrale) ha messo giustamente in guardia contro i pericoli di uno spostamento dalla linea proletaria e contro il minaccioso sviluppo del regime di burocrazia di partito". Nello stesso mese, Trotskij dichiarò: "Non vè dubbio che nelle Lezioni dellOttobre ho legato gli spostamenti opportunistici della politica ai nomi di Zinoviev e Kamenev. Come testimonia lesperienza della lotta ideologica in seno al Comitato Centrale, questo è stato un errore grossolano. La spiegazione di questo errore consiste nel fatto che io non avevo la possibilità di seguire la lotta ideologica in seno al gruppo dirigente dei sette e di accertare con tempestività che gli spostamenti opportunistici erano provocati dal gruppo capeggiato dal compagno Stalin, contro i compagni Zinoviev e Kamenev" (Cit. in Stalin, Opere complete, vol. 8° pag. 290-291). Il commento di Stalin fu che Trotskij rinnegò apertamente le sue Lezioni dellOttobre accordando "unamnistia" a Zinoviev e Kamenev in cambio dell "amnistia" accordata a Trotskij da Kamenev e Zinoviev. Definì tutta questa operazione un "mercato diretto e aperto, senza princìpi".
La teoria dellimpossibilità del socialismo in un solo paese che fu contrastata dalla maggioranza del gruppo dirigente bolscevico, e in prima persona da Stalin, si andò arricchendo, nel corso degli anni, di nuovi elementi. Questa teoria, che la stessa pratica quotidiana del potere sovietico smentiva sistematicamente, aveva bisogno di essere puntellata con sempre nuovi argomenti.
Kamenev, per esempio, nel 1926, affermò che Lenin (nellarticolo del 1915 che più su abbiamo ricordato contro la parola dordine degli Stati uniti dEuropa), quando scrisse che era possibile il socialismo in un solo paese, alludeva non alla Russia ma ad altri paesi capitalistici! Si trattava di unevidente falsificazione del pensiero di Lenin, era il misconoscimento della passione, della determinazione, dellaudacia di guardare in avanti, del disprezzo delle idee dogmatiche e libresche che caratterizzarono la "prassi" di questo grande rivoluzionario. Egli mostrò di avere queste doti massimamente quando agì da statista, quando diede prova di saper legare il marxismo al socialismo (i cui destini sono intimamente connessi). Non sopportava lo scolasticismo, i richiami dogmatici al socialismo preconizzato da Marx, ma valutava sempre con grandiosa lucidità le condizioni storiche determinate, concrete in cui si svolgeva la vicenda della lotta di classe interna e internazionale (i meriti del Lenin statista saranno riconosciuti anche da storici non marxisti, come Carr). Dunque, laffermazione di Kamenev che Lenin a tutto pensava tranne che alla Russia (quando enunciò la teoria del socialismo in un solo paese) rivela che lopposizione trotskista, pur di avvalorare la propria tesi, non si sarebbe fermata di fronte a nulla.
In quello stesso periodo, cioè dopo nove anni di esistenza e "buona salute" dellUrss, Trotskij, avvertendo evidentemente il peso della smentita delle sue catastrofiche previsioni, tentò di cavarsela con un nuovo argomento. Sì, è vero, egli affermò, dissi in passato che il potere sovietico non avrebbe potuto far fronte ad unEuropa conservatrice, ma lEuropa di oggi non è più conservatrice ma liberale (come a dire: ieri avevo ragione, ma oggi la "fase" è mutata)! "E quale importanza può avere - rispose polemicamente Stalin - per lintegrità e la sicurezza della nostra repubblica questa sottile e ridicola distinzione fra unEuropa conservatrice e unEuropa liberale? Forse la Francia repubblicana e lAmerica democratica non sono ugualmente intervenute contro il nostro paese nel periodo di Kolciak e Denikin, non meno dellInghilterra monarchica e conservatrice?" (Stalin, cit. pag. 417).
Trotskij arrivò finanche ad abbandonare il suo originario argomento forte che poggiava sulle contraddizioni interne, sulle contraddizioni fra il proletariato e i contadini ritenute insuperabili e quindi foriere di un sicuro fallimento della possibilità del socialismo in Urss. Rinunciò a questa tesi sostituendola con unaltra: sottolineò le contraddizioni esterne, quelle che opponevano leconomia dellUrss da una parte, alleconomia mondiale capitalistica dallaltra, anchesse ritenute insuperabili data la (presunta da Trotskij) onnipotenza del capitalismo mondiale.
Questo grande dibattito investì, come dicevamo allinizio, il destino dellUrss. Trotskij era un uomo dazione, uno che intendeva tradurre in linea politica concreta i suoi convincimenti teorici e politici: quando disse che la rivoluzione russa "getterà sul piatto della bilancia della lotta di tutto il mondo la sua colossale forza statale e politica" (cit. da Stalin vol. 8° pag.347) in queste parole vi sono le premesse di una possibile politica avventurista che avrebbe potuto tramutarsi in una catastrofe. Trotskij non scherzava, se fosse prevalsa la sua linea, a giudicare dalla visione della rivoluzione proletaria che egli aveva, e di cui era portatore convinto e determinato, non avrebbe proposto ai bolscevichi di abbandonare il potere. Cosa che invece fu detta in una risoluzione del Comitato di Mosca, redatta da "autentici comunisti" che recitava testualmente: "Noi crediamo sia conforme agli interessi della rivoluzione internazionale ammettere la perdita eventuale del potere dei Soviet che sta diventando ormai puramente formale" e che Lenin bollò come "cosa strana e mostruosa" (Lenin, Opere scelte, editori Riuniti, pag.1053). Che Trotskij fosse un uomo dazione e non semplicemente il teorico della Rivoluzione permanente, lo dimostrò inequivocabilmente quando divenne il capo indiscusso e carismatico della rete cospirativa segreta che egli dirigeva da Città del Messico, nella quale confluirono le opposizioni interne, fossero esse di "destra" o di "sinistra" ma che erano tutte accomunate dallassoluta mancanza di fiducia nella possibilità di costruire il socialismo in un solo paese. Anche Bucharin, nel corso della lotta al trotskismo, perse questa fiducia, ed egli, come precedentemente accadde a Zinoviev e Kamenev, fu inevitabilmente sospinto, data la logica ferrea della lotta frazionistica che si svolgeva in quelle condizioni storiche, a mettersi sotto la direzione di Trotskij nellimpresa cospirativa. Immersi ormai in un ignobile lavoro clandestino antisovietico di sabotaggio e terrorismo politico a tutti i livelli, Zinoviev, Kamenev, Bucharin, Tukacevskij (degli alti gradi dellArmata Rossa), Yagoda (vice capo dei Servizi segreti) - per citare gli esponenti più in vista - divennero uomini a doppia faccia, persone che nei loro cupi conciliaboli, giudicavano i succesi delle realizzazioni sovietiche alla stregua di loro sconfitte personali, salvo poi a magnificarle ipocritamente in riunioni ufficiali. Al primo processo di Mosca (che fu, come gli altri due successivi, un processo pubblico seguito dalla stampa mondiale presente in aula) contro il centro clandestino Trotskij-Zinoviev, questultimo confessò: "Nella seconda metà dellanno 1932 noi abbiamo capito che i nostri calcoli sulla possibilità di veder aumentare le difficoltà nel paese fallivano. Cominciammo a comprendere che il Partito e il suo Comitato centrale vincevano progressivamente queste difficoltà. Ma durante lanno 1932, noi bruciavamo dodio contro il Comitato Centrale del Partito e contro Stalin". A sua volta, Kamenev dichiarò: "Non ci rimanevano che due vie possibili: o liquidare la nostra lotta oppure continuarla, ma senza poter più contare su un qualsiasi sostegno delle masse, senza lappoggio di una piattaforma politica, senza possedere una bandiera, ossia ricorrendo solo al terrore politico. E questa seconda strada è quella che noi abbiamo scelto. Questa decisione ci è stata suggerita dal rancore illimitato che noi sentivamo nei riguardi della direzione del Partito e del paese e della nostra avidità di potere, che noi abbiamo altre volte avvicinato fin quasi averlo a portata di mano, e dal quale siamo stati rigettati indietro dallevoluzione della storia" (Cit. in: Dimitrov, Ercoli, Krupskaia, Fischer, Ponomarev: "Il complotto contro la rivoluzione russa", edizioni EAR, 1945, pagg. 101-102). Bucharin, la cui partecipazione alla cospirazione fu scoperta due anni dopo, disse ipocritamente in questa occasione (era direttore delle Isvestia): "Sono contento che tutta questa storia sia stata scoperta prima della guerra e che i nostri organi siano in condizione di scoprire tutto questo putridume prima della guerra in modo che noi possiamo uscirne vittoriosamente, perché se questo non lavessimo scoperto prima, ma solo durante la guerra, ciò avrebbe portato a sconfitte del tutto straordinarie e durissime per tutta la causa del socialismo" (cit. in: Silvio Pons: "Stalin e la guerra inevitabile", Einaudi 1995, pag. 137).
A dispetto della sfiducia e del pessimismo che portò alla rovina questi "bolscevichi della prima ora", la giovane repubblica dei Soviet stava compiendo unimpresa di portata storica mondiale, mai vista prima di allora, nelle difficili condizioni e dellaccerchiamento capitalistico ma che godeva però anche dellappoggio dei proletari di tutto il mondo e dei popoli oppressi delle colonie. Fu unesperienza irta di pericoli ma anche di prospettive luminose. LUrss non era il Montenegro. Chi ebbe unillimitata fiducia nella potenza della Rivoluzione dOttobre avvenuta in un paese grande un sesto delle terre emerse fu Lenin. Chi ereditò quella fiducia e la determinazione ad andare avanti fu un partito, fu un gruppo dirigente (non erano soltanto Zinoviev, Kamenev e Bucharin i bolscevichi della prima ora) che serrarono le fila sotto la direzione di Stalin e provarono al mondo che lUrss, a dispetto del dogma di Trotskij, Kamenev, Zinoviev e Bucharin riuscì a vincere la sua scommessa con la storia. Nel 1925, quando la Russia cominciava a risollevarsi dallo sfacelo di due anni di guerra civile, quando cioè sia nel settore industriale che in quello agricolo a stento si raggiungevano i livelli produttivi danteguerra dellepoca zarista, Stalin affermò che "nel suo insieme il nostro è un regime di transizione dal capitalismo al socialismo" (Stalin, op. cit. vol. 7° pag. 350). Lobiettivo primario - perché quella transizione potesse realizzarsi - fu di mettersi sulla via dellindustrializzazione fondata sui Piani quinquennali. Già Lenin, nel 1921, aveva avvertito che "se non si salverà, se non si riorganizzerà lindustria pesante, non potremo costruire nessuna industria, e senza industria noi periremo, in generale, come paese socialista" (Lenin, "LInternazionale comunista", ediz. Rinascita, pag.377). Disse anche: "Noi esercitiamo la nostra influenza sulla rivoluzione internazionale principalmente con la nostra politica economica" (cit. in Stalin, vol 7° pag. 152). E infatti, la grande impresa dellindustrializzazione, lungi dallavere soltanto unimportanza interna, avrebbe rivestito anche un significato ed un carattere internazionale. Non si deve dimenticare che lo sviluppo economico generale dellUrss avvenne in concomitanza con la grande crisi di sovrapproduzione che a partire dal 1929 scosse il mondo capitalistico. La repubblica dei Soviet dimostrò che leconomia di un paese socialista, dove i mezzi di produzione e il commercio estero sono nazionalizzati, non subisce più il contraccolpo delle fluttuazioni cicliche del mercato mondiale ma si sviluppa conformemente alle proprie leggi. Se il paese dei Soviet non fosse stato unito, e il partito che lo governava non avesse riscosso la stima e lappoggio dei popoli delle varie nazionalità, esso non avrebbe mai potuto reggere laggressione delle armate hitleriane che costò a quei popoli un olocausto di oltre venti milioni di morti. Se non ci fosse stato lappoggio dei popoli sovietici al governo, lUrss sarebbe stata piegata militarmente e conquistata, come accadde ai paesi dellEuropa occidentale. Se lEsercito Rosso non fosse stato motivato, disciplinato e bene armato, in nessun modo avrebbe potuto essere lartefice, dopo Stalingrado, di quella grande controffensiva che lo portò fin nel cuore di Berlino dove fu issata la bandiera rossa sulle macerie del Terzo Reich. Questa può sembrare retorica, e certamente come tale sarà fastidiosamente respinta dagli insaziabili e fiscali comunisti critici doggigiorno, i quali, nei riguardi dellUrss di quellepoca, si comportano come spietati ed esigenti professori universitari pronti a bocciare al minimo errore. Ecco con quali parole "boccia" quella storia un quotidiano che si definisce comunista: "Il secolo che ci siamo lasciati alle spalle è stato segnato dalla storia grande e terribile dei tentativi di costruire una società comunista. Forse fin dallinizio, del pensiero di Marx si è teso a privilegiare il fondamentale concetto di uguaglianza. Quando questo concetto si è inverato in esperienze statuali ha reso muti ed inerti i soggetti che si sono battuti per realizzarlo" (Liberazione del 3 febbraio 2004). E la guerra civile contro Kolciak e Denikin, lindustrializzazione, i piani quinquennali, lo stakanovismo, il movimento colcosiano, la guerra antinazista? Non è forse un falso storico sorvolare su queste imprese, far finta che non siano esistite o, peggio ancora, rappresentare i soggetti che quelle imprese realizzarono (poeticamente definite inveramento in esperienze statuali) come "muti" e "inerti"? Non è ridicolo oltre che falso? Il compito dei comunisti è di ribadire alcune verità seppellite sotto un cumulo di falsificazioni. Essi hanno il dovere di difendere la storia e le tradizioni del comunismo perché la difesa, critica sì ma intransigente, di quella vera rivoluzione socialista vittoriosa consentirà unindagine approfondita volta a capire perché in Urss, negli anni 20, 30 e 40 non vi è stata non la transizione al socialismo, ma la mancata realizzazione del comunismo. I comunisti devono studiare e dibattere come mai sia stata possibile la svolta devastante del 20° Congresso, e come mai, alla fine di una parabola discendente, si sia verificato il crollo completo. A tale proposito, cè una chiave di lettura intelligente, proposta da Losurdo, dei limiti storici e teorici dellepoca della direzione staliniana. Questanalisi è incentrata sul contrasto irrisolvibile (e irrisolto) fra la diffusa utopia dellestinzione dello Stato, e lo stato deccezione perenne in cui procedé quellesperienza, per cui, nel mentre si continuava ad attendere messianicamente che si tramutasse in realtà laffascinante previsione di Marx (fatta propria da Lenin e dai bolscevichi), lo Stato socialista, lungi dallestinguersi, andava sempre più caratterizzandosi come soffocante apparato repressivo che non lasciava scampo a nessun tipo di dissenso, ma che, anzi, lo criminalizzava. Fu questo circolo vizioso, originato da una situazione di accerchiamento capitalistico (uno storico marxista non dovrebbe mai dimenticarlo) a determinare una dialettica negativa che rese drammaticamente irraggiungibile la democratizzazione della società sovietica. Lanalisi proposta da Losurdo mette a confronto una determinata situazione storica, e i limiti teorici derivanti da unidea dogmatica (lestinzione dello Stato) che rendono impossibile quel processo di apprendimento (che consiste nelladeguare con una certa tempestività un determinato bagaglio teorico alla pratica concreta di una determinata situazione storica). Un tale approccio, che non è per nulla giustificazionista, ancora non è divenuto oggetto di dibattito (anche polemico, naturalmente).
Ritornando al Centro Studi sulla Transizione di cui si parlava allinizio, bisogna dire che non una sola delle relazioni presentate da svariati autori (che aveva come oggetto specifico la transizione al socialismo in Urss) ha parlato, non diciamo diffusamente, ma neanche accennato di sfuggita, al dibattito che in quel paese si svolse proprio sul problema centrale della "transizione": se cioè era possibile o non possibile transitare verso il socialismo in un solo paese. In una di queste relazioni (autore: G. Pala), corredata da unaccurata (e strumentale) raccolta di citazioni, sembrerebbe quasi che Lenin si fosse pentito amaramente di aver preso il potere. Si, è vero, non manca un omaggio di maniera allimportanza storica della Rivoluzione dOttobre, però ritorna sempre la vecchia tesi dellimpossibilità di costruire il socialismo se non su scala mondiale. Dice infatti lautore: "Soltanto allorché nel mercato mondiale possa diventare dominante, esercitando la propria egemonia, il modo di produzione socialista, questultimo potrà sbarazzarsi in un sol colpo del nemico di classe". E questa la mirabile prospettiva che sta dinanzi a noi: attendiamo che nel mercato mondiale si compia il miracolo che legemonia socialista soppianti quella capitalista piuttosto che star lì ad attardarci ancora a sognare "la costruzione del socialismo qua e là". Quindi: socialismo in tutto il mondo, non socialismo qua e là. Quanto tempo occorrerà perché si compia il miracolo? Lautore in questione cita la battuta di un suo amico, che egli giudica "largamente condivisibile": per il comunismo cè tempo - dice il suo amico - occorre aspettare un millennio dopo la riforma luterana, occorre aspettare il 2517. E, nellestenuante attesa, mentre maturano, da qui al 2517 le "condizioni materiali per la transizione", "lunico problema allordine del giorno non può che essere laccumulazione delle forze del proletariato mondiale". E su che base il "proletariato mondiale" dovrebbe "accumulare le sue forze" se gli predichiamo che il socialismo non cè mai stato, che il socialismo è una chimera? (Abbiamo forse dimenticato che dopo lOttobre il "proletariato mondiale" diceva "facciamo come la Russia!" poi divenuto successivamente qui da noi in Italia "ha da venì !" ?). Contro coloro che si dilungano a cercare di dimostrare invece che il socialismo ha fatto la sua apparizione sul globo terrestre, lautore scaglia i suoi strali, dice di loro che "non sanno neppure dove sta di casa il dr. Ramboz" (che sarebbe Marx), che sono portatori "di miti topici, sotto la specie di dogmi", che il crollo del socialismo (che lui chiama realsocialismo riferendolo allUrss -di socialismo in Cina neanche a parlarne) era "inevitabile" perché si trattava di un "coccio stretto tra i vasi di ferro del capitale", eccetera. Anche Bertinotti, prima di scoprire il pacifismo, la non violenza, linutilità di lottare per la conquista del potere, quando ancora non aveva deciso di "rinnegare il leninismo" parlava di "rivoluzione come indivisibile fenomeno mondiale". "Lo dico e lo penso da più di 25 anni" - leggiamo sul Manifesto del 4 febbraio di questanno- "la violenza politica non ha prodotto, alla lunga, nessun superamento del capitalismo, da nessuna parte (anche perché non si può superarlo se non in tutto il mondo)".
In un altro "contributo" dato al Centro studi per la transizione (relatore R. Giacomini), si dice che le vecchie divergenze fra Stalin e Trotskij "si fecero scontro aperto e frontale negli anni trenta dopo lavvento di Hitler in Germania". E unaffermazione totalmente falsa: lo scontro con Trotskij sulle prospettive della rivoluzione (quello sì - come abbiamo tentato di dimostrare - fu uno scontro aperto e frontale!) si risolse nel 1927. Negli anni trenta Trotskij non contava più nulla: nellisolamento della sua protetta casa messicana poteva scrivere ciò che voleva, con tutta la virulenza del suo livore contro lUrss di Stalin (e ne vomitò di veleno, altro che!), ma era ormai un uomo sconfitto, che con rinnovato accanimento sognava soltanto - dando direttive pazzesche ai congiurati interni che pagarono quasi tutti con la vita - di accedere al potere con metodi terroristici, e per questo egli faceva affidamento sulla sconfitta militare dellUrss. Dalle parole (che abbiamo citato) del relatore, qualcuno che non conosce la nostra storia, potrebbe farsi lidea che di fronte al movimento comunista mondiale raccolto attorno allInternazionale (la vera), seguita da centinaia di milioni di proletari, si sia eretta in tutta la sua potenza, frutto della sovrumana energia di Trotskij, unaltra Internazionale (la falsa) attorno a cui si riunì un infimo numero di intellettuali radicali e comunisti critici rissosi che con gran fatica Trotskij riusciva a tenere insieme. Più avanti il relatore scrive: "Non meno radicale è lantagonismo Trotskij-Stalin sulla guerra. Stalin in quanto ha paura della guerra e cerca di evitarla e starne fuori è un conservatore, un difensore dello statu quo, un nemico della rivoluzione. Viceversa la guerra è la grande occasione della IV Internazionale, che è già belle pronta e più forte di quanto fossero i bolscevichi alla vigilia della prima guerra imperialista". Tante parole, altrettante falsità. E vero, la cosiddetta quarta Internazionale era già belle pronta quando scoppiò la guerra, era belle pronta, confidando sulla vittoria dei nazisti, ad andare al potere dopo la sconfitta e lasservimento dellUrss. Accreditare poi lidea che la IV Internazionale fosse più forte dei bolscevichi alla vigilia della Prima guerra è mostruoso, è revisionismo storico.
I comunisti non hanno bisogno di un siffatto Centro Studi sulla Transizione, già siamo immersi in una cultura, attualmente maggioritaria, di negazione e denigrazione della storia del socialismo "novecentesco". E inutile che ci mettiamo a dare una mano al Manifesto e a Liberazione. Che razza di Centro Studi sarebbe se partissimo da posizioni trotskiste? Di trotskismo (inteso in senso lato, nel senso dellultrasinistrismo radicale che produce linsopportabile figura del comunista critico alla Ingrao) ce nè già in abbondanza. Dovendo fare una battaglia controcorrente, è bene che noi, a questa battaglia, ci andiamo, magari in pochi, ma a ranghi serrati, per motivi di ordine pratico: per non ritornare sempre al punto di partenza, come al Gioco delloca. Soltanto la figura sociale del comunista critico - ammesso che sia in buona fede e creda davvero in quello che dice, cosa di cui è lecito sospettare - può alimentare la catastrofica illusione di sempre, la catastrofica illusione di tutti i riformismi, secondo la quale "un altro mondo è possibile" senza scardinare prima - non certo con i piagnistei e gli appelli alla ragione - il marcio mondo borghese capitalistico che ci circonda.
Amedeo Curatoli