Da "Il Manifesto" del 10 settembre 2004

Beslan: il grande gioco dietro la strage

Un intreccio geopolitico e affaristico che provoca vittime innocenti

di Manlio Dinucci

L'attacco alla scuola di Beslan non è stato solo un atto terroristico di kamikaze ceceni ma una complessa azione militare professionalmente preparata. Come confermano anche gli inviati del New YorkTimes, mesi prima era stato nascosto sotto il parquet della biblioteca un grosso deposito di armi e munizioni e i membri del commando, dotati di tute mimetiche in uso nella Nato e maschere antigas, conoscevano perfettamente la pianta della scuola. Tale azione non può essere stata organizzata da un singolo gruppo, senza una rete diappoggi sia all'interno che all'esterno della Russia. Dietro la nuova strage degli innocenti vi è quindi non solo l'aspirazione all'indipendenza, che anima il popolo ceceno sin dall'epoca zarista, e il rifiuto russo di concederla. Vi è il «grande gioco» interno e internazionale attorno a una posta di enorme importanza strategica: il controllo dell'ex Unione sovietica e, in particolare, delle sue ricchezze energetiche. All'interno della Federazione russa è in corso lo scontro tra grossi esponenti dell'oligarchia economica e Vladimir Putin che, contrariamente a quanto essi si aspettavano, ha accentrato il potere, e con esso i profitti della vendita del petrolio e del gas naturale, nelle mani degli uomini fidati della sua amministrazione. Il miliardario Mikhail Khodorkovskij, padrone della compagnia petrolifera Jukos, aveva tentato la scalata al potere politico con l'appoggio della statunitense ExxonMobil cui stava per vendere un terzo della Jukos, ma è stato imprigionato per aver evaso le tasse. Il banchiere Boris Berezovskoj, rifugiatosi a Londra, da tempo sostiene e finanzia il gruppo ceceno di Shamil Bassaev, indicato come organizzatore dell'attacco di Bessan. Il fine politico di tale azione era quello di colpire il prestigio di Putin, presentatosi come uomo forte in grado di risolvere la questione cecena e garantire la sicurezza della Russia.

Lo ha ben capito Putin che, nel discorso televisivo di sabato sera (sottovalutato dai media), sottolinea: «Alcuni vogliono strappare via un grosso pezzo del nostro paese. Altri li aiutano a farlo. Li aiutano perché pensano che la Russia, una delle più grandi potenze nucleari del mondo, costituisce ancora una minaccia e che tale minaccia deve essere eliminata. Il terrorismo è solo uno strumento per conseguire tali scopi» (The New York Times, 5 settembre). Il messaggio è chiaro ed è chiaro a chi è diretto.

Gli Stati uniti, disgregatasi l'Unione sovietica, proclamano esplicitamente nel 1994 che la regione del Caspio rientra nella loro «sfera d'interessi». Nello stesso anno, l'anglo-statunitense Bp-Amoco si assicura in Azerbaigian (membro con la Russia della Comunità di stati indipendenti) una prima concessione petrolifera. Nello stesso anno scoppia la guerra in Cecenia (repubblica della Federazione russa), i cui capi ribelli, arricchitisi dal 1991 con i proventi petroliferi, sono sostenuti dai servizi segreti turchi (longa manus della Cia). Quando, dopo gli accordi di pace del 1996, la Russia inaugura nel 1999 l'oleodotto tra il porto azero di Baku sul Caspio e quello russo di Novorossiisk sul Mar Nero, esso viene sabotato nel tratto in territorio ceceno. I russi realizzano allora un bypass attraverso il Daghestan, ma in agosto un commando ceceno di Bassaev lo rende inagibile. In settembre, Mosca effettua il secondo intervento armato in Cecenia. Nello stesso anno, per iniziativa di Washington, viene aperto un altro oleodotto che collega Baku al porto georgiano di Supsa sul Mar Nero, mettendo fine all'egemomia russa sull'esportazione del petrolio del Caspio. Nello stesso anno, sempre su iniziativa statunitense, Turchia, Azerbaigian, Georgia e Kazakistan decidono di costruire un oleodotto che collega Baku al porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo, sottraendo alla Russia il controllo sull'esportazione della maggior parte del petrolio del Caspio.

Contemporaneamente gli Stati uniti si muovono per distaccare da Mosca le repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale, portandole nella propria sfera d'influenza. Dopo l'11 settembre Washington dà la spallata decisiva, installando basi e forze militari, oltre che in Afghanistan, in Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan, Kazakistan e Georgia. L'area è dienorme importanza, sia per la sua posizione geostrategica rispetto a Russia, Cina e India, sia per le grosse riserve di petrolio e gas naturale del Caspio (su cui si affacciano Kazakistan e Turkmenistan), sia per la sua vicinanza alle riserve petrolifere del Golfo, dove con l'occupazione dell'Iraq gli Usa hanno rafforzato la loro presenza militare. In compenso però Bush ha espresso il suo dolore per le vite innocenti sacrificate a Beslan, assicurando di «essere con il popolo russo, cui dedichiamo le nostre preghiere».

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