Le infamie del colonialismo italiano in Libia sono state quasi sempre rimosse in Italia. Anzi, ai responsabili si erigono monumenti. Ecco qualche testo per non dimenticare

L'INFAMIA DELLE DEPORTAZIONI

Da: "Gli italiani in Libia, dal fascismo a Gheddafi"
di Angelo Del Boca, Laterza, 1991, cap. IV

L'esproprio delle zavie

Proseguendo il riordino organizzativo della colonia e la lotta senza quartiere contro la Senussia, nella prima decade di maggio del 1930 Graziani adotta un altro provvedimento particolarmente severo: il raggruppamento coatto delle popolazioni indigene nelle vicinanze dei presidi italiani. Con questa misura presa contemporaneamente al razionamento dei viveri, il vicegovernatore della Cirenaica confida di disseccare la principale sorgente che alimenta la ribellione. Ha così inizio la prima, biblica migrazione dai territori dell'altipiano verso le zone più sicure della costa. Quasi 900 tende Abid vengono riunite nella piana di Barce; 1400 tende Dorsa intorno a Tolmeta; altre 3600 tende, che prima erano sparse sino a el Mechili, vengono raggruppate fra Cirene e Derna. Ma non si tratta di un provvedimento definitivo, poiché tanto De Bono che Badoglio hanno in mente una operazione più vasta e radicale, che porti allo sgombero totale del Gebel Achdar. Questa di maggio, dunque, è soltanto la prova generale della deportazione in massa che verrà fatta tra luglio ed agosto.

Si è appena conclusa questa operazione quando Graziani, con il consenso di Badoglio e di Roma, applica una nuova misura: I'esproprio integrale dei beni mobili ed immobili delle zavie senussite. Il provvedimento, già allo studio da un paio di anni, era sempre stato rinviato perché si temeva di turbare la coscienza religiosa delle popolazioni libiche e di commuovere l'opinione pubblica musulmana (1), poiché le zavie erano, prima che organi di propaganda politica e di collegamento tra le popolazioni e i ribelli, centri spirituali ed assistenziali. Le ultime perplessità vengono però a cadere nel maggio del 1930 quando lo scontro con la Senussia si fa totale. « Mai il governo italiano si è trovato in vera lotta armata di fronte alla Senussia come lo è attualmente; - scrive Badoglio a De Bono - mai la Senussia ha fatto appello come ora a tutti i suoi aderenti per averne aiuti materiali e morali al fine di constrastare il nostro dominio; mai è ricorsa a intimidazioni, a minacce, a violenze di ogni genere per sollevarci contro i nostri sudditi. A questa decisa azione di ostilità, è giusto e doveroso contrapporre da parte nostra un identico atteggiamento Le mezze misure non giovano a nulla. Quando si è in guerra, non è lecito avere degli scrupoli e conservare al nemico le proprietà da cui ricava i mezzi per continuare la lotta » (2).

Il 29 maggio reparti di carabinieri invadono simultaneamente le sedi di tutte le zavie (3), traggono in arresto 31 capi zavia e pongono i sigilli sulle proprietà della confraternita. I capi religiosi sono dapprima confinati in un campo nei pressi di Benina; poi, sembrando imprudente mantenerli in Cirenaica, il 28 settembre vengono imbarcati sul cacciatorpediniere Stocco ed awiati ad Ustica (4). Nel bando diramato agli indigeni il 2 giugno, Graziani spiega i motivi del grave provvedimento e soggiunge: « Da oggi siete tutti liberati dal pagamento della zacat, anzi chi lo farà ugualmente, sarà considerato reo di tradimento e punito perciò con la morte » (5). Per Omar alMukhtàr il colpo è durissimo. In pochi giorni egli si vede privato prima del sostegno delle popolazioni, poi del supporto delle zavie, che gli fornivano, con le decime, senti di ogni genere ed informazioni. Comunque non si abbatte e fa sapere che non concluderà alcuna pace che sia in contrasto con gli interessi della Senussia e che « combatterà sino alla morte » (6).

Il patrimonio confiscato è enorme. Si tratta di centinaia di case e di quasi 70 mila ettari della miglior terra della Cirenaica. Per fare qualche esempio, la sola zavia di Bengasi ha 8 immobili e 2 mila ettari di orti e giardini; quella di Tilimum ha 12 immobili ed una rendita di 15 mila lire annue nette; quella di Marada possiede 11 giardini e 517 palme sparse nell'oasi; quella di Tocra 19 immobili; quella di Mrassas 15 mila ettari (7). Secondo le stime fatte fare da Graziani il reddito annuo delle zavie, escluse quelle di Giarabub e di Cufra, supera le 200 mila lire, gran parte delle quali finivano nelle casse della ribellione. « Considero pertanto la chiusura delle zavie - scrive Graziani a Badoglio il 14 giugno - un provvedimento fondamentale per lo stroncamento della ribellione» (8)

Nel timore, però, che il provvedimento provochi l'indignazione e la collera delle popolazioni musulmane, Graziani chiede a Mohammed er-Ridà di stilare e di divulgare un documento a favore della chiusura delle zavie. Il Senusso, ormai incapace di opporsi alle sempre più frequenti pressioni degli italiani, accetta l'incarico e dirama un comunicato con il quale sconfessa l'operato dei suoi fratelli Mohammed Idris e Ahmed esh-Sherif, invita i ribelli a sottomettersi « al caro Graziani », che è « un padre compassionevole, clemente, misericordioso e giusto » e soggiunge: « Il sequestro dei beni della Senussia e la loro confisca oggi è un provvedimento giusto, poiché lo hanno causato i miei fratelli. Essi pertanto sono i responsabili di fronte ai capi della Confraternita per il male che hanno fatto » (9). A favore della misura si schiera anche il direttore del giornale bengasino « Berid Barca », Mohammed Mohesci. L'articolo di questo collaborazionista è quanto di più servile si possa immaginare. Egli definisce le zavie « consolati del nemico » e si meraviglia che siano state chiuse soltanto ora e non nel 1923 dopo la abrogazione degli accordi con la Senussia. « La chiusura di queste zavie - scrive inoltre - mentre sopprime un mezzo non indifferente di connivenza coi ribelli, ritorna a vantaggio della grande maggioranza dei sottomessi in quanto elimina una grave causa che dava luogo all'accusa di connivenza. [...] Non esageriamo dicendo che la parola confisca significa in questo caso liberazione di tali beni religiosi dalle mani degli usurpatori » (10).

Tolte alla ribellione le principali fonti di finanziamento, Graziani decide di sferrare una grande offensiva contro i ribelli, convinto di poter ripetere i successi ottenuti in Tripolitania e di poter mettere una buona volta le mani su Omar al-Mukhtàr. Meditando sul suo passato fortunato e sul fatto che ha piegato ad uno ad uno tutti i capi della guerriglia, Graziani scrive: « Siccome io sono stato seme pre un po' mistico [...], sono stato sempre convinto che questo sia avvenuto non per semplice caso umano, ma per una volontà ed una ispirazione superiore legittimante in me la certezza che i ' capi ribelli sarebbero tutti finiti per le mie mani ' » (11). Con queste convinzioni, il 16 giugno 1930 Graziani lancia quasi tutte le forze presenti in Cirenaica contro i duar di Omar che stanziano nella regione del Fayed, a sud di Cirene. Ma ancora una volta Omar riesce a sgusciare tra le truppe del colonnello Spatocco, che attaccano da nord, e quelle del colonnello Maletti, che incalzano da sud. Il rastrellamento dura fino alla fine di giugno, ma senza alcun risultato apprezzabile.

Il 20 giugno, mentre le operazioni nel Fayed sono ancora in corso, Badoglio invia a Graziani una lunga lettera con la quale critica duramente l'operato del vicegovernatore e gli impartisce nuove direttive intese ad imprimere una netta svolta alla lotta contro la Senussia. « Ho voluto lasciar compiere a V.E. questo primo ciclo operativo senza un mio diretto intervento, - scrive Badoglio - sia per non intralciare l'opera, sia anche per corrispondere al desiderio di V. E. che mi ha telegrafato di rimandare la mia venuta costì a ciclo operativo chiuso. Ma è mio stretto dovere ora intervenire, perché la responsabilità dell'azione viene direttamente a me, prima di giungere al ministero ».

Chiarito l'ordine delle responsabilità, Badoglio analizza l'azione condotta nel Fayed da Graziani e tutte le operazioni che l'hanno preceduta a partire dal 1923 per giungere a concludere « che le manovre chiamate a largo raggio sono sempre fallite e saranno sempre, finché durano le attuali condizioni, destinate al fallimento ». Due sono le cause essenziali del ricorrente insuccesso: «Il vigilantissimo servizio di protezione e di informazione dei ribelli » e la straordinaria abilità di Omar alMukhtàr, il quale non si lascia mai cogliere da « megalomania guerriera » e, « da freddo e sereno valutatore delle sue forze e delle conseguenti possibilità, rifiuta il combattimento e disperde le sue forze [...]. Se V.E. esamina la storia di tutte le operazioni, - continua Badoglio, calcando non poco la mano - vede che sovente abbiamo preso delle greggi, ma non abbiamo mai inferto colpi severi all'avversario, appunto per la persistenza delle condizioni suaccennate ».

Se dunque la controguerriglia tradizionale non dà alcun frutto, bisogna adottare, precisa Badoglio, altri metodi, anche se severissimi o addirittura catastrofici per i libici: « Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica ». Per realizzare il distacco territoriale tra ribelli e sottomessi, prosegue Badoglio, « urge far rifluire in uno spazio ristretto tutta la popolazione sottomessa, in modo da poterla adeguatamente sorvegliare ed in modo che vi sia uno spazio di assoluto rispetto tra essa e i ribelli. Fatto questo, allora si passa all'azione diretta contro i ribelli » (12).

Cinque giorni dopo aver scritto questa lettera, che provocherà la deportazione dal Gebel di 100 mila arabi, Badoglio si incontra con Graziani ed insieme concertano le modalità per effettuare l'operazione, che non ha forse precedenti nella storia dell'Africa moderna. Badoglio non è però il solo responsabile di questa infamia (13). Il ministro De Bono sollecitava questa misura estrema da tempo e non ci risulta che Mussolini abbia avuto qualche scrupolo nell'approvarla. Badoglio è soltanto il cervello che ha teorizzato i vantaggi della deportazione, l'uomo che ha messo in moto l'ingranaggio letale. E' certo, tuttavia, che egli imbocca la via della repressione più spietata dopo che il suo doppio gioco è stato smascherato da Omar al-Mukhtàr. C'è indubbiamente, nella sua scelta di un provvedimento che può condurre, come condurrà, allo sterminio di un popolo, un fatto personale, un rancore sordo, che spartirà con Graziani. Entrambi non saranno soddisfatti che quando vedranno il corpo del vecchio Omar oscillare appeso alla forca, nella piana di Soluch.

I lager della Sirtica

Il provvedimento di sgombero della Cirenaica non colpisce le popolazioni dell'intero territorio. Ne sono escluse quelle urbanizzate (circa 50 mila persone), quelle stabili intorno ai centri costieri (10-15 mila) e inoltre quelle delle oasi dell'interno (5-10 mila), le prime perché più fidate, le altre perché facilmente controllabili e comunque lontane dalle regioni dove più viva è la ribellione. Vengono invece deportate tutte le popolazioni nomadi e seminomadi, per un complesso di 90-100 mila persone, a seconda delle stime (14). Deciso il 25 giugno, dopo l'incontro a Bengasi tra Badoglio e Graziani, lo sgombero totale dell'altipiano comincia a compiersi due giorni dopo e il 7 luglio, come apprendiamo da un telegramma di Badoglio a De Bono, è in pieno svolgimento senza che Omar al-Mukhtàr vi si possa opporre. Scrive Badoglio: « Gli Auaghir sono tutti riuniti fra Giardina, Soluch e Ghemines. Ho loro parlato assai severamente ieri mattina. Domani sarà ultimato il concentramento dei Braasa, Darsa e Abid fra Tolmeta e Tocra. Martedì si inizierà lo spostamento degli Abeidat. Questo imponente movimento sarà ultimato verso il 20. [...] La raccolta dell'orzo sull'altipiano sarà terminata con la fine dei movimenti di concentramento, cosicché nessun indigeno dovrà più trovarsi sull'altipiano, e chiunque sarà incontrato sarà passato per le armi come ribelle » (15).

Nella stessa giornata del 7 luglio Badoglio emana il foglio d'ordine n. 151 riservato ai comandanti militari e ai funzionari civili della colonia. Con questo documento, che rivela un linguaggio nuovo, più scopertamente brutale, Badoglio informa i suoi collaboratori che la popolazione indigena ha accolto il grave provvedimento « senza alcuna reazione, anzi con supina obbedienza, come con uguale sentimento aveva subito il ritiro delle armi. Essa ha perfettamente compreso che la forza è nelle mani del Governo, non solo, ma che il Governo è deciso a qualsiasi estremo provvedimento pur di ottenere l'esecuzione perfetta degli ordini impartiti ». Dopo aver raccomandato di esercitare la massima vigilanza intorno ai campi di concentramento che si stanno costituendo, « giacché ogni minimo allentamento frustra tutta l'efficacia dei provvedimenti in corso e prolunga la ribellione», Badoglio precisa come si dovrà d'ora innanzi combattere l'ultima campagna contro i duar di Omar.

« Bisogna assolutamente bandire il sistema arabo della sparatoria da lontano », scrive Badoglio. L'avversario va agganciato, va aggredito all'arma bianca. E se riesce a sottrarsi all'accerchiamento, va subito organizzato l'inseguimento, che non deve conoscere limiti ed «essere feroce, inesorabile. Deve essere una vera caccia al ribelle nella quale sarà redditizio ogni atto della più sfrenata audacia » (16).

Tra giugno e luglio viene completata l'evacuazione del primo e del secondo gradino del Gebel, il che provoca il vuoto intorno ad Omar al-Mukhtàr, ormai costretto a rifornirsi soltanto in Egitto. Un testimone di questo esodo forzato, Federico Ravagli, lo descrive con versi assai modesti, che hanno il solo intento di perfezionare il mito di Graziani:

« D'oltre confine arrivan armi e messi
sul Gebel, dove la rivolta ha sede;
non son le zavie i templi de la fede,
non son fedeli e puri i sottomessi.

Genti, alla costa! », disse: e senza ambagi
un'immonda migrò biblica schiera,
sottratta a l'odio ai morbi ed ai contagi.

E perché un varco sol non fosse aperto,
gettò di ferro un'ispida barriera
da Solum a le soglie del deserto (17).

Completato il trasferimento delle popolazioni dal Gebel alla costa, Graziani si accorge che il distacco tra sottomessi e ribelli non è però completo. Non è cessato del tutto, infatti, né il pagamento delle decime, né le fughe dai campi degli uomini validi per riempire i vuoti dei duar. D'accordo con Badoglio, Graziani applica allora misure più radicali e, fra queste, il trasferimento dei campi di concentramento nel sudbengasino e nella Sirtica, regioni notoriamente fra le più inospitali. « Il paese di el Magrun - riferisce il giornalista Os. Felici - è sorto sulla terribile piana riarsa, senza una mica d'ombra, appunto per raccogliere i nomadi. Graziani ha pensato che, a cominciare dal luogo, essi debbono avere la sensazione precisa del castigo » (18).

Il materiale documentario sulla deportazione delle popolazioni cirenaiche è assai scarso e quel poco che è finito negli archivi di stato è generalmente reticente. Non c'era, in realtà, da gloriarsi dell'operazione e questo forse spiega la carenza dei documenti. Per cui non siamo in grado di descrivere il calvario di tutte le tribù. Disponiamo soltanto di un'ampia e dettagliata relazione sull'esodo degli Auaghir, grazie alla solerzia del commissario regionale di Bengasi, Egidi. In base a questo rapporto, apprendiamo che il 27 giugno reparti di carabinieri e di ascari eritrei fanno sgomberare i centri di Tocra, di Bersis e di Mebni e ne avviano le popolazioni verso il campo provvisorio di Driana, che dista una cinquantina di chilometri. Dopo una sosta di qualche giorno, il 4 luglio gli Auaghir riprendono la marcia scortati dagli ascari. Sono alcune migliaia, in grande maggioranza donne, bambini e vecchi. Al loro seguito 2 mila cammelli, che trasportano le loro povere masserizie. In coda alla carovana il bestiame della tribù, circa 6 mila capi, cioè quel poco che si è salvato dalle razzie e dalle controrazzie.

La carovana segue l'itinerario Driana - Sidi Mansur - Benina en-Nauaghia - Hosc el Ghetaan - Ghemines. Forse duecento chilometri, ma per vie impervie ed in regioni semidesertiche. Sin dai primi giorni di marcia, i più vecchi e i più deboli tendono a staccarsi dalla colonna. Ma gli ordini sono severissimi. Si legge nella relazione: « Non furono ammessi ritardi durante le tappe. Chi indugiava, veniva immediatamente passato per le armi. Un provvedimento così draconiano, fu preso per necessità di cose, restie come erano le popolazioni ad abbandonare le loro terre e i loro beni. Anche il bestiame che, per le condizioni fisiche, non era in grado di proseguire la marcia, veniva immediatamente abbattuto dai gregari a cavallo del nucleo irregolare di polizia che avevano il compito di proteggerlo e di custodirlo » (19).

l percorso fra Driana e Ghemines viene compiuto in dodici giorni. Di questa marcia della morte non sappiamo altro. Nessuno ha tenuto il computo dei ritardatari abbattuti con una fucilata. Né il commissario regionale di Bengasi, né i capi della tribù degli Auaghir. Comunque la dimensione è quella dell'eccidio, come vedremo più avanti quando cercheremo di fare un po' di conti. Ma il calvario non termina a Ghemines. La destinazione finale è Soluch. Altri cento chilometri di deserto, di pene, di cedimenti, di morte. E quando gli Auaghir giungono a destinazione, vengono ammassati in un grande campo circondato da una doppia barriera di filo spinato. Dal quale non usciranno per tre anni.

Non diversi debbono essere stati i trasferimenti delle altre popolazioni. Ma il primato della sofferenza spetta senza alcun dubbio agli Abeidat e ai Marmarici, che in pieno inverno sono costretti a compiere una marcia di 1100 chilometri dalla Marmarica alla Sirtica. Gli Abeidat e i Marmarici erano stati concentrati nel campo di Ain el Gazala, nelle vicinanze di Tobruk. Ma non si erano rassegnati, come gli altri, al loro destino ed avevano deciso di defezionare in massa d'accordo con Omar al-Mukhtàr che agiva nei dintorni. Il complotto era stato però scoperto nel dicembre del 1930 e sventato. Per punizione Graziani ordina il trasferimento dei 6500 Abeidat e Marmarici nella Sirtica e sceglie, per la marcia che dura alcuni mesi, la stagione più inclemente. «Questo energico provvedimento all'estero fece versare torrenti d'inchiostro e fu condannato come barbaro - scrive Imerio da Castellanza -. Del resto, riflettendo che le genti della Marmarica sono nomadi, una marcia un po' più lunga non era poi un castigo sproporzionato allo scopo che Graziani voleva ottenere, cioè la pacificazione della colonia» (20).

Vediamo ora dove sono dislocati i campi di concentramento. Secondo una relazione di Graziani del 2 maggio 1931, cioè a trasferimento ultimato, risulta che i lager più importanti sono concentrati nel sudbengasino e nella Sirtica. L'accampamento più grande è quello di Marsa Brega, che raccoglie 21.117 fra Abeidat e Marmarici. Seguono Soluch, con 20.123 Auaghir, Abid, Orfa, Fuacher e Mogàrba; Sidi Ahmed el Magrun, con 13.050 tra Braasa e Dorsa; el Agheila, con 10.900 fra Mogàrba, Marmarici e parenti dei ribelli in armi; Agedabia, con 10 mila persone, di cui non si specifica la tribù; el Abiar, con 3123 Auaghir. Complessivamente, dunque, questi sei lager raccolgono 78.313 cirenaici (2l). Ai quali vanno aggiunti i confinati nei campi minori di Derna (145 tende), di Apollonia (1354), di Barce (538), di Driana (225), di Sidi Chalifa (130), di Suani el Terria (100), di enNufilia (375) e i due di Bengasi, Coefia e Guarscia (245). Calcolando quattro persone per tenda, si hanno altri 12.448 confinati, che portano il totale generale a 90.761 (22). Ma non è finita. Bisogna tenere conto delle persone abbattute durante le marce di trasferimento e dei morti nei lager, per denutrizione, malattie e tentativi di fuga, nei primi mesi di prigionia. La cifra totale dei deportati sale così a non meno di 100 mila.

Questa cifra rappresenta esattamente la metà degli abitanti della Cirenaica, se teniamo per buono il censimento turco del 1911, che dava una popolazione di 198.300 anime (23). Se si considera che altri 20 mila cirenaici hanno lasciato il paese per rifugiarsi in Egitto, si deve calcolare che soltanto poche decine di migliaia di persone non hanno conosciuto i rigori della deportazione e della detenzione. Rigori che provocano un numero altissimo di decessi. Dalla già citata relazione del commissario regionale di Bengasi, Egidi, apprendiamo infatti che i reclusi del campo di Soluch scendono, in poco più di un anno, da 20.123 a 15.830, e quelli di Sidi Ahmed el Magrun da 13.050 a 10.197 (24). Quando le autorità italiane compiono il 21 aprile 1931 il primo vero censimento, condotto con tecniche moderne, scoprono che gli indigeni sono soltanto 142 mila. In venti anni, in altre parole, la popolazione ddla Cirenaica è diminuita di circa 60 mila unità: 20 mila per l'esodo verso l'Egitto, 40 mila per i rigori della guerra, della deportazione e della prigionia nei lager. In nessun'altra colonia italiana la repressione ha assunto, come in Cirenaica, i caratteri e le dimensioni di un autentico genocidio (25).

Entriamo ora in uno dei lager, quello di Sidi Ahmed el Magrun, ed ascoltiamo ciò che ci riferisce un giornalista fascista, Os. Felici, certo non sospetto di simpatia per i reclusi. «Il campo ha la forma di castrum romano - scrive -. Ogni lato misura milleduecento metri. Dentro, vi sono otto quadrati, disposti in maniera che, davanti ad ogni gruppo di due di essi, vi è altrettanto spazio libero da poter ospitare gli animali. Ogni quadrato conta da quindici a venti file. Tutto è numerato e specificato. Si sa così quali genti ospitino i quadrati, divisi l'uno dall'altro da ampie strade, e le file. Vi è il capo del campo, vi sono i capi quadrato, vi sono i capi fila. Tutti, si badi bene, indigeni » (26).

I tredicimila reclusi di Sidi Ahmed el Magrun vivono in tende, come, del resto, gli abitanti di tutti gli altri campi. «Che cosa siano le tende non è possibile dire - scrive Os. Felici -. Le vele marinaresche più provate e rabberciate non avrebbero nulla da invidiare. Le pezze di Arlecchino sono infinitamente minori delle pezze che la donna beduina s'industria ad applicare a queste case del deserto»(27). Descritte le abitazioni, Felici si chiede: «Come mangia tutta questa gente? Parte di essa è tesserata. E la tessera dà diritto a ritirare ogni dieci giorni tanto orzo in ragione di mezzo chilo a testa»(28). Con razioni così scarse non si vive. E poiché il governo della Cirenaica non intende sobbarcarsi il mantenimento dei reclusi, gli uomini validi vengono impiegati nella costruzione di strade e le donne nella coltivazione di alcuni orti sorti nelle vicinanze dei lager. Altri confinati badano al bestiame e si muovono scortati da reparti di ascari o di carabinieri.

Anche negli altri campi le condizioni economiche delle popolazioni sono poverissime ed ogni giorno si combatte per la sopravvivenza. Di questo diffuso malessere c'è traccia anche nelle relazioni governative, anche se esse, come è ovvio, tendono a celare le vere dimensioni del dramma. Scrive, ad esempio, il commissario regionale di Bengasi: «Le condizioni economiche della popolazione di Soluch non sono troppo floride: il predonaggio con le sue razzie ridusse sensibilmente l'ingente numero di bestiame che, specie gli Abid e gli Orfa, avevano. L'allontanamento dalle loro terre, tanto opportuno e necessario per la sicurezza del territorio, ha contribuito, sia pure in misura tenue, a peggiorare le condizioni»(29). Ben più crudeli ed amare sono le testimonianze dei sopravvissuti. «Ci davano poco da mangiare - riferisce Reth Belgassem -. Dovevamo cercare di sopravvivere con un pugno di riso o di farina e spesso si era troppo stanchi per lavorare»(30). «Ricordo la miseria e le botte - racconta a sua volta Mohammed Bechir Seium -. Ogni giorno qualcuno si prendeva la sua razione di botte. E per mangiare ricordo solo un pezzo di pane duro del peso di centocinquanta o al massimo duecento grammi, che doveva bastare per tutto il giorno»(31).

Pessime anche le condizioni sanitarie dei lager. A Soluch, per ventimila internati, c'è soltanto un medico, il quale, per giunta, deve anche badare ai tredicimila reclusi del campo di Sidi Ahmed el Magrun. A Marsa Brega, dove sono confinati ventunomila cirenaici, «il servizio sanitario — confessa lo stesso Graziani — è attualmente disimpegnato da un sezione fissa di sanità, che lavora sotto il controllo del medico di Agheilat, che si reca a Marsa Brega un paio di volte per settimana»(32). Una vaccinazione antivaiolosa di massa riesce a bloccare questo flagello, ma non altre epidemie. Nel marzo del 1933 il commissario regionale di Bengasi, Egidi, avverte Graziani che a Soluch si sta diffondendo il tifo: «A me e al signor direttore di sanità sembra che il periodo di attesa caldeggiato da codesta direzione sia superato: il tifo petecchiale esiste e si estende. Prego codesta onorevole direzione di volermi fornire le istruzioni ed i mezzi necessari per fronteggiare l'epidemia»(33).

Non bastassero la fame e le epidemie, nei campi i guardiani esercitano ogni sorta di violenze. Racconta Reth Belgassem, recluso ad el Agheila: «Le nostre donne dovevano tenere un recipiente nella tenda per fare i loro bisogni. Avevano paura di uscire. Fuori rischiavano di essere prese dagli etiopi (34) o dagli italiani. Non lasciavamo mai sole le nostre donne. Le tenevamo chiuse tutto il tempo anche se l'odio dei guardiani era quasi tutto rivolto agli uomini» (35). Un tentativo di fuga, un atto di ribellione, il rientro tardivo nei campi sono quasi sempre puniti con la morte. «Le esecuzioni avvenivano sempre verso mezzogiorno in uno spiazzo al centro del campo e gli italiani portavano tutta la gente a guardare - riferisce Reth Belgassem -. Ci costringevano a guardare mentre morivano i nostri fratelli»(36). «Ogni giorno uscivano da el Agheila cinquanta cadaveri - racconta Salem Omran Abu Shabur -. Venivano sepolti in fosse comuni. Cinquanta cadaveri al giorno, tutti i giorni. Li contavamo sempre. Gente che veniva uccisa. Gente impiccata o fucilata. O persone che morivano di fame o di malattia»(37).

Di questa tragica realtà poco trapela in Italia, dove, del resto, si hanno scarse notizie anche sulla guerra libica, che si trascina, dimenticata, da vent'anni. E quel poco che trapela passa attraverso il filtro severo della censura o viene deformato dagli organi della propaganda. Così, per «L'Oltremare», il campo di Soluch è una specie di paradiso dove fioriscono l'ordine e una disciplina perfetti» e dove «regna ovunque l'igiene e la pulizia»(38). Anche per Giuseppe Bedendo, il cantore delle gesta di Graziani, i lager sono istituzioni benefiche, per le quali il vicegovernatore non ha proprio nulla da vergognarsi, al contrario:

Jè dette da magna, tutto jè dette,
medichi, medicine, garze, benne,
jè dette stoffe pè fasse le tenne
e jè spedì financo le ricette.

Era concentramento, era galera?
Quello ch'à fatto, no, nun era abbuso! (39).

E pazienza che questi giudizi vengano espressi durante il fascismo. Ma anche dopo il crollo della dittatura c'è chi, come il generale Canevari, scrive: «Noi non abbiamo mai creato 'campi di concentramento ' in Cirenaica, ma solo delle ' riserve ' in campi splendidamente sistemati e forniti di tutto il necessario, dalle tende di lana di cammello nuove agli impianti igienici, ai servizi idrici, ecc. In tal modo il governo italiano sottraeva i ' sottomessi ' al tremendo dilemma: o rifornire i ribelli o cadere sotto le loro vendette, e perciò li salvava anche dalle conseguenze dei loro atti. [...] Dopo la permanenza negli accampamenti preparati da Graziani, le popolazioni della Cirenaica tornarono alle loro terre di coltivazione e di pascolo rinnovate dalla scienza e dalla scuola»(40).

Le scuole e i collegi per i bambini abbandonati sono appunto indicati dalla storiografia fascista come un innegabile titolo di merito. Nel collegio di Soluch, ad esempio, sono stati raccolti 375 ragazzi e 125 ragazze. Secondo il commissario Egidi, essi fruiscono di un «vitto speciale », costituito da tè e pane al mattino; una minestra a mezzogiorno e un pezzo di pane alla sera; due volte alla settimana un pezzo di carne (41). E' pochissimo, ma è sempre di più di quello che ottengono gli adulti nei campi. Inoltre i maschi ricevono lezioni pratiche di agricoltura, mentre le ragazze seguono corsi di taglio e cucito. «Come marciano e sfilano! — osserva Os. Felici in visita al collegio — E come i loro esercizi sono perfetti! Perfetti tanto, da parere quasi meccanici. Nel saluto, nell'andatura, essi hanno un non so che di lievemente caricaturale, come se, più dello spirito, fossero persuasi della forma di ciò che imparano. Ma quale materia di soldati non è in questi ragazzi?»(42). Ce n'è molta, infatti. Graziani è il primo ad accorgersene. E subito moltiplica questi collegi sino a costituirne una dozzina, con 2800 elementi. E saranno i migliori serbatoi di volontari per i battaglioni libici in via di ricostituzione.

Orfani di ribelli, segregati in collegicaserme agli ordini di severissimi sottufficiali dell'esercito italiano, in pochi anni essi perdono ogni legame affettivo e culturale con il Gebel che li ha generati. Come pazze marionette, essi si esibiscono in perfetti esercizi ginnici davanti alle autorità e cantano, tra gli altri inni del regime, due preghiere, I'una dedicata al re, l'altra al duce. La prima dice: «Il nostro Re si chiama Vittorio Emanuele. E' chiamato anche il Re Vittorioso, perché egli è il capo dell'Esercito che ha vinto i nemici d'Italia. Egli è molto sapiente, coraggioso, buono. Durante la grande guerra egli fu alla fronte con i suoi soldati e non ebbe mai paura. Egli vuole bene al suo popolo, lo aiuta nei suoi bisogni e lo consola nelle sue sventure. Emanuele vuol dire 'mandato da Dio' e il nostro Re venne proprio mandato da Dio per far grande l'Italia ». Quella dedicata al duce, dice: «S. E. Mussolini è il grande Capo, il nostro Duce. Duce è chi guida, chi va avanti per insegnare la strada buona. [...] Ha dato a noi la coscienza del nostro destino, l'orgoglio di essere figli d'Italia. Signore, noi ti preghiamo, proteggilo tu!»(43).

Ancora ieri seguivano trotterellando il cavallo del padre ribelle tra le forre e le foreste del Gebel. Oggi, di colpo, sono diventati figli d'Italia. E sembrano orgogliosi di esserlo. Di pregare devotamente per il Re e il Duce. Di essere uguali, o quasi, agli altri ragazzi della penisola, che cantano le stesse canzoni, che pregano per gli stessi semidei. Hanno tra i 9 e i 15 anni. Quasi nessuno è stato alla scuola coranica. Sono lavagne pulite sulle quali si può scrivere di tutto. Di lì a quattro anni, sufficientemente indottrinati, i più grandicelli sceglieranno con gioia la carriera militare e finiranno in Etiopia, con la divisione Libia. Saranno delle perfette macchine da combattimento. Dei perfetti galli assassini. Da Gianagobò a Dagahbur non faranno un solo prigioniero (44). Mentre i ragazzi imparano ad uccidere, gli adulti, nei campi, ricevono, con il sussidio di minacce e di botte, un solo insegnamento: quello di sollevare il braccio nel saluto romano. E lo fanno di continuo, come tanti automi. Os. Felici ne è tanto meravigliato e sconvolto, che scrive: «Saluti, saluti. E' tutto un sollevamento di braccia nell'atto del saluto romano. Non ho mai veduto tanti, tanti saluti. Chi siede, si alza e saluta. Ora che scrivo, ho dinanzi agli occhi come una selva di braccia levate, tutte protese nel saluto romano»(45).

Dopo aver costruito questo universo concentrazionario, che Marie Edith De Bonneuil definisce «visione da incubo» (46), nonostante la sua sconfinata ammirazione per il fascismo, Graziani si accorge che, malgrado le misure radicali che ha adottato, Omar al-Mukhtàr continua a ricevere le decime, seppure in misura minore. La sua attenzione si appunta perciò sui notabili della Cirenaica sospetti di conservare legami con la Senussia e il 6 novembre 1930 ordina l'arresto di 120 capi e il loro internamento nel campo di Benina. Nel comunicare a Badoglio la sua decisione, Graziani dice: «Le popolazioni potranno così essere realmente governate senza capi e con la diretta influenza dei commissari, a fianco dei quali saranno messi dei mudir, che cercherò di trovare tra i vecchi sciumbasci dei battaglioni libici e zaptiè»(47).

Qualche mese dopo, nel maggio del 1931, a repressione quasi ultimata, Graziani rivela tutta la sua soddisfazione in un documento riservato al ministro De Bono. «I campi sono ormai sulla via della definitiva sistemazione, — scrive — e mentre assicurano l'eliminazione della connivenza dei sottomessi con i ribelli, preparano per il prossimo domani una popolazione più docile ed abituata al lavoro, che sicuramente si attaccherà per ragioni di interesse ai nuovi territori nei quali è stata trasferita, perdendo l'abitudine al nomadismo e acquistando i gusti e le esigenze delle popolazioni sedentarie, sulle quali necessariamente deve fondarsi e svilupparsi il programma di pacificazione e valorizzazione della Cirenaica»(48). La reclusione nei campi durerà mediamente tre anni. Gli ultimi lager saranno sciolti nel settembre del 1933. Dei centomila che erano partiti dal Gebel, ne torneranno a casa sessantamila. Forse di meno.

Si va a Cufra

La creazione dei campi di concentramento e la loro dislocazione lontano dal Gebel, due fatti che provocano la cessazione del finanziamento locale della ribellione, pongono Omar al-Mukhtàr in una situazione di estrema difficoltà. A partire dal luglio del 1930 sempre più frequenti sono infatti i suoi appelli a Mohammed Idris ed ai fuorusciti libici che vivono in Egitto. Ma il loro aiuto è scarso e comunque insufficiente a mantenere in armi i duar di Omar, anche se i loro effettivi sono stati drasticamente ridotti. Il colonnello Nasi li valuta, in questo periodo, tra i 500 e i 600, e soggiunge: «Il profano, o comunque l'osservatore superficiale, non può non chiedersi come mai 13 mila uomini non riescano, in quattro e quattr'otto, a farne fuori 500. A questa semplicistica domanda conviene rispondere altrettanto semplicemente: appunto perché sono solo 500 ribelli, dispersi, però, in un territorio grande due volte l'Italia. [ ... ] Il nemico principale non è qui il ribelle, è l'immensità del territorio, la mancanza di strade. In taluni scacchieri la sete: ecco il solo, grande nemico»(49).

Colpita alla radice, l'organizzazione ribelle deve modificare la propria struttura e la propria tattica. Omar è infatti costretto a frazionare i duar, a spostarli di continuo, a tenere le sue forze in potenza senza mai impegnarle seriamente. Come giustamente fa osservare Nasi, da tempo Omar ha abbandonato la speranza di poter ricacciare gli italiani alla costa e non intende altro che «dimostrare al mondo che è capace di mantenere in Cirenaica uno stato di brigantaggio per il quale la vita normale non è possibile e confida che noi si debba, ancora una volta, scendere a patti» (50). A rendergli la vita difficile da luglio Graziani gli mette alle calcagna Giuseppe Malta, uno dei giovani colonnelli che più si sono distinti nella controguerriglia in Tripolitania. Affiancato dai tenenti colonnelli Piatti e Marone, dai maggiori Lorenzini e Ragazzi e dall'ex capitano turco Akif Msek, Malta non dà tregua ai ribelli per tutta l'estate e l'autunno del 1930, battendoli l'8 ottobre all'uadi es-Sània, qualche giorno dopo a Bir Zeitun e il 2 novembre a Caf el Telem (51).

Le perdite dei ribelli in questi scontri, un centinaio, non sono altissime, ma oramai non ci sono più a portata di mano i sottomessi a fornire i rimpiazzi. Per rincuorare i suoi uomini, Omar fa circolare la notizia che i Sef en-Nasser sono in arrivo da Cufra con 500 uomini. Ma a questa storia non crede nessuno. Omar è irrimediabilmente solo, con la sua fede, la sua ostinazione, i suoi duar che ogni giorno che passa si vanno assottigliando. Badoglio aveva previsto questa lenta agonia e il 9 settembre 1930 invia a Graziani questo caloroso plauso: «Dal rapporto settimanale vedo che la caccia ai beduini continua con risultati notevoli e che i rifornimenti dal confine si fanno sempre più difficili (52). La linea, dunque, è quella buona. Occorre che tutti si convincano che la nostra divisa è attualmente: ' non mollare '. Sarà questione di tempo, ma questa volta la ribellione si esaurirà. Bravo Graziani, continui!» (53).

Mentre Graziani non dà tregua ad Omar al-Mukhtàr, Abd el Gelil Sef en-Nasser e Saleh el Atèusc, che si sono rifugiati nell'oasi di Taizerbo, cercano di dare una mano ad Omar compiendo frequenti scorrerie nel sudcirenaico tra la Sirtica e le oasi di Gialo. L'11 giugno, ad esempio, una quarantina di Mogàrba e di Zueia, comandati dal figlio di Saleh el Atèusc, si impadronisce a Sneiah Hamed di 200 cammelli. Il 3 luglio, a Udeiat el Hod, una ventina di Mogàrba al comando di Abd Rabba el Goder compie una nuova razzia. Ma sono missioni suicide, perché sulle oasi di Gialo veglia il colonnello Maletti, che si è creato una fama per i suoi inseguimenti celeri ed implacabili. Comunque Graziani non sopporta neppure questi colpi di spillo e medita subito un'adeguata rappresaglia.

Come obiettivo sceglie Taizerbo, una grande oasi a 250 chilometri a nordovest di Cufra, dove è convinto si siano concentrati tutti i ribelli fuggiti dalla Tripolitania. I1 31 luglio quattro apparecchi Romeo, al comando del tenente colonnello Roberto Lordi, partono da Gialo e puntano sulla lontana Taizerbo. Giunti sull'oasi, che comprende una decina di nuclei abitati, gli aerei lasciano cadere il loro carico, costituito da 24 bombe da 21 chili ad iprite, da 12 bombe da 12 chili con esplosivo e da 320 bombe da 2 chili. La stampa italiana dà molto rilievo al micidiale bombardamento (54), ma tace, ancora una volta, sull'impiego dei gas, che hanno causato nell'oasi morti ed un indescrivibile panico.

Sugli effetti del bombardamento abbiamo la testimonianza di un libico raccolta il 13 novembre 1930 dal comandante della tenenza dei carabinieri di el Agheila, Vincenzo Cassone, ed inviata a Roma dal tenente colonnello Lordi. Essa dice: «Come da incarico avuto dal signor comandante l'aviazione della Cirenaica, ieri ho interrogato il ribelle Mohammed bu Ali, Zueia di Cufra, circa gli effetti prodotti dal bombardamento effettuato a Taizerbo. Il predetto, proveniente da Cufra, arrivò a Taizerbo parecchi giorni dopo il bombardamento e seppe che quali conseguenze immediate vi furono quattro morti. Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. Egli ne vide diversi che presentavano il loro corpo ricoperto di piaghe come provocate da forti bruciature. Riesce a specificare che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoruscita di liquido incolore. Rimaneva cosi la carne viva priva di pelle, piagata»(55).

In seguito al bombardamento, Abd el Gelli Sef en-Nasser e Saleh el Atèusc, con i loro uomini, si ritirano su Cufra, decisi a giocare nell'oasi la loro ultima carta prima di sconfinare in Egitto. Ma anche per Cufra i giorni sono contati. Già il 16 maggio Badoglio aveva scritto a De Bono: «Cufra sta diventando il centro di raccolta di tutto il fuoruscitismo libico. Essa inoltre resta ancora a segnare il dominio temporale della Senussia in casa nostra. Più si ritarda l'occupazione e più la situazione diventerà grave. Io rivolgo viva preghiera a V. E. affinché voglia insistere presso il Capo del Governo per avere lo stanziamento occorrente. Occorrono sei milioni. Quando si pensi a quello che è costata l'occupazione di Giarabub, si deve concludere che la mia richiesta è molto parsimoniosa» (56).

In attesa del finanziamento, Graziani fa bombardare anche Cufra. Il 26 agosto quattro Romeo si portano infatti sul grande arcipelago di oasi e, come riferisce Graziani, «due apparecchi bombardarono el Giof, altri due et-Tat, producendo visibilissimo effetto. Molte case crollarono. Fu lanciata oltre mezza tonnellata di esplosivo. Successive informazioni dettero che le perdite subite dalla popolazione non furono gravi, ma il panico invase tutti, compresi i capi, i quali capirono come il cerchio si incominciasse a stringere intorno a loro» (57). Un paio di settimane dopo, il 9 settembre, De Bono torna alla carica con Mussolini per ottenere i sei milioni necessari all'impresa e così giustifica la richiesta: «Cufra ha assunto, in questo momento, una particolare importanza quale vero e proprio centro dei traffici che mantengono in vita la ribellione in Cirenaica. A Cufra, poi, risiedono, e naturalmente operano, esponenti importanti non soltanto del senussismo cirenaico, ma anche dell'ormai stroncata ribellione tripolitana. [...] Chiedo pertanto a V. E. il consenso per eseguire questa operazione militare, che non presenta rischi e difficoltà, se non dal punto di vista logistico, ma che ha importanza notevolissima per la soluzione dell'annosa questione cirenaica» (58).

Qualche giorno dopo Mussolini accorda il suo consenso e subito ha inizio la preparazione dell'impresa, che dura cento giorni e viene affidata al generale Ronchetti, al quale tocca risolvere un problema logistico mai prima di allora affrontato nel deserto. Per rifornire le tre colonne che convergeranno su Cufra egli deve provvedere al trasporto, con autocarri e cammelli, di ben 20 mila quintali tra viveri, carburanti, lubrificanti, munizioni e materiali vari. La prima operazione che Ronchetti deve compiere, intanto, è quella di riconoscere il terreno. Egli fa perciò compiere alcune ricognizioni dell'itinerario Gialo - Bir Zighen e del percorso Uau el Chebir - Uau en-Hamus - Taizerbo. In base ai dati raccolti, si accerta che la colonna principale, che partirà da Agedabia, avrà davanti a sé un terreno facile, camionabile, per 640 chilometri, fino ai pozzi di Bir Zighen. Gli ultimi 180 chilometri, invece, presentano maggiori difficoltà perché al piatto serir si sostituisce una barriera di dune mobili. Anche le altre due colonne, che partono rispettivamente da Zella e da Uau el Chebir, dovranno compiere un percorso difficile, ma comunque praticabile. A preparazione ultimata, il corpo di spedizione risulta composto da 654 nazionali (ufficiali, sottufficiali e truppa) e da 3321 ascari, con 378 automezzi, una sezione di autoblindate, 7 mila cammelli, 3 cannoni, 70 mitragliatrici e 25 aerei da ricognizione e da bombardamento. Una forza almeno dieci volte superiore a quella dell'avversario.

A Cufra, intanto, si attende con comprensibile inquietudine l'imminente attacco italiano. La preoccupazione è tanto più viva in quanto nella città santa del senussismo non c'è la concordia. Scems ed-Din, che fa parte della famiglia senussita essendo figlio di Ali el Chattabi, è contrario alla resistenza e vorrebbe andarsene in Egitto con tutta la popolazione delle oasi. Contrari a questa decisione sono invece il capo locale degli Zueia, Abd el Hamid bu Matari, i capi dei Mogàrba Saleh el Atèusc e Rhmed bu Sceaeb e il capo degli Ulad SuIeiman Abd el Gelil Sef en-Nasser. Insieme essi possono disporre di una mehalla forte di 600 uomini, con una buona dotazione di armi moderne ed un abbondante munizionamento. Essi sono perciò decisi di dare combattimento agli italiani alle porte di Cufra, contando sul loro affaticamento dopo il difficile percorso fra le dune mobili. A rinfrancarli nella loro determinazione, in dicembre giunge a Cufra un messo latore di una lettera di Ahmed esh-Sherìf con la quale egli investe dei pieni poteri Saleh el Atèusc e Abd el Gelil Sef en-Nasser. Questo intervento dell'ex Gran Senusso tronca il di verbio. Scems ed-Din, con alcuni ikhuàn, prende la strada dell'Egitto. Gli altri capi si preparano a resistere sbarrando le strade di accesso a Cufra (59).

Il 20 dicembre 1930 la colonna principale del corpo di spedizione, che comprende i reparti del tenente colonnello Maletti e dei maggiori Lorenzini e Rolle, lascia Agedabia per Gialo, dove giunge, a scaglioni, tra il 22 e il 27. Una furiosa tempesta di sabbia, che danneggia autocarri e autoblinde, provoca un ritardo di tre giorni, cosicché la colonna non sarà pronta a ripartire, dopo la revisione delle macchine, che il 31 dicembre. II 9 gennaio è ai pozzi di Bir Zighen, mentre le colonne secondarie, partite da Zella e da Uau el Chebir, raggiungono Taizerbo I'11 gennaio. Commentando questo secondo sbalzo, Graziani può con orgoglio sostenere che il corpo di spedizione «in 10 giorni attraversò, con marcia ammirevole per regolarità e disciplina, i 400 km di desolato serir che separano Gialo da Bir Zighen senza lasciare indietro, nel lungo e non facile percorso, né un uomo, né una macchina. La perdita si ridusse ad un centinaio di cammelli» (60).

Il 12 gennaio 1931 Graziani si trasferisce in volo da Bengasi a Bir Zighen per assumere l'effettiva direzione delle operazioni nella fase conclusiva dell'impresa. Due giorni dopo viene ripresa l'avanzata verso sud. La colonna Maletti, partita da Bir Zighen, e la colonna Campini, che si è mossa da Taizerbo, marciano su itinerari mano a mano convergenti e vengono mantenute in contatto dagli aerei. AlI'alba del 19 gennaio, mentre sono in vista delle prime oasi di Cufra, il loro distacco è quasi annullato. Qualche ora dopo, verso le 10, uno degli aerei in servizio di collegamento avvista la mehalla ribelle, che si è attestata sul margine settentrionale dell'oasi di el Hauuari, arroccandosi su alcune colline.

II combattimento si accende subito furioso. Maletti cerca di prendere la mehalla tra due fuochi. I ribelli, dal canto loro, applicando la loro tattica tradizionale, si aprono a ventaglio e cercano di avvolgere le ali dello schieramento avversario. Ma troppo grande è la sproporzione tra le forze in campo. Dopo due ore di aspri combattimenti i ribelli sono costretti a cedere e si ritirano prima nell'oasi di el Hauuari, dove tentano ancora una breve resistenza, poi verso le oasi maggiori di et-Tag e di el Giof. Ma oramai la loro è una fuga disordinata che, come vedremo, non si arresterà che in Egitto o nel Tibesti. Sul terreno hanno lasciato un centinaio di morti, tra i quali il capo degli Zueia, Abd el Hamid bu Matari. Da parte italiana, due ufficiali e due ascari morti e 16 feriti (61).

Subito dopo ha inizio l'inseguimento dei ribelli, sia da parte di reparti cammellati che dell'aviazione. In questo implacabile inseguimento, condotto per giorni e giorni e in tutte le direzioni, poiché i ribelli e le loro famiglie si sono frazionati, si completa la strage dei difensori di Cufra. Graziani parla di altri 100 uccisi, di 14 passati per le armi e di 250 prigionieri, compresi le donne e i bambini. Ma il bilancio complessivo è molto più alto. Micidiale, come sempre, l'aviazione, che parte alla caccia con 25 apparecchi. Scrive uno dei piloti, Vincenzo Biani: «Partiti all'alba da Bir Zighen, gli apparecchi riconoscono sul terreno le piste dei ribelli in fuga e le seguono, finché giungono sopra gli uomini; le bombe hanno scarso effetto dato che il bersaglio è estremamente diluito, ma le mitragliatrici fanno sempre buona caccia; mirano ad un uomo e lo fermano per sempre, puntano un gruppo di cammelli e li abbattono. [...] II gioco continua per tutta la giornata; il giorno dopo si ripete; il terzo giorno anche; tutte le possibili vie di ritirata sono esplorate e battute fino alla distanza di trecento chilometri, fino a quando cioè si può avvistare l'ultimo fuggiasco. Le carovaniere della sperata salvezza diventano un cimitero di morti abbandonati, che nessuno penserà mai a sotterrare» (62).

Mentre Graziani e Badoglio (giunto in volo da Tripoli) festeggiano a Cufra il loro successo (63), gli scampati al combattimento di el Hauuari e al successivo inseguimento si dirigono in gran parte verso il confine egiziano, gli altri verso il Tibesti e il Borcu. Saleh el Atèusc, con i suoi uomini e le loro famiglie, raggiunge el Auenat, l'ultima oasi con buona acqua in territorio libico, e più tardi i pozzi di el Merga. Da questo momento, mal consigliato da una guida infida, Saleh el Atèusc, con la sua gente, sbaglia cammino e comincia ad errare nel deserto alla disperata ricerca di acqua e di cibo. Vaga per 70 giorni cercando invano l'accampamento di nomadi che gli era stato segnalato. «Nel frattempo — racconta — macellavamo i pochi cammelli rimastici per estrarre dalla loro vescica quel poco di liquido che vi si trovava, liquido che distribuivamo ai più assetati per salvarli da una morte sicura. Ben 170 persone hanno trovato la morte per la sete ed i superstiti sarebbero certamente morti se la provvidenza non ci avesse assistiti nell'avviarci in una località dove trovammo un sacco di farina, uno di zucchero e the» (64).

Avvistati finalmente da una pattuglia di soldati inglesi, i ribelli vengono disarmati e avviati al posto di frontiera di Bu Mungar. In seguito vengono trasferiti in autocarro, su loro richiesta, nella valle del Mio, a el Minya, dove si accampano nella proprietà di Ali bey el Masti, grande protettore dei libici fuorusciti. «Dal nostro arrivo in questa località, — riferisce ancora Saleh el Atèusc — altre 17 persone hanno trovato la morte per forti diarree provocate indubbiamente dall'abbondanza del vitto consumato dopo un così lungo periodo di completa privazione» (65). Meno tragica, invece, la peregrinazione di Abd el Gelil Sef en-Nasser e della sua gente. Anch'essi toccano i pozzi di el Auenat e di el Merga e poi si perdono nel deserto al confine tra l'Egitto e il Sudan. Ma il loro incubo dura poco, perché vengono subito rintracciati dalle pattuglie anglo-egiziane ed avviati anch'essi a el Minya (66).

La notizia che la città santa di Cufra è caduta nelle mani di Graziani e che i suoi difensori sono stati in gran parte massacrati riempie di dolore e di sdegno le popolazioni del mondo islamico. Il 9 febbraio 1931 il grande quotidiano del Cairo «AlAhràm» pubblica un articolo dal titolo I martiri della fede, nel quale si afferma, tra l'altro: «Il bilancio italiano sarà forse arricchito dal denaro che produrranno i beni confiscati ai senussiti, ma l'onore conta più del denaro ed è più caro dei propri figli» (67). «La Nation Arabe», dal canto suo, scrive: «Noi chiediamo ai signori italiani [...], i quali ora si gloriano di aver catturato cento donne e bambini appartenenti alle poche centinaia di abitanti male armati di Cufra che hanno resistito alla colonna occupante: ' Che cosa c'entra tutto ciò con la civiltà? ' Nei tempi moderni non sono consentiti questi metodi medioevali e certo essi non rialzeranno il prestigio del fascismo e dell'Italia agli occhi del mondo» (68).

In Cirenaica l'occupazione di Cufra produce un'impressione ancora più profonda. Lo stesso Graziani ammette che «gli indigeni l'hanno vista con animo addolorato per il carattere squisitamente mistico che quell'oasi conservava». Graziani avanza anche l'ipotesi che la perdita di Cufra «potrebbe rinfocolare anziché affievolire lo spirito religioso che infiamma i combattenti del Gebel, tesi in un'ultima volontà di resistenza pur di mantenere alto il simbolo senussita». Egli è anche convinto che ora gli aiuti dall'Egitto si riverseranno in misura maggiore sul Gebel, proprio per mantenere viva la rivolta nell'ultimo lembo di Cirenaica libera. E conclude il suo dispaccio a Badoglio dicendo: «Mi compete perciò il dovere di reagire subito a qualsiasi senso di ottimismo possa ingenerarsi nei riguardi delle conseguenze della recente occupazione che, a mio parere, rimarranno circoscritte ad un fatto locale, se pur di indubbio valore morale» (69).

NOTE

(1) Il primo cenno all'esproprio delle zavie è contenuto in una lettera di Federzoni a Teruzzi del 15 giugno 1928. Il ministro chiedeva al governatore di presentargli un progetto per l'indemaniamento dei beni delle zavie e lo pregava di «togliere all'indemaniamento il carattere di provvedimento preso in odio alla religione» (ASMAI, Libia, pos. 150/7, f. 16. Lettera n. 5179). Di studiare il problema veniva dato l'incarico al capo dell'Ufficio fondiario, il giudice Adolfo Fantoni. Si vedano i suoi rapporti: Relazione e schema di decreto circa l'acquisizione delle terre al patrimonio della colonia al fine della colonizzazione, Bengasi, 28 novembre 1928, n. prof. 1019; La natura giuridica degli auqaf delle zavie senussite della Cirenaica, Bengasi, 11 agosto 1930, n. prof. 8825 (in DLPA).

2 ASMAI, Libia, pos. 150/7, f. 16. Lettera n. 10891 del 19 agosto 1930.

3 Fatta eccezione per la zavia di Giarabub, poiché la località era riconosciuta luogo santo anche da molti musulmani che non aderivano alla setta della Senussia. Le zavie erano 49, così distribuite: 3 nella zona di Bengasi, 2 a el Abiar, 2 a Soluch, 8 a Barce, 6 ad Agedabia, 7 a Cirene, 11 a Derna 4 a Tobruk, 1 a Giarabub e 5 a Cufra.

4 Insieme ai capi zavia fu confinato anche Hassan erRidà, sulla cui fedeltà Graziani nutriva molti dubbi (ASMAI, Libia, pos. 150/8, f. 25. Tel. 2968 del 17 agosto 1930).

5 Cit. in R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 126.

6 ASMAI, Libia, pos. 150/8, f. 29. Graziani a Badoglio, tel. 2055 del 5 giugno 1930.

7 Ivi, pos. 150/7, f. 15. Fernando Valenzi, Relazione sull'accertamento del patrimonio delle zavie senussite in Cirenaica, 14 aprile 1931.

8 Ivi, pos. 150/8, f. 25. Lettera n. 2230.

9 Ivi, pos. 150/7, f. 16. Allegato ad una lettera di Graziani a Badoglio, n. 2143, del 7 giugno 1930.

10 Ibidem. L'incarico di predisporre l'accertamento del patrimonio delle zavie e il loro assorbimento da parte del demanio della colonia fu affidato al consigliere di Corte d'Appello Fernando Valenzi.

11 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 149.

12 ACS, Carte Graziani, b. 1, f. 2, sottof. 2.

13 Il 1° luglio 1930 Badoglio inviava a De Bono una lunga relazione con la quale lo metteva al corrente delle decisioni che aveva preso riguardo la deportazione degli indigeni. In questo documento, che ripete ed amplia le considerazioni fatte nella lettera a Graziani del 20 giugno, Badoglio, tra l'altro, tracciava un ritratto di Omar al-Mukhtàr particolarmente positivo: «La ribellione si impernia su di un uomo che gode di un'autorità e di un prestigio assoluti. Omar al-Mukhtàr non divide il suo potere con alcuno. Ha solo luogotenenti devoti e disciplinati. Non è quindi possibile adoperare il solito sistema di incunearsi tra le gelosie, le rivalità, gli odi, che sempre esistono quando vi sono capi diversi. In tutti i momenti ed in ogni circostanza la sola sua ferma volontà detta legge. E' abilissimo come comandante e come organizzatore (ACS, Carte Graziani, b. 1, f. 2, sottof. 2).

14 Per un accurato studio sulle deportazioni e la vita nei lager, si veda G. Rochat, La repressione della resistenza in Cirenaica, cit., pp. 15589.

15 ASMAI, Libia, pos. 150/21, f. 90. Tel. 146, riservatissirno personale.

16 Ivi, pos. 150/22, f. 98.

17 F. Ravagli, Alba d'impero, cit., p. 59.

18 Os, Felici, Terra nostra di Cirenaica, Sindacato italiano arti grafiche Roma 1932, pp. 4344.

19 ASMAI, vol. V, Inventari e supplementi, pacco 5. Commissariato regionale di Bengasi, Relazione sugli accampamenti, 28 luglio 1932, p. 4.

20 Imerio da Castellanza, Orizzonti d'oltremare, Berruti, Torino 1940, pp. 13334.

21 ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98. Graziani a De Bono, rapporto n. 1058 del 2 maggio 1931.

22 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., cartina annessa alla p. 104.

23 Secondo uno studio eseguito dal colonnello Enrico De Agostini nel 1922-23, gli abitanti della Cirenaica erano 185.400. EvansPritchard dava una cifra leggermente superiore, che si avvicinava a quella del censimento turco. Secondo un'altra valutazione (Annuario statistico italiano 1928), gli abitanti erano 225.000.

24 Relazione sugli accampamenti, cit., pp. 13 e 24.

25 Lo stesso flagello si abbatté sul bestiame, che era la principale risorsa della Cirenaica. Rochat calcola che perirono il 90/95 per cento degli ovini, caprini e cavalli e l'80 per cento dei bovini e dei cammelli (G. Rochat, La repressione della resistenza in Cirenaica, cit., p. 161). Uno dei rari funzionari che cercò di contenere la furia distruttrice di Graziani fu il commissario Giuseppe Daodiace. Nel chiederne il rimpatrio, Graziani così scriveva al MAI: «La forma mentis del dottor Daodiace era inveterata nei vecchi sistemi ed egli è stato sempre da me violentato perché seguisse i nuovi. Mai naturalmente ho detto quale sforzo mi sia costato incanalare la volontà del funzionario in questione ai metodi nuovi da me attuati e da lui non approvati». «Che io non li approvassi - scriveva Daodiace a Brusasca il 7 gennaio 1951 - risulta dalle tante e ripetute mie proteste, scritte ed orali, per il fatto che non si facevano mai prigionieri in occasione di scontri fra le nostre truppe e i ribelli e si fucilavano anche donne e bambini. Non posso precisare in che anno, un gruppo di zaptiè, ai quali era stato ordinato la fucilazione di 36 fra donne e bambini di un attendamento, si presentò a me per protestare, facendomi conoscere che se fosse loro stato impartito nuovamente un ordine consimile avrebbero preferito disertare» (AB, b. 44, f. 236).

26 Os. Felici, op. cit., p. 44. L'autore fa intendere che si trattava di guardiani estratti dalla stessa popolazione di reclusi. Ma non era così. Si trattava invece di libici che già avevano servito come ascari nell'esercito italiano.

27 Ivi, p. 45.

28 Ibidem.

29 Relazione sugli accampamenti cit., p. 20.

30 E. Salerno, Genocidio in Libia, SugarCo, Milano 1979 p. 90.

31 Ivi, p. 99.

32 ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98. Graziani a De Bono, rapporto

33 ACS, Carte Graziani, b. 4, f. 8, sottof. 8. Relazione di Egidi al Governo della Cirenaica, 6 marzo 1933. Migliaia di detenuti furono colpiti anche da deperimento organico, da oligoemie, da dissenteria bacillare e da elmintiasi.

34 Il testimone allude agli ascari reclutati in Africa Orientale. Tra di essi, infatti, numerosi erano gli etiopici delle regioni settentrionali.

35 E. Salerno, op. cit., p. 91.

36 Ivi p. 90.

37 Ivi p.95

38 «L'Oltremare», n. 4, aprile 1931, p. 151.

39 G. Bedendo, Le gesta e la politica del generale Graziani, Edizioni generali CESA, Roma 1936, p. 196.

40 E. Canevari, op. cit., pp. 33435. Ma il resoconto più reticente ed avvilente sui campi è quello di Giuseppe Bucco e Angelo Natoli, autori di L'organizzazione sanitaria nell'Africa Italiana, della serie L'Italia in Africa, edito nel 1965 dal ministero degli Affari Esteri. Gli autori non accennano mai ai campi di concentramento, ma li gabellano come attendamenti spontanei. Si legga, ad esempio, che cosa scrivono del famigerato lager di Soluch (p. 316): «La maggior parte degli Auaghir transumanti viveva, prima di raccogliersi nella zona di Soluch, nelle zone carsiche e boscose del Gebel». Il corsivo è nostro.

41 Relazione sugli accampamenti, cit., pp. 2122.

42 Os, Felici, op. cù., p. 47.

43 Ivi, pp. 4849.

44 A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. La conquista dell'impero, cit., pot 66680.

45 05. Felici, op. cit., pp. 4445.

46 «L'Illustration», 4 novembre 1933: Vers la farouche Senoussi, p.312.

47 ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98. 3D. 3912 del 4 novembre 1930 Nello stesso telegramma Graziani consigliava di non inviare i nuovi arrestati ad Ustica, perché l'isola, già zeppa di deportati libici, rischiava di diventare un covo di intrighi.

48 Ivi. Rapporto n. 1058, cit.

49 Guglielmo C. Nasi, La guerriglia e l'impiego delle truppe in Cirenaica, in Governo della Cirenaica, Organizzazione marciante, Pavone, Bengasi 1931 p. 56.

50 Ivi, p. 57.

51 In uno di questi scontri cadeva Fadil bu Omar, luogotenente di Omar al-Mukhtàr e suo consigliere più ascoltato.

52 Il traffico con l'Egitto si svolgeva in questo modo. I ribelli conducevano il bestiame razziato o di loro proprietà verso il confine e, qui giunti, barattavano con i contrabbandieri oppure con fuorusciti libici il loro bestiame in cambio di tè, tabacco, farina, indumenti, armi e munizioni. Ad un dato momento, il ministro italiano al Cairo, Cantalupo, avvertì Graziani che, da notizie in suo possesso, alcuni contrabbandieri sbarcavano viveri ed armi sulla costa della Cirenaica. Graziani promosse un'indagine, per poi affermare che la notizia era falsa (ASMAE, Libia, b. 5, f. 6).

53 Cit. in Luigi Goglia, Fabio Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all'impero, Laterza RomaBari 1981, p. 352.

54 Si veda, ad esempio, Sandro Sandri, L'esplorazione e il bombardamento di Cufra «Gazzetta del Popolo», 14 settembre 1930.

55 Cit. in E. Salerno, op. cit., pp. 6061.

56 ASMAI, Libia pos. 150/ó, f. 14. Lettera n. 1148, riservatissima. Si era anche tentato di inviare un intermediario a Cufra per invitarne gli abitanti ad arrendersi senza combattere, ma De Bono non era convinto delI'efficacia di questa operazione e infatti fu lasciata cadere (ivi. De Bono a Badoglio, tel. 3591 dell'a giugno 1930).

57 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 170.

58 ASMAI, Libia, pos. 150/ó, f. 14. Lettera n. 66641.

59 Anche Mohammed Idris aveva inviato un suo corriere a Cufra per sconsigliare Scems ed-Din di evacuare l'oasi (ASMAE, Libia, b. 1, f. 8. Telespr. 24293/1139 del 20 dicembre 1930).

60 R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 192.

61 Graziani riconobbe il valore dell'avversario. Scrisse: «La mehalla ribelle [...] pur essendosi trovata di fronte a forze molto superiori di quelle contro le quali riteneva di cover combattere, si batté con audacia ed accanimento singolari e non cedette se non quando si vide irreparabilmente sopraffatta e quando capì che se avesse insistito sarebbe stata presa fra due fuochi e totalmente annientata» (R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 201). Si vedano, per l'impresa di Cufra, anche il libro di Dante Maria Tuninetti, II mistero di Cufra, Calcagni, Bengasi 1931; e l'articolo di Giorgio Menzio, Come giungemmo a Cufra, «Nuova Antologia», marzo 1937.

62 V. Biani, op. cit., pp. 24344

63 Graziani non lesinò negli autoelogi. Scrisse che «l'occupazione di viva forza dell'oasi di Cufra rappresenta la più grande operazione sahariana che sia stata mai compiuta». E ancora: «In questa impresa, si assomma lo sforzo dei capi e dei gregari, sforzo eroicamente compiutosi nel silenzioso sacrificio del deserto, e che deve essere cantato ed esaltato come fonte inesauribile di forza e di bellezza morale» (R. Graziani, Cirenaica pacificata, cit., pp. 203 e 205).

64 ASMAE, Libia, b. 1, f. 8. Cantalupo a MAE, telespr. 1551/482 dell'8 maggio 1931. Il racconto di Saleh el Atèusc fu raccolto da un informatore egiziano al soldo della nostra legazione al Cairo.

65 Ibidem. Quando la carovana di Saleh el Atèusc fu avvistata e portata in salvo dal funzionario inglese ed esploratore M. P. A. Clayton, era ridotta a 37 persone. Clayton salvò anche la carovana guidata da Mohammed Mittah. Secondo i calcoli dell'esploratore inglese, i libici persero nel deserto alcune centinaia di uomini. Per i suoi salvataggi, Clayton ricevette una decorazione (cfr. «Bourse Egyptienne» del 4 giugno 1931). Nel 1941 il maggiore Clayton guiderà i primi raid contro le basi italiane della Cirenaica.

66 ASMAE, Libia, b. 1, f. 3. Cantalupo a MAE, telespr. 1960/615 del 12 giugno 1931.

67 La traduzione dell'articolo in ASMAE, Libia, b. 1, f. 7.

68 «La Nation Arabe» n. 2, febbraio 1931: L'impérialisme italien en Tripolitaine. L'occupation de Koufra.

69 ASMAI, Libia, pos. 150/ó, f. 14. Tel. 270 del 30 gennaio 1931.


Per ulteriori testimonianze sui crimini del colonialismo italiano in Libia e in particolare per i bombardamenti con i gas sulle popolazioni civili, si veda il libro di Enrico Salerno

Ritorna alla prima pagina