Comunismo e trotskismo

A proposito della tesi 53 del documento congressuale

Se vogliamo affrontare seriamente la questione di Stalin, che è il più intricato di tutti i nodi di storia del comunismo novecentesco, dobbiamo salvarlo come rivoluzionario, riconoscerne i meriti storici che sono notevoli, e poi aprire una discussione per definirne i limiti e gli errori, gravi o gravissimi, che sono certo riconducibili alla persona, ma che derivano anche dai limiti storici e teorici appartenenti ad un’epoca e a una dottrina. E nel fare ciò noi non salviamo la nostra anima, ma la nostra storia, la qual cosa ha un immenso valore pratico, perché l’imparare dagli errori passati ci metterà in grado di immaginare, ipotizzare, intravvedere, nel nostro orizzonte denso di nebbia, una possibile ripresa, senza quegli errori e quei limiti che hanno portato al crollo. Se non storicizziamo non siamo dei marxisti, perdiamo la bussola e giungiamo finanche a espungere Gramsci dal nostro passato, ma contemporaneamente riportiamo in auge un Toni Negri, il quale meglio farebbe a raccogliersi in meditazione pensando a quanta gioventù ha contribuito a mandare allo sbaraglio piuttosto che star lì ad ammannirci una tesi sull’impero. Quest’ultima tesi, più che un superamento dell’imperialismo di Lenin, sembra molto più vicina ad una variante ultrasinistra di capitolazionismo nei riguardi dell’imperialismo americano.

A ben riflettere poi, non si tratta neanche di "aprire" una discussione, ma di "continuarla", poiché dal 1953 ad oggi (quasi mezzo secolo), sono intervenuti sulla questione di Stalin eminenti personalità del mondo comunista. In un recente importante articolo che mette in luce le radici populistiche delle posizioni ultrasinistre, Domenico Losurdo ("Dinanzi al processo di globalizzazione: marxismo o populismo?") ritiene obsoleta la vecchia polemica stalinismo-trotskismo, il che, se è vero da un punto di vista astratto (nel senso che sarebbe più produttivo guardare ai compiti dell’oggi anziché rivolgerci indietro alla nostra storia) non lo è più oggi, nel nostro paese, dove questa vecchia polemica, che sembrava sopita, viene riportata in auge, e con un linguaggio - ripetiamo - violento e perentorio, proprio dalla maggioranza di Rifondazione comunista che ha in Bertinotti il suo più acceso coriféo. Sarebbe quindi doveroso, in presenza di così radicati pregiudizi antistalinisti, diffusi massimamente fra le giovani generazioni di compagni, riportare la polemica nell’alveo di un confronto suffragato da documenti storici.

La discussione sulla possibilità o meno di realizzare il socialismo in un solo paese, che Trotskij impose al partito bolscevico subito dopo la morte di Lenin, non alimentava una divergenza di carattere meramente teorico, ma aveva a che fare con la sopravvivenza stessa della Russia rivoluzionaria. Trotskij non era affatto il tipo da trarre, dall’impossibilità di edificare il socialismo in Urss, la conseguenza disfattista di cedere il potere e ritirarsi in vista di tempi migliori, più maturi per il socialismo. Questa sua linea celava un avventurismo politico che di sicuro si sarebbe rivelato - una volta che fosse risultato vincente - catastrofico. Nell’immediata vigilia della presa del potere egli scrisse:

"Il proletariato della Russia dopo essere giunto al potere, sia pure soltanto in seguito a una temporanea congiuntura della nostra rivoluzione borghese, incontrerà l’ostilità organizzata della reazione mondiale e la volontà del proletariato mondiale di prestare un aiuto organizzato. Abbandonata alle sue sole forze, la classe operaia della Russia sarà inevitabilmente schiacciata dalla controrivoluzione nel momento in cui i contadini l’abbandoneranno. Non le rimarrà altro che legare le sorti del suo dominio politico, e, per conseguenza, le sorti di tutta la rivoluzione russa, alle sorti della rivoluzione socialista in Europa. Essa getterà sul piatto della bilancia della lotta di tutto il mondo capitalistico la colossale forza statale e politica che le darà la temporanea congiuntura della rivoluzione borghese russa. Con il potere statale nelle sue mani, la controrivoluzione alle spalle, la reazione europea di fronte a sé, essa lancerà alle sue consorelle in tutto il mondo il grido di appello che questa volta sarà il grido dell’ultimo attacco: Proletari di tutti i paesi unitevi!"

Successivamente egli è rimasto sempre fedele a questa idea. Nel 1922, cinque anni dopo la rivoluzione vittoriosa, nella prefazione al libro "1905", egli scriveva:

"Le contraddizioni nella situazione del governo operaio di un paese arretrato, con una maggioranza schiacciante di popolazione contadina, potranno trovare la loro soluzione soltanto su scala internazionale, sull’arena della rivoluzione mondiale del proletariato"

La sua strenua lotta per il potere era fondata sul cambiamento radicale di linea politica che, ripetiamo, se fosse prevalsa, avrebbe esposto la giovane repubblica sovietica a gravissimi rischi, ed oggi probabilmente si sarebbe detto che l’utopia del comunismo si rivelò irraggiungibile ed avremmo pianto sulla Russia dei Soviet come Marx pianse sulla Comune di Parigi. Invece no, quel tentativo di assalto al cielo non fu effimero come quello della Comune, e il primo grande merito storico di Stalin e della stragrande maggioranza del partito bolscevico (che non eseguiva a bacchetta gli ordini di nessuno), è stato quello di dimostrare, alle generazioni future (credendo fermamente nelle potenzialità della Russia rivoluzionaria) che l’utopia del potere proletario poteva trasformarsi in realtà, che, tanto per usare un’espressione aggiornata, un altro mondo era possibile! E non fu neanche una polemica politicista, di quelle che animano i nostri piccoli partiti comunisti, ma fu una battaglia aperta, coraggiosa e aspra che durò anni, e di cui era al corrente tutto il movimento comunista internazionale. Nel 1925 quando in Italia c’era la dittatura fascista, i nostri compagni comunisti di allora, in preparazione del congresso di Lione, leggevano un opuscolo clandestino, con su scritto: "materiali per il congresso", in cui vi erano integralmente pubblicate sia "Le lezioni dell’Ottobre" di Trotskij sia una sua "lettera a Olminskij sulle divergenze col partito bolscevico", sia una risposta polemica di Zinoviev nonché una nota della Pravda. Dunque era un dibattito che si svolgeva alla luce del sole (fascismo permettendo, in Italia) e sulla base di posizioni originarie e non polemicamente deformate.

Anche l’immagine di un Trotskij bastonato e ridotto ai margini e che combatteva ad armi impari la sua battaglia è del tutto falsa. Immediatamente dopo la scomparsa di Lenin egli non badò alle mediazioni, accusò senza mezzi termini la maggioranza del partito (che era solito definire la frazione guidata da Stalin) di termidorismo, di essere cioè controrivoluzionaria. Nel luglio del 1927, quando nel partito si discuteva di minacce di guerra e della difesa dell’Urss, egli si spinse fino ad ipotizzare, in caso di attacco all’Urss, il rovesciamento violento del vertice del partito (proprio come fece Clemenceau in Francia dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale). Ed espose questa tesi in maniera incredibilmente esplicita, in una lettera ad Orgionikidze, membro della Commissione centrale di controllo, che non era trotskista.

Il pregiudizio antistalinista poggia anche sul testamento di Lenin che Stalin avrebbe occultato. Ad alimentare questo falso si sono cimentati non solo storici borghesi, ma anche di area Pci.

1) Scrive Lisa Foa:

"Al 13° Congresso svoltosi pochi mesi dopo la morte di Lenin, il "triumvirato" di Stalin, Zinoviev e Kamenev si era mostrato più che mai unito e consolidato dopo aver sferrato alla 13ª Conferenza del partito, avvenuta in gennaio, l’attacco a fondo contro le tesi politiche ed economiche dell’Opposizione. Il "triumvirato" si presentava ormai come il fedele continuatore ed erede del pensiero di Lenin, nonostante non avesse consentito a rendere noto al congresso il "testamento" che Lenin aveva scritto nel dicembre 1922, e a cui aveva aggiunto in un poscritto la proposta di rimuovere Stalin dalla carica di segretario generale (il testamento sarà pubblicato in Urss soltanto nel 1956)" (Bucharin-Preobrazenski, l’accumulazione socialista, a cura di Lisa Foa, Editori Riuniti, pag.268).

2) Scrive Valentino Gerratana:

"la Lettera al Congresso (cioè il "testamento" di Lenin n.d.r.) (scritta a futura memoria tra il dicembre 1922 e il gennaio 1923) non pervenne ai destinatari, come si sa, e fu resa nota ufficialmente solo nel 1956 alla fine dell’era staliniana ("Lenin e il 900" a cura di R. Giacomini e D. Losurdo, pag.478).

3) Luciano Canfora, dopo aver dato credito alla tesi del noto storico trotskista Deutscher che "lo zarismo sconfitto stava conquistando spiritualmente il bolscevismo" (ciò che avrebbe indotto Lenin a scrivere il "testamento") così prosegue:

Il cosiddetto testamento di Lenin conteneva nell’aggiunta agli appunti del 24 dicembre la proposta di allontanare Stalin dall’incarico di Segretario generale del partito perché troppo "brutale"…. E’ il testo che si suol dire sia rimasto sconosciuto ai sovietici sino al XX Congresso del Pcus, ma che in realtà fu divulgato a Mosca dalla frazione trotskista al XV congresso (dicembre 27) e ripreso dai grandi giornali all’estero (in Italia dal Corriere della Sera") (ibid.pag. 85).

Ma qual è la verità su questo "testamento"? Nel 1925, quando l’opposizione cominciò forse a temere di perdere definitivamente la sua battaglia, non rinunciò, ai fini della lotta politica, a servirsi di questo documento (che indubbiamente accreditava l’appoggio di Lenin a Trotskij) e lo portò a conoscenza di un certo Eastman, giornalista americano vicino a Trotskij. Tornato negli Stati Uniti, costui scrisse un libro, "Dopo la morte di Lenin", in cui affermava che il CC nascondeva il "testamento" di Lenin. L’Ufficio politico chiese a Trotskij di scindere le sue responsabilità da Eastman ed egli acconsentì. Sul n° 16 del Bolscevik del 1° settembre 1925 Trotskij pubblicò una lettera:

"In alcuni passi del libercolo di Eastman si dice che il CC ha "nascosto" al partito una serie di importantissimi documenti scritti da Lenin nell’ultimo periodo della sua vita (si tratta di lettere sulla questione nazionale, del cosiddetto "testamento" ecc.); questa affermazione non si può chiamare altro che calunnia contro il CC del nostro partito. (….) Qualsiasi chiacchiera sull’occultamento o sulla violazione del "testamento" è una maligna invenzione ed è interamente diretta contro l’effettiva volontà di Vladimir Ilic e gli interessi del partito da lui creato" (cit. in Stalin, op. complete vol. 10° pag.185).

Il 23 ottobre 1927, in un discorso a una seduta della sessione plenaria comune del Comitato centrale e della Commissione centrale di controllo del Partito bolscevico, Stalin disse:

"Si dice che in questo "testamento" il compagno Lenin proponesse al Congresso che, data la "rudezza" di Stalin, si dovesse pensare a sostituirlo con un altro compagno nella carica di segretario generale. E’ assolutamente vero; sì, io sono rude, compagni, nei riguardi di coloro che in modo rude e perfido distruggono e scindono il partito….. Alla prima seduta dell’assemblea plenaria del CC dopo il 13° Congresso ho chiesto all’assemblea plenaria del CC di esimermi dalla carica di segretario generale. Il congresso stesso ha discusso la questione. Ogni delegazione l’ha discussa, e tutte le delegazioni, all’unanimità, compresi Trotskij, Kamenev e Zinoviev, hanno imposto al compagno Stalin di restare al suo posto… Un anno dopo ho di nuovo chiesto all’assemblea plenaria di essere esonerato dalla carica, ma di nuovo mi è stato imposto di restare. Che cosa dunque potevo fare? Quanto alla pubblicazione del "testamento", il congresso ha deciso di non pubblicarlo, perché era indirizzato al congresso e non era destinato alla stampa" (ibid. pag. 188).

Come si vede, ad alimentare i pregiudizi antistalinisti sono occorse anche delle vere e proprie falsificazioni storiche.

Altro radicato pregiudizio indotto dal trotskismo: Stalin tradì la rivoluzione cinese. Tanto per andare al cuore dei dissensi fra Stalin-Partito bolscevico-Terza Internazionale da una parte, e la minoranza trotskista dall’altra: la divergenza nasceva dal fatto che Trotskij non ammetteva distinzioni di principio fra un paese imperialista ed uno coloniale o semicoloniale. Egli lo affermò in modo esplicito:

"Per i paesi a sviluppo borghese ritardato e in particolare per i paesi coloniali e semicoloniali, la teoria della rivoluzione permanente significa che la soluzione vera e compiuta dei loro problemi di democrazia e di liberazione nazionale non è concepibile se non per opera di una dittatura del proletariato…." E più avanti: "Lo schema tracciato sopra dello sviluppo della rivoluzione mondiale elimina la questione dei paesi "maturi" e "non maturi" per il socialismo, secondo la classificazione pedantesca dell’attuale programma del Komintern". (Trotskij, "La rivoluzione permanente" Mondadori, pag.196 e 199).

Anche su quest’argomento il dissidio, lungi dall’essere teorico, implicava due strategie del tutto diverse. Quali di queste portò la rivoluzione cinese alla vittoria? La teoria di Trotskij oppure le "pedanterie" del Kominform (vale a dire dell’onnipotente Stalin che piegava ai suoi voleri tutto il movimento comunista internazionale)? Qui bisognerebbe ripercorrere tutte le tappe della violenta contrapposizione di linee. Ma può bastare un argomento molto significativo: nel 1974 le edizioni in lingue estere di Pechino hanno pubblicato un’antologia di scritti di Stalin in inglese, "On the Opposition" (sull’Opposizione), nella quale, oltre agli articoli e ai discorsi contro la rivoluzione permanente, vi sono anche quelli (tutti quelli) che avevano come argomento la rivoluzione cinese. Non poteva averla commissionata Stalin questa antologia di 921 (novecentoventuno) pagine, essendo egli scomparso 21 anni prima. Dunque sono i cinesi stessi, vale a dire gli artefici primi della loro rivoluzione, a riconoscere il ruolo che egli svolse in quegli eventi storici.

Ritornando all’Urss degli anni che precedettero la guerra, la consapevolezza che il socialismo non fosse al riparo dal pericolo di un’aggressione militare era forte, fortissima. Fu questa con-sapevolezza che spinse il partito bolscevico a procedere all’industrializzazione del paese attraverso i Piani quinquennali. E se oggi leggiamo in una tesi congressuale di Rifondazione l’accusa di "sviluppismo", rivolta all’Urss di quegli anni, non dobbiamo temere di venir tacciati di nostalgismo se di fronte ad una calunnia così insulsa ribadiamo i meriti storici di quella scelta, la quale, combinata con un eroico spirito di sacrificio di milioni di cittadini sovietici, consentì di reggere all’urto tremendo dell’aggressione nazifascista e di vincere la guerra dopo anni cruenti di operazioni militari e di memorabili battaglie che costarono al popolo sovietico un vero genocidio. E quando l’Armata rossa, dopo aver inseguito i nazisti fin nelle loro tane di Berlino, appose la bandiera con falce e martello sulle rovine fumanti del Terzo Reich, essa lanciò un monito grandioso, e da quel giorno, davvero, il mondo non fu più lo stesso.

Anche il radicale cambiamento geopolitico susseguito alla Seconda guerra mondiale, con la creazione del campo socialista (cui avrebbe fatto da epilogo, 5 anni dopo, la vittoria della rivoluzione cinese) e che diede impulso alle forze della pace, del progresso e della decolonizzazione, tutto ciò viene ridotto ad un trascurabile capitoletto di storia di spartizione del mondo in "sfere di influenza" avvenuta a Yalta. Come se, dopo Yalta, non vi fosse stata una tremenda guerra fredda e la minaccia atomica contro l’Unione Sovietica da parte dell’imperialismo anglo-americano.

La restaurazione del capitalismo in Unione Sovietica ha prodotto in molti di noi, gente di cultura marxista, una sorta di trauma cranico spirituale che ci ha fatto smarrire la memoria (storica). Ci rendiamo conto altresì che la difesa di Stalin, figura centrale di quel grande paese così miseramente crollato, è un terreno arretrato di lotta. Ma questo terreno ce lo impone la maggioranza bertinottiana, che si sbarazza della nostra storia alla maniera di Bartali: l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare.

Riferendosi agli intellettuali della sua epoca, Voltaire scrisse: "La nostra miserabile specie è così fatta che coloro che camminano sulle vie battute gettan sempre sassi contro quelli che insegnano vie nuove" (Voltaire, "Dizionario filosofico", alla voce "Letterati"). La "miserabile specie" degli intellettuali di sinistra odierni camminano sulla via tracciata dal rapporto segreto di Krusciov (e prima di lui da Trotskij), che è una via sicura, perché maggioritaria e conformista, la via del dileggio e delle falsificazioni. Ma un’altra parte di loro vorrebbero "insegnare vie nuove", cercando di farlo però nel modo più accorto possibile, perché temono la lapidazione dei loro colleghi. E’ una cautela inutile, dato che saranno comunque tacciati di "stalinismo" e presi a sassate. Tanto vale parlar chiaro, come hanno fatto quei tre compagni sull’ultimo numero de L’Ernesto che hanno firmato l’articolo "Stalinismo e antistalinismo".

Amedeo Curatoli

Anche L’Ernesto che non potrebbe definirsi propriamente un organo di battaglia politica, ospita un articolo firmato da tre compagni di Milano che ricordano, con notevole vis polemica (cui il giornale non ci aveva abituato), alcune inoppugnabili verità storiche che i revisori del comunismo novecentesco desidererebbero occultare.

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