Il socialismo imperfetto del compagno Andrea Catone

Ora che gli atti del Convegno sulla transizione al socialismo in Urss sono stati pubblicati, rileggendo i saggi racchiusi in volume (Problemi della transizione al socialismo in Urss - Atti del Convegno - Napoli, 21-23 novembre 2003 - La Città del Sole, pagg. 407) non sfuggiamo all’impressione che, tranne poche eccezioni, gli studiosi di questo convegno non intendono difendere l’Unione Sovietica rivoluzionaria dei tempi di Stalin, non se la sentono di andare effettivamente controcorrente, evidentemente perché non vogliono incorrere in uno dei pericoli che temono sopra ogni altra cosa: essere tacciati di "stalinismo". Essi sono assillati dall’idea che non bisogna dar l’impressione di fare apologia ma di produrre analisi scientifiche e quindi distaccate, che occorre demolire con grande "coraggio" i miti che ci portiamo dietro. Ma in questa "coraggiosa" operazione, sentiamo l’eco (sia pure molto attutita) delle calunnie che i detrattori del comunismo hanno sempre lanciato all’indirizzo dell’Unione Sovietica.

Già scrivemmo in precedenti articoli che la questione se fosse possibile o meno edificare il socialismo in Urss era già stata risolta dai bolscevichi dopo un’aspra ed avvincente lotta contro i capitolazionisti guidati da Trotski. Questo dilemma non fu sciolto in un Convegno sulla Transizione, ma nel corso di una rivoluzione armata che espropriò i capitalisti, organizzò un movimento comunista mondiale, nazionalizzò la terra, industrializzò quello sterminato paese facendone la seconda potenza mondiale, collettivizzò l’agricoltura, resse all’urto dell’aggressione hitleriana, liberò l’intera Europa dai nazisti che l’avevano militarmente soggiogata… ebbene tutte queste imprese che hanno davvero sconvolto il mondo (imperialista) non bastano a convincere gli studiosi della "transizione", i quali, a distanza di oltre mezzo secolo, vogliono decidere loro se in Urss vi è stato oppure no il socialismo.

A ben riflettere, una decisione questo Convegno l’ha già presa: sull’ultima di copertina del libro in questione (e ricordiamo che l’ultima di copertina svela il nocciolo del contenuto dei libri) si legge:

"La transizione dal capitalismo al socialismo è una delle questioni centrali della storia recente, che ha attraversato gran parte del ‘900. La sua mancata o parziale realizzazione ha, per il momento, determinato la sconfitta delle esperienze che convenzionalmente vengono definite di ‘socialismo reale’".

Dunque, ecco che cosa ha preventivamente deciso questo Convegno: o il socialismo non c’è mai stato ("la mancata realizzazione"); o forse c’è stata una qualche approssimazione al socialismo (la "parziale realizzazione"), ma di socialismo "vero e proprio" manco a parlarne. Anzi, siccome è ancora sospeso il giudizio se sia una transizione "mancata" oppure una transizione "parziale", potrebbe anche darsi che alla fine il Centro studi opti per la soluzione più negativa (con piena soddisfazione del professor Pala) e quindi si caratterizzi come Centro Studi per la Transizione Mancata.

Ma questo epilogo è sicuramente il più improbabile, perché la maggioranza dei saggisti è per la filosofia del giusto mezzo: né "giustificazionismi apologetici" né "demonizzazioni". Anche il loro linguaggio si adegua a questa filosofia del giusto mezzo. E’ un linguaggio che dice e non dice, in modo che si possa sempre avere una via d’uscita e affermare, se messi alle strette: ma voi avete equivocato, io non intendevo dire questo!

Prendiamo per esempio lo Stachanovismo: sembra di capire, per come il compagno Mazzone imposta l’argomento, che bisogna smetterla con i giustificazionismi apologetici e con affermazioni enfatiche del tipo: per la prima volta nella storia il lavoro operaio è divenuto un punto d’onore. Lo stachanovismo - afferma questo compagno - era "senza dubbio" costituito da un complesso di "iniziative soggettive" "in vario modo sollecitate e incentivate", però… siccome in cambio del loro slancio gli operai stachanovisti non ricevevano solo lodi morali ma anche incentivi materiali (ah, vexata quaestio, sospira in latino Mazzone) gli stachanovisti erano… crumiri! (pag. 35). E se voi andate a dire a Mazzone che egli ha definito crumiri gli stachanovisti, egli vi risponderà: ma quando mai, voi avete equivocato! Secondo questo compagno la scaturigine di tutti i mali sarebbe il Partito Bolscevico, il quale avrebbe reso impossibile la "transizione" per la sua propensione a "comandare" anziché a "stimolare" lo slancio delle masse (sempre a pag. 35). Dunque tutto sarebbe avvenuto come in un gigantesco teatrino di pupazzi, e a "comandare" i fili di questi pupazzi c’era il Partito, e, ovviamente, il suo Primo Motore Immobile.

Nel breve saggio del compagno Sorini (pag. 192-198), tanto per fare un altro esempio, questi avanza, naturalmente in maniera velata, la tesi dogmatica ed eurocentrica ripetuta in passato da tutte le socialdemocrazie nemiche dell’Urss, che solo l’Occidente avanzato può essere teatro di autentiche rivoluzioni socialiste vittoriose, e che quindi nella Russia arretrata le cose non potevano non avere un epilogo negativo. Più avanti fa addirittura l’apologia dell’8° Congresso del Pci e della via italiana al socialismo, dice che la "sperimentazione organica" di questa via italiana fu resa impossibile dalle rigidità ideologiche (rigidità ideologiche!) della guerra fredda. Sorini ci racconta che "l’ultimo Lenin" prediligeva la Nep, ma che, disgraziatamente, dopo la sua morte, Stalin (che a differenza di Lenin "coltivava illusioni di facili scorciatoie") impose (intende dire evidentemente: impose contro la volontà "dell’ultimo Lenin" che avrebbe preferito perpetrare la Nep anziché industrializzare il Paese) Stalin impose, dicevamo, una "industrializzazione accelerata", una "forzata collettivizzazione", un "modello statalista integrale" (e non è questo un riecheggiare le tradizionali stupide calunnie dei nemici del comunismo?). A sentir parlare questo compagno tutte le "forzature" di Stalin (che stoltamente imboccò la via delle "facili scorciatoie") operate contro le delizie della Nep voluta "dall’ultimo Lenin", hanno sprofondato la classe operaia nell’inferno della fabbrica sovietica "rigidamente centralizzata e gerarchica", in cui esisteva un "dirigismo aziendale che ha escluso i lavoratori" (dunque: fabbrica sovietica = fabbrica confindustriale). Vedete "il guevarismo a Cuba" e il "maoismo e la Rivoluzione culturale in Cina": quelle sì - dice Sorini - sono esperienze grandiose, altro che l’industrializzazione coatta di Stalin. Potremmo commentare così queste affermazioni : tu, Sorini, hai il merito di ritenere la Cina un paese socialista, ma per quale oscuro motivo (se non per pregiudizi antistaliniani) contrapponi la Cina all’Urss di Stalin? E anche questo compagno, probabilmente, ci risponderebbe che abbiamo equivocato, che non abbiamo capito nulla del suo saggio.

Ma l’operazione più audace di tutte l’ha compiuta il coordinatore del Centro studi, il compagno Catone, il quale ha imperniato il suo saggio su uno scritto geniale di Stalin, Problemi economici del socialismo, per dimostrare (avvalendosi dello stesso Stalin!) che la "transizione" si è inceppata. Dopo un’analisi dei Piani quinquennali e delle scuole di pensiero sovietiche che sull’argomento si confrontavano (qualcuno diceva che quei Piani erano "teleologici" e "imperativi", qualcun altro, appartenente alla "scuola genetica" suggeriva, evidentemente, vie più riformiste e meno "imperative"), Catone giunge alla conclusione che effettivamente quei piani quinquennali erano teleologici e imperativi poiché "indicavano lo scopo prescindendo (!!) in sostanza da problemi di equilibrio". Quindi si pianificava, ma senza sapere dove si andava a parare (che è la stessa filosofia del suo collega Mazzone: Stachanovismo? Sì, ma con rischio di crumiraggio; piani quinquennali? Sì, ma teleologici).

Hans Heinz Holz (che è uno dei pochi che difende la Russia di Stalin senza concedere nulla ai pregiudizi indotti dalla demonizzazione kruscioviana) ci ricorda, riferendosi alla stessa opera citata da Catone, che Stalin vedeva il suo paese proiettato verso il comunismo; e per questo affermava che bisognava, in un futuro non remoto, ridurre la giornata lavorativa a cinque ore perché tutti i cittadini sovietici avessero abbastanza tempo libero per ricevere un’istruzione completa. Holz ritiene quest’opera un lascito prezioso e dice che i comunisti non devono disperdere questa eredità "se vogliamo onorare quanti sono caduti nella lotta per questo obiettivo"(pag.377). Catone, viceversa, afferma con molto "coraggio", perché lui non è apologeta, che "Stalin, nei Problemi economici del socialismo ribadirà (??) la concezione teleologica" (dei piani quinquennali). Dunque a Catone non basta che Stalin (siamo nel 1952) sia stato, insieme a tutto il suo popolo, il principale artefice della disfatta militare del nazismo grazie ad un’economia pianificata che ha fatto dell’Urss una potenza industriale di prim’ordine, ma ce lo rappresenta come un tipo testardo che, anche nel 1952, un anno prima della morte, continua ad avere per il capo idee malsane di sviluppo "teleologico".

Le vicende dell’Urss staliniana sono viste da Catone come una sequela di drammi, una valle di lacrime, un luogo desolato dove non c’era posto per l’ottimismo ed il sorriso; un luogo cupo, dove si architettavano piani quinquennali senza né capo né coda. Sì è vero, ammette Catone, in Urss grandi realizzazioni ve ne sono state, però…. erano "largamente imperfette"; degli stachanovisti non dice che fossero crumiri, come Mazzone, ma che provocavano "notevoli squilibri, cadute produttive, sprechi" ; insomma "uno stato d’emergenza permanente caratterizza la vita sovietica degli anni trenta" e poi, nel grave, drammatico, tenebroso e lacrimoso marasma in cui si dibatte un’Urss stremata da Piani quinquennali che si sapeva come iniziavano ma non come andavano a finire, "la guerra (cioè l’aggressione proditoria e criminale dei nazisti) introduce un ulteriore (un ulteriore!! pag. 211) fattore di instabilità". Come a dire: non bastavano tutte le tragedie teleologiche di uno sviluppo emergenziale e "con notevoli squilibri", aggiungete a queste tragedie… anche Hitler! Verso la metà del saggio, campeggia una lunga citazione di Trotski, il quale ammette "gli immensi risultati ottenuti dall’industria" sovietica (pag. 205). Il compagno Catone non capisce che Trotski, per cercare di conquistare qualche accolito alla cosiddetta quarta internazionale, deve strumentalmente riconoscere, anche lui, che nel paese dei Soviet qualcosa di buono si sta pur facendo. Ma mentre fa queste dichiarazioni, Trotski sta organizzando una rete cospirativa che, con metodi terroristici sta intralciando in tutti i modi, con stragi di lavoratori sovietici (facendo esplodere miniere e provocando catastrofi ferroviarie), quelle realizzazioni che finge di magnificare. In questo modo, inspiegabilmente, il compagno Catone tenta di accreditare il Trotski rifugiato e protetto in una villa-fortino di città del Messico. Vedete? - sembra che egli dica - anche Trotski, dopo tutto, è una persona onesta perché riconosce i lati positivi dell’Urss staliniana.

Ricordiamo, e lo confutino chiaramente gli studiosi del Centro studi per la transizione, che Trotski guidava una vasta rete cospirativa controrivoluzionaria. Provino, questi studiosi, a confutare il ruolo antisovietico di Trotski, dicano chiaramente che la cospirazione controrivoluzionaria è tutta un’invenzione di Stalin, lo dicano chiaramente, invece di riportare inopportunamente (ed incautamente) citazioni di questo nemico giurato dell’Urss. E poi, ammesso che Trotski si fosse ritirato dalla politica attiva e fosse stato davvero un "profeta disarmato" come dice (sicuramente in malafede) il suo biografo Deutscher, egli avrebbe dovuto vergognarsi di magnificare, ipocritamente, le realizzazioni sovietiche, egli che ha sempre negato che fosse possibile una qualsiasi conquista socialista in Urss in assenza di una rivoluzione vittoriosa in un paese europeo avanzato.

Gli studiosi della transizione evidentemente non conoscono il contenuto violentemente polemico dello scontro sul "socialismo in un solo paese", ne avranno sentito parlare (forse da Deutscher, forse da Spriano), ma a giudicare dal modo in cui citano Trotski, è quasi certo che essi non conoscono le fonti primarie di quella polemica, accontentandosi di riportarne versioni di fonte trotskista o socialdemocratica. E non conoscono neanche i resoconti stenografici dei Processi del ’36 e del ’38, ritenuti pregiudizialmente, alla stregua della Seconda internazionale, roba da ridere.

Il saggio di Catone si conclude con un’ammissione importante ma non dimostrata, anzi appena accennata: "Vi è certamente un revisionismo nella teoria e nelle riforme economiche degli anni 1950-1970, ma sarebbe sbagliato e fuorviante qualificare l’insieme di questi tentativi…come responsabili dello scacco successivo del socialismo sovietico e delle democrazie popolari" (pag.219).

Quindi vi è stato un revisionismo (dopo la morte di Stalin) ma questo revisionismo non ha contato nulla. Catone, che si è dilungato sui piani quinquennali, arrivato al nocciolo della questione, a capire cioè finalmente in che cosa è effettivamente consistito il revisionismo kruscioviano in campo economico ( che dovrebbe essere il cuore della ricerca di un Centro studi sulla transizione), arrivato al nocciolo, dicevamo, Catone non solo non ci dice niente, ma ci mette in guardia, con tono ultimativo, dal parlare di revisionismo kruscioviano. Attribuire a quest’ultimo "lo scacco del socialismo sovietico" sarebbe - dice Catone - "una spiegazione mitologica e semplificatoria, e, in definitiva, ‘tranquillizzante’. Vi è stato revisionismo? Sì, egli dice, ma guai a pensare che la "revisione sia stato un deliberato tradimento".

Dunque, l’origine della catastrofe di questa transizione semi-mancata è da ricercare non nella svolta kruscioviana (consiglieremmo a Catone di leggersi le decine di documenti del PCC contro la svolta kruscioviana), ma negli errori di Stalin.

Voi vorreste "tranquillizzarvi" - ci ammonisce Catone - coltivando l’idea che "negli anni 1950-1970 vi sia stato un "revisionismo", ma non è così: non state a baloccarvi con i "deliberati tradimenti": alla fonte del fallimento ci sono gli anni trenta-quaranta.

A dir la verità, noi preferiamo la "tranquillizzazione" cui ci indusse la grandiosa polemica mondiale del PCC contro Krusciov. La preferiamo di gran lunga alla destabilizzazione catoniana. Non si capisce perché Krusciov dovrebbe essere scagionato (come del resto ci sembra che si voglia fare con Trotski). Su Krusciov possiamo controbattere solo questo: che è stato uno degli uomini più abbietti della Storia, non tanto, anzi nient’affatto, per la statura del personaggio, quanto per la grandiosità del regime sociale e le dimensioni del paese che egli iniziò a demolire dando nuova linfa vitale a tutte le forze della controrivoluzione mondiale, le quali videro in quest’omiciattolo provvidenziale il principio della fine del comunismo, e sicuramente la fine dell’"incubo" staliniano.

D’accordo, i tradimenti non spiegano tutto, ma il tipo di analisi che fanno Mazzone, Sorini e Catone spiegano ancora meno. Questi compagni il socialismo lo vogliono senza "sprechi" senza "errori anche notevoli", senza "teleologie" e senza "imperativi", lo vogliono senza "stati di emergenza" e senza "collettivizzazioni" da essi giudicate (come i socialdemocratici della Seconda internazionale) "forzate". La loro psicologia si compendia nella linea: "un altro socialismo è possibile" (magari dal volto umano). La prima rivoluzione vittoriosa socialista al mondo, nella descrizione postuma di Catone, si trasfigura in un’orrida "transizione dall’arretratezza all’industrializzazione". Non "rivoluzione", dunque, ma "transizione dall’arretratezza alla industrializzazione", vale a dire ciò che accadde in Italia a cavallo degli anni ’50 e ’60, quando quest’ultima diventò un paese industriale, superando l’arretratezza di un’economia prevalentemente agricola.

La cosa più discutibile, nel saggio in esame, è che verso chi difende un socialismo storicamente determinato, con i suoi sprechi, errori, pericoli di fughe in avanti ecc., Catone lancia l’accusa di immaginare il socialismo sovietico come un "modello perfetto e assoluto, come il classico di una transizione al socialismo" (pag.220). Qui è il ladro che grida ‘al ladro!’: è proprio chi censura impietosamente la storia del comunismo a serbare, nel fondo della propria coscienza, dei modelli perfetti e assoluti, dei modelli classici idealizzati a cui comparare l’Urss di Stalin, per giungere alla conclusione che a quegli stratosferici modelli classici non si arriverà che a 1000 anni dalla Riforma luterana.

C’è un ultimo aspetto di questo Centro studi che vorremmo mettere in luce: la cosiddetta transizione non riguarda solo la Russia, ma tutto il mondo. Quando si dice, ritornando ancora all’ultima di copertina del libro in esame, che "la sua mancata (del socialismo) o parziale soluzione" "ha determinato la sconfitta delle esperienze che vengono definite convenzionalmente di ‘socialismo reale’" (convenzionalmente? non è stata la borghesia internazionale, nemica giurata del comunismo, a coniare la mostruosa espressione "socialismo reale"?) quando si afferma ciò, dicevamo, significa che Cina, Corea del nord, Vietnam, Cuba sono "esperienze sconfitte", e che dunque non meritano neanche più che si aprano, a loro possibile vantaggio, Centri studi per la transizione, perché non c’è nulla da studiare: è tutto capitalismo.

Sostenere, come fa la maggioranza dei saggisti del Centro studi, che la fine del socialismo è da ricercare nel socialismo stesso, implica, essa sì, una visione tranquillizzante tanto semplicistica quanto poggiante su di una smisurata presunzione.

Il vero rompicapo, l’autentico nodo gordiano da sciogliere sta nel riuscire a capire come mai l’Unione Sovietica, malgrado le grandiose realizzazioni conseguite (altro che piani quinquennali teleologici e imperativi!), ha dovuto soccombere, mentre l’Occidente imperialistico, dal confronto, ne è uscito (momentaneamente) vincente.

L’Unione Sovietica non è morta di economia, per così dire, ma di democrazia. E’ lì che vanno indagate le cause della catastrofe sovietica, nei limiti storici e teorici che hanno reso impossibile il raggiungimento di una piena democrazia politica. Ma siccome, a dispetto di quanto pensa la maggioranza degli studiosi della "transizione", il socialismo nel mondo non è scomparso, dalle esperienze concrete di "transizioni" che si stanno attuando in Cina, Vietnam ecc. (e che avremmo il sacrosanto dovere di studiare) verranno preziose indicazioni di edificazione socialista, tanto più nuove ed originali poiché avranno tratto insegnamento dai limiti storici e teorici dell’esperienza sovietica.

Amedeo Curatoli

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