Da dove viene la Bolognina

L’intervista rilasciata dal compagno Cappelloni sul penultimo numero dell’Ernesto ha il pregio di essere molto chiara. La storia del Pci, egli sostiene, è racchiusa nell’arco di due grandi negazioni: "la ‘negazione’ della rivoluzione nella fase del dopoguerra, in un mondo diviso in aree di influenza (Usa e Urss) e la ‘negazione’ finale a perpetuarsi come partito comunista nella fase della crisi e poi del crollo sovietico". E’ su questa sintesi, operata dall’autorevole compagno ex dirigente del Pci, che vorremmo svolgere alcune considerazioni. Non ci soffermeremo sui meriti storici del Pci togliattiano ricordati dal compagno, a scorno dei transfughi della Bolognina (in che altro modo chiamarli?), i quali, affetti da autofobia come tutti quelli che rinnegano il loro passato, vorrebbero stendere un velo pietoso sulla storia del comunismo italiano per farne scomparire le tracce.

Veniamo ora alla motivazione che starebbe alla base della prima ‘negazione’ e cioè: "il progetto rivoluzionario (fu) chiuso in Italia dalla divisione del mondo in sfere di influenza". Qui rischiamo di fare una concessione ai tradizionali argomenti dei nostri avversari di sempre. Ammettiamo che Stalin non ritenesse opportuno, in quella congiuntura storica, che nel nostro paese si procedesse alla rivoluzione socialista, o peggio ancora che Roosvelt e Churchill avessero, per così dire, contrattato con Stalin di porre un freno alla rivoluzione nel nostro paese (o anche in Francia o in Grecia), e che questi, per rispettare gli equilibri scaturiti dalle spartizioni geopolitiche vi avesse acconsentito interferendo direttamente sulle scelte del Pci. Stando così le cose quest’ultimo si sarebbe dunque visto costretto a rinunciare alla rivoluzione e - per ripiego? almeno così si capisce da come il compagno Cappelloni pone la questione - a praticare "l’idea gramsciana della conquista delle casematte e dell’egemonia come basi materiali per lo stesso processo rivoluzionario". Anche su questo - ma ne parliamo solo incidentalmente - vi sarebbe da fare un rilievo a quanti citano, e sono molti, le "casematte" di Gramsci. Una singola formula non può costituire la linea strategica di un partito comunista: a parte il fatto che anche un partito che rinunciasse alla cosiddetta ora ‘x’ potrebbe utilizzare le "casematte" e l’"egemonia" per rinviare sine die la prospettiva della rivoluzione armata. E faremmo così del grande Antonio Gramsci un riformista. Il richiamo dogmatico ad una formula non serve mai a nulla, e lo stesso Gramsci, con la lezione di antidogmatismo che ci ha tramandato, vi si sarebbe opposto. E poi, quest’infinitamente ripetuto richiamo alle "casematte" è un vero torto che gli facciamo: immaginiamo che cosa egli avrebbe rappresentato per i destini della rivoluzione proletaria in Italia, se, invece di scriverne, in una cella, badando alla censura degli aguzzini, avesse potuto dispiegare pienamente la sua attività di dirigente rivoluzionario una volta sfuggito alla reazione fascista, come Togliatti.

Ritornando alle "sfere di influenza", prima di riuscire a capire come sono andate effettivamente le cose in Italia, conviene fare un passo indietro e tentare di trarre, per via analogica dei suggerimenti che ci mettano in grado di sciogliere il dilemma. In un discorso in cui traeva un bilancio della storia della Terza Internazionale, Zhou Enlai sostenne: "Fu necessario costituire l’Internazionale Comunista, e fu anche necessario scioglierla. Dalla nascita al suo scioglimento l’Internazionale Comunista ebbe una durata di 24 anni (1919-43), che possono essere divisi in tre periodi di 8 anni. Il compagno Mao Zedong ebbe a dire una volta che l’Internazionale Comunista agì bene durante il primo e il terzo periodo, ma che le cose non funzionarono durante il secondo. Qui non si tratta di stabilire se fosse necessario o meno creare l’Internazionale Comunista, la quale svolse invece un ruolo importante nel favorire la formazione dei Partiti comunisti nei vari paesi e nello stimolare la loro crescita. Ma dal momento che questi partiti crebbero e maturarono, non vi era più alcuna necessità che l’Internazionale continuasse ad esistere". Poi aggiunse: "La debolezza e gli errori della Terza Internazionale Comunista, in particolare durante il secondo periodo (luglio 1927-luglio 1935 n.d.r.), possono essere riassunti in questi termini: essa non riuscì a conformare le sue direttive generali alla realtà dei diversi paesi, e diede specifiche istruzioni ad ogni singolo Partito invece di svolgere, nei loro confronti, una funzione di guida dal punto di vista generale, di principio. Così facendo, interferì nei loro affari interni e frappose ostacoli alla loro azione indipendente e al dispiegarsi della loro iniziativa e creatività" (Selected Works of Zhou Enlai, Foreign Languages press, Beijing, 1989, pag307). Ma da ciò i comunisti cinesi non trassero la conclusione che gli eventuali errori commessi dai vari Partiti comunisti fossero ascrivibili alla Terza Internazionale. Infatti in un altro importante documento che faceva riferimento ai rapporti fra il PCC e l’Internazionale essi affermarono: "Per il fatto che alcune idee errate sostenute da Stalin fossero accettate ed applicate da alcuni compagni cinesi, siamo noi cinesi che ne dovremmo portare la responsabilità. Nella sua lotta contro l’opportunismo di ‘sinistra’ e di destra, pertanto, il nostro partito criticò soltanto i compagni che sbagliavano e mai addossò la colpa a Stalin" (The polemic on the general line of International Communist Movement, Foreign languages press Beijing 1965, pag. 123). Il retroterra ideologico e filosofico che chiarisce ulteriormente il modo di pensare dei comunisti cinesi (che criticano gli errori dell’Internazionale ma non le addossano i danni provocati da quegli errori) risiede in quello splendido saggio di Mao, "Sulla contraddizione", lì dove dice che secondo la dialettica materialistica le cause esterne (nel nostro caso le direttive errate dell’ Internazionale) sono la condizione delle trasformazioni, e le cause interne (la scelta del PCC di obbedire alle direttive errate dell’Internazionale) ne sono la base.

Ma poi, fu vera ‘negazione’ quella di Togliatti? Non fu egli in più occasioni accusato dagli avversari di ‘doppiezza’, di praticare la politica del ‘doppio binario’? Del resto lo stesso compagno Cappelloni nel prosieguo dell’intervista dice, in parte contraddicendosi: "credo che nella prassi e nella teoria del Pci di Palmiro Togliatti non fosse implicita la rinuncia alla prospettiva socialista.." e qui siamo completamente d’accordo con lui, con buona pace delle sfere di influenza. Se invece dovessimo stabilire con esattezza quando, propriamente, il Pci ha imboccato irreversibilmente la via della rinuncia alla rivoluzione, anche in questo caso occorrerebbe far ricorso alla categoria del materialismo dialettico e tentare di comprendere se vi furono e quali furono le cause esterne che facendo leva sulla "doppiezza" del Pci, ne determinarono, alla fine, la mutazione.

Siamo soliti dire che non si può giudicare la storia con il senno di poi. Questa affermazione è solo in parte vera. Certo, se valutiamo i Piani quinquennali della Russia sovietica con l’attuale nostra sensibilità ecologica e accusiamo l’Urss staliniana di "sviluppismo" (pensando magari che quello "sviluppismo" ha contribuito ad allargare il buco dell’ozono), allora il senno di poi si rivela un artificio inutile e grottesco. Se invece, alla luce dell’attuale situazione internazionale che vede un’unica superpotenza spadroneggiare a livello planetario stracciando il diritto internazionale e annullando l’Onu e finanche la stessa Nato, ebbene, allora riconsiderando il 20° Congresso del Pcus con il nostro "senno" attuale, non possiamo non inorridire per la catastrofica svolta idealistica di quel Congresso. Esso sancì la linea della coesistenza pacifica e della competizione pacifica. Non erano parole, quelle parole si tramutarono in fatti di tale devastante portata da poter trarre la conclusione, oggi, che iniziò da lì, proprio da lì, il processo degenerativo che ha avuto come esito la dissoluzione dell’Urss e l’attuale imperio mondiale degli Usa.

Riportiamo alla memoria alcune cose forse dimenticate. "Chi, se non l’Onu - disse Krusciov - può farsi artefice dell’abolizione del colonialismo? Ecco perché facciamo appello alla ragione e critichiamo la cecità dei popoli dell’Occidente, dei loro governi e dei loro rappresentanti a questa solenne assemblea delle Nazioni Unite. Mettiamoci d’accordo sulle misure da intraprendere per abolire il colonialismo e quindi accelerare un processo storico naturale" (Apologist of neocolonialism, Foreign languages press Beijing 1965 pag.197). Disse anche: "Il disarmo creerebbe le opportune condizioni per uno straordinario incremento delle condizioni di vita degli stati nazionali di recente formazione. Se solo l’8-10% dei 120.000 milioni di dollari spesi per scopi militari in tutto il mondo fossero devoluti a questo fine, sarebbe possibile eliminare la fame, le malattie e l’analfabetismo nelle aree depresse del globo nel giro di 20 anni" (Ibid.) (che somiglia alla rivendicazione di diminuire di un punto il Pil dei paesi ricchi a vantaggio di quelli poveri avanzata al Forum mondiale di Porto Alegre).

Diametralmente opposta a questa linea di "appello alla ragione" erano le vedute dei comunisti cinesi, i quali ebbero il merito storico di aprire un’aspra polemica politica, teorica e ideologica con il krusciovismo per affermare il punto di vista marxista. Essi denunciarono fin da allora (siamo nel 1960, 42 anni fa) ciò che oggi sembra di pubblico dominio (cioè la scandalosa impotenza dell’Onu) con queste profetiche parole: "I fatti dimostrano che le Nazioni Unite, che sono ancora sotto il controllo degli imperialisti, possono soltanto difendere e rafforzare il ruolo del colonialismo, in nessun caso abolirlo" (Ibid.). Krusciov trattò la guerra di liberazione nazionale d’Algeria come "affare interno" della Francia. Arrivò a sostenere: "Non vogliamo che la Francia si indebolisca, vogliamo che essa diventi ancora più grande" (Ibid.). Il partito comunista francese, guidato allora da Maurice Thorez, in sintonia con la svolta kruscioviana, dichiarò apertamente che i popoli delle colonie francesi andavano considerati alla stregua di "francesi naturalizzati ", rifiutandosi di riconoscere il loro diritto all’indipendenza nazionale e a separarsi dalla Francia.

Quando, ancora nel 1960, i caschi blu dell’Onu, dietro pressione Usa, furono inviati a proteggere il parlamento-fantoccio del Congo (e l’Urss si vantò di aver contributo con i suoi aerei al trasporto delle truppe), le forze reazionarie di quel "parlamento" , con l’aperta complicità dei caschi blu (che stettero a guardare senza intervenire), ebbero mano libera nel perseguitare e fare stragi degli autentici patrioti dell’anticolonialismo congolese, e il loro leader Lumumba fu assassinato. "I dirigenti del Pcus - dissero i comunisti cinesi dopo la tragedia del Congo - non sentono alcuna responsabilità per ciò che è accaduto?" (Ibid. pag.200).

Nel porci la domanda: come si dispose il Pci in quell’epoca: dalla parte della svolta kruscioviana o da quella dei suoi critici? Sia detto senza saccenteria e men che mai con la volontà di avventarsi in giudizi che tagliano la storia con l’accetta (si può agevolmente comprendere il peso determinante che ebbe in quella scelta la tradizione di fortissimo senso di appartenenza alle vicende della Russia sovietica da parte di tutti i partiti comunisti): il gruppo dirigente del Pci, a differenza della base che non accettò mai la demonizzazione di Stalin, si schierò nettamente dalla parte del 20° Congresso del Pcus, si schierò nettamente dalla parte di Kruciov. Non vogliamo populisticamente contrapporre la base del Pci (dotata di una maggiore autonomia di giudizio) al vertice del partito (pronto a far proprie le ricette idealistiche di Krusciov). Ma questo fu un dato di fatto che è anche possibile dimostrare storicamente.

Luigi Longo parlò dell’ "enorme importanza mondiale delle decisioni prese da quel congresso (il 20° del Pcus, ndr) sulle questioni ideologiche, politiche e organizzative e per la realizzazione delle quali la condanna del culto della personalità rappresenta una premessa necessaria e un elemento di propulsione"(Rinascita, Landi editore, pag. 829). Aldo Natoli si spinse ancora oltre: nell’intento di incensare i dissidenti, lodò "quei compagni che, pur non nascondendo delle riserve sul modo della denuncia di Krusciov, hanno saputo accettarla come un grande rivoluzionario (sottolineato nel testo, ndr) atto di coraggio, necessario, anzi indispensabile, per aprire nuovi sviluppi alla società sovietica e alle forze del socialismo in tutto il mondo" (Ibid. pag.849). Quindi non brancoliamo troppo nel buio se intendiamo cogliere i punti di non ritorno della nostra storia, con onestà e senza dogmatismi. Però non possiamo neanche essere salomonici ("contro l’apologia e contro la liquidazione"). I comunisti si schierano. Dalla parte giusta, se il cosiddetto istinto di classe, le condizioni storiche, una certa saggezza marxista ecc. lo consentono; dalla parte sbagliata se alla fine perdono la fiducia nella via rivoluzionaria e si acconciano alla situazione esistente sognando ad occhi aperti la via pacifica, la competizione pacifica, la via parlamentare e così via.

Aveva ragione Luigi Longo, il 20° congresso fu un fenomeno mondiale, e a quell’evento è indissolubilmente legata la vicenda del Pci. Certamente, in quel lungo cammino terminato alla Bolognina riveste una qualche importanza anche la questione richiamata dal compagno Cappelloni della "soggettività politica". Possiamo rimpiangere la figura di Togliatti, molti circoli di Rifondazione sono intestati a Berlinguer, di cui più che lo "strappo" e la famosa affermazione dell’ombrello Nato che ci avrebbe protetto (da chi?), se ne apprezza la innegabile statura morale ai tempi dei mariuoli del Caf. Del resto, tutto quello che sta accadendo oggi in Italia (dove c’è un fascista alla vice-presidenza del consiglio) ci induce a volgerci con nostalgia al passato. Ma prima degli uomini vengono i partiti, le loro ideologie, le loro linee politiche. Ed ogni partito comunista, nel bene e nel male produce i suoi uomini, grandi personalità della rivoluzione proletaria oppure mezze tacche, e, diciamolo francamente, il processo degenerativo politico e ideologico iniziato con quel famoso congresso sovietico, di cui fu protagonista una delle figure fra le più repellenti, non poteva non innalzare alla ribalta (pecchiamo forse di determinismo storico?) gli Occhetto e i D’Alema, che possiamo anche definire bonariamente ‘radical’ o ‘liberal’ o altre paroline simpatiche come queste.

Amedeo Curatoli

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