La precarietà: un esito scontato

Riprendiamo il discorso sulla precarietà avviato su AGINFORM di ottobre 2004 (La condizione operaia nella nuova fase imperialista). Questa volta andiamo più indietro nel tempo, partendo dalla fine del Compromesso Storico, fino a giungere al termine della ultima esperienza di governo del centro-sinistra.

di Antonio Di Simone

La precarietà, le condizioni di ricatto che vivono oggi tanti lavoratori e la povertà in cui versano molte famiglie, giungono dopo una lunga serie di provvedimenti legislativi varati nel tempo in nome dello sviluppo economico, del benessere, delle libertà. Dato l’esito così fallimentare ed in perfetta contraddizione rispetto agli obiettivi, in nome dei quali è stato chiesto alla nazione un grande sacrificio, è doveroso procedere ad un’indagine accurata delle cause e delle eventuali responsabilità. E’ necessario, pertanto, partire sufficientemente indietro nel tempo ripercorrendo i vari passaggi, per ricostruirne la trama e comprenderne le ragioni.

Sul finire degli anni settanta passano a distanza di 16 mesi uno dall’altro, un provvedimento governativo ed un indirizzo di politica sindacale che prefigurano già un’inversione di tendenza. Il blocco della scala mobile e le politiche di moderazione salariale, porranno freno all’evoluzione dei salari. Il Compromesso Storico mostrava i primi effetti involutivi sulle condizioni di vita dei lavoratori.

Il dibattito sulle questioni economico-sociali del momento - l’andamento dell’economia, il problema occupazionale, l’orario di lavoro - rifletteva nuovi orientamenti. Le imprese chiedevano più flessibilità e si cominciava a parlare di part-time (percepito con preoccupazione nel mondo del lavoro). Sullo sfondo fermentava la contestazione giovanile.

In quel periodo le poche forme di flessibilità nell’utilizzo della manodopera erano attuate con il ricorso all’apprendistato ed il contratto a termine. Quest’ultimo poco esteso e particolarmente limitato (dalla normativa vigente) nelle possibilità d’impiego. Con l’apprendistato il datore di lavoro utilizzava ed utilizza tuttora manodopera a condizioni di salario particolarmente vantaggiose, versando contributi sociali molto bassi, per una durata che poteva estendersi fino a 5 anni. Esisteva già l’inquadramento in Collaborazione Coordinata introdotto con la legge Vigorelli del 14 Luglio 1959 n. 741. Ma all’epoca tale forma di lavoro riguardava rapporti di rappresentanza commerciale e non aveva assolutamente i connotati e l’estensione (enorme) assunta ai giorni nostri.

Dal Compromesso Storico in poi, gradualmente, il pensiero e l’agire politico delle forze di sinistra manifestavano un progressivo arretramento/logoramento, mentre l’equilibrio tra le classi sociali si spostava a favore del capitale. Dopo una serie di sconfitte dei lavoratori negli anni immediatamente successivi, nell’84, con provvedimenti legislativi sono introdotte nuove formule contrattuali improntate ad un uso più flessibile della manodopera. Il 27 Aprile 84, con il D. L. n. 944, sono inserite nuove forme di inquadramento, il Contratto di Formazione Lavoro, il Part-Time ed il Contratto di Solidarietà.

Prime dosi di flessibilità

Nel contratto di Formazione Lavoro, analogamente all’apprendistato, il lavoratore è sottopagato, quindi in condizione di disagio economico e, nel caso non venga poi assunto a tempo indeterminato, sconta anche la temporaneità dell’occupazione. E’ evidente che questo tipo d’inquadramento introduce una particolare forma di precarizzazione del lavoratore. Il datore di lavoro, viceversa, in entrambi gli aspetti, quello economico e quello temporale, riceve un vantaggio. Questa nuova forma d’inserimento al lavoro, che insieme al part-time si aggiunge al già presente apprendistato, consente di estendere il numero di lavoratori a salario ridotto, flessibili presenti in azienda. Ma la legge stabilisce anche che i lavoratori assunti a Contratto di F. L. sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi, riducendo, quindi, il campo d’applicazione dello statuto dei lavoratori. Pertanto, diverse aziende potranno impiegare ben più di 15 lavoratori, senza superare i limiti numerici per l’applicazione dell’Art. 18.

Riguardo al part-time, va fatta chiarezza su un aspetto importante. Ritengo che normalmente si tenda ad accentuare il carattere volontario della scelta da parte del lavoratore, trascurando l’eventuale ricorrenza di una condizione di necessità. Chi è in condizioni economiche famigliari agiate, può esprimere pienamente una scelta volontaria di part-time. Un lavoratore disoccupato componente di una famiglia a basso reddito, vive obiettivamente in condizioni disagiate, ed è in stato di necessità. Pertanto, ha bisogno di un lavoro che gli consenta di integrare il basso reddito. Non è nelle condizioni di rifiutare serenamente o volontariamente un part-time che gli si prospetta come possibilità di impiego. Chi poi non ha reddito per sostenersi, obtorto collo deve accettare anche il part-time. Qui la necessità è così opprimente che il carattere volontario è del tutto inesistente, il soggetto è costretto ad accettare se non gli si offre altro di meglio. La particolarità del part-time, che in un tal caso disgraziato rende più pesante l’impatto, sta nel fatto che essendo la durata della prestazione una frazione di quella a tempo intero, la riduzione della remunerazione, oltre che sul salario, si riflette anche su altri istituti contrattuali, rendendo ancor più dura la condizione di chi non riesce a disporre che di questa unica fonte di reddito.

Il datore di lavoro invece, con il part-time ha la possibilità di acquisire una prestazione lavorativa per frazioni di unità standard di lavoro. Maggiore flessibilità nell’uso della manodopera.

Per quanto riguarda i contratti di solidarietà anch’essi riflettono l’arretramento accennato poc’anzi. Infatti, nei casi di eccedenza di personale, ora ci si ripartisce il costo per il sostegno dell’occupazione tra lo Stato (temporaneamente) e i lavoratori, i quali praticheranno la riduzione di orario con riduzione di salario. Precedentemente l’incremento di produttività, che è causa prima dell’eccedenza di manodopera, veniva spesso riappropriato dai lavoratori, mediante lotte per la riduzione di orario a parità o con incrementi di salario, trasformando in tal modo coerentemente e giustamente la produttività in maggiore occupazione e benessere.

La chiamata nominativa: meno diritti e più arbitrio. Ma c’è chi la chiama libertà

Il movimento dei lavoratori si è sempre battuto per conquistare/affermare un criterio sulle modalità di accesso al lavoro, volto a tutelare il diritto d’ingresso per tutti alla vita. L’affermazione di criteri che tenessero conto delle stato in cui versavano i disoccupati, tra cui le condizioni famigliari, unitamente al metodo d’acquisizione della manodopera per chiamata numerica, garantivano equità e costituivano un rinvio implicito al diritto al lavoro, alla vita.

Possiamo pertanto dire che lo sviluppo sociale si manifestava in istituzioni che fornivano al cittadino anche questo tipo di tutela. L’ordine di precedenza (la graduatoria del collocamento) occupava il posto della soggettività e dell’arroganza del datore di lavoro, mentre dopo l’introduzione della legge 1987 N. 56, il lavoratore in molti casi veniva così a trovarsi da solo a fronteggiare l’arbitrio della controparte. Il pensiero unico, come ho affermato nel precedente articolo sulla flessibilità oraria, esprime l’egemonia del capitale. Per quest’ultimo il lavoratore non è null’altro che una merce, e come tale deve subire le stesse vicende della merce, quindi, può rimanere invenduto se, come merce, non è attraente. Il capitale non vede e non vuole vedere la società, le relazioni sociali, esse sono per lui d’impaccio, quindi tenta di comprimere arbitrariamente gli spazi di democrazia e di diritto che la società si dà. Per il capitale esiste solo il mercato. Non è un caso che negli ultimi anni si sia parlato tanto di “Azienda” Italia, ed è bene che qualche intelligenza rimasta ancora vigile, nonostante la sbornia da “liberismo” che pervade la nostra società, abbia risposto con ironia dicendo: “non si possono mica licenziare i cittadini”.

Nel corso di questo articolo mi soffermerò brevemente sul tema libertà, sebbene sia argomento alquanto vasto e complesso da meritare ben altri spazi. In questo passaggio mi limito a sollevare soltanto una questione. Perché mai questi instancabili fautori, pubblicisti della/e libertà, la rappresentano come la manna che cade dal cielo sugli uomini, cogliendoli uguali, raggiungendoli, nutrendoli e beneficandoli tutti in egual misura? Non per presunzione, ma è sufficiente un minimo di intelligenza per leggere nella stessa formulazione della legge, che immancabilmente è poi confermata dalla realtà, che si stanno togliendo possibilità, tutele e diritti ai lavoratori (e tra l’altro a danno dei più bisognosi) per darne al datore di lavoro.

La preoccupazione del legislatore è stata unicamente quella di liberare le imprese dal rispetto di vincoli posti a tutela dei lavoratori, dei cittadini. E’ come se lo Stato dicesse alle imprese, io su questo particolare aspetto della vita dei miei cittadini non vigilo più, anzi mi sottraggo, ora in questo ambito specifico regnerà la libertà del far-west, la libertà di chi ha colpi ed armi per sparare. Quanti e quando dicono meno Stato, nella realtà non hanno a mira lo Stato borghese, ma quelle leggi e quelle istituzioni che i lavoratori hanno affermato. La chiamata numerica mirava a realizzare un certo equilibrio tra le libertà.

La legge 1987 N. 56 attenuerà i vincoli posti sull’assunzione a contratto a termine, pertanto ora essa “è consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro…”, ed in alcune situazioni anche nel pubblico impiego. In aggiunta si stabilisce che i lavoratori apprendisti (come in precedenza disposto sui Contratti di F. L) non debbano essere inclusi nel computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti. Con ciò riducendo ulteriormente il campo d’applicazione dell’Art. 18.

Bilancio di un primo decennio

Sul finire degli anni ’80 si riscontra che i lavoratori hanno ricevuto il contenimento salariale, sono inseriti sempre più spesso in rapporti di lavoro a salario ridotto e con bassa contribuzione (che sconteranno anche in futuro al momento del pensionamento), subiscono maggiore precarizzazione da tempo determinato, da tempo parziale, da esclusione per chiamata nominativa, e si spartiscono non più la ricchezza sociale (come avveniva con la riduzione d’orario a parità di salario) ma la sventura a causa dei contratti di solidarietà (riduzione di orario con riduzione di salario). In aggiunta in molte aziende hanno perso la copertura dello statuto dei lavoratori.

Chi ha guadagnato e chi ha perso? Su tutti gli aspetti hanno guadagnato le imprese, su tutti gli aspetti hanno perso i lavoratori. Nel detto popolare la fortuna è cieca e la sfortuna ci vede bene, ma nel nostro caso il legislatore ha tolto la benda alla fortuna, così ora entrambe ci vedono bene e guardano sempre da due parti distinte e precise. C’è un titolare delle fortune ed uno delle sfortune.

L’attacco alla titolarità del posto di lavoro

Con la CIG introdotta nel 1945 e la CIGS nel 1968 fino all’inizio degli anni 90’ i lavoratori erano assistiti nei periodi di precarizzazione momentanea della loro attività lavorativa. Fulcro di tale assistenza era la titolarità del posto di lavoro che garantiva nel caso di rientro, pari condizioni professionali e salariali e se necessario, l’accesso a corsi di formazione professionale. Come ulteriore elemento di tutela, la mobilità era sottoposta a contrattazione. Il lavoratore era tutelato da un quadro normativo che lo poneva nella condizione di “occupazione assistita”.

Con la legge n. 223 del 23 luglio 1991, salta la titolarità del posto di lavoro ed il lavoratore passa nella condizione di “disoccupazione assistita”. La possibilità del licenziamento, successivamente all’apertura di un programma di ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione o crisi aziendale, è il grimaldello della trasformazione sopra citata consentito da questa legge.

Per i lavoratori licenziati è prevista l’iscrizione temporanea ad una lista di mobilità, il pagamento dell’indennità di mobilità per il periodo di permanenza nella lista, ed una forma di priorità nell’assunzione molto debole e temporanea. Anche la forma di assistenza alla disoccupazione sarà ulteriormente peggiorata in futuro.

La chiamata nominativa riceve un impulso poderoso con tale legge. Sono inoltre introdotte particolari “stimolazioni” verso le imprese che assumono, anche se a contratto a termine (sia esso a part-time o a tempo intero), personale da liste di mobilità. Esse godranno di un consistente abbattimento sui contributi da versare. I lavoratori, invece, dovranno versare per intero la loro parte. Nonostante le aziende possano scegliersi nominativamente i dipendenti, nel caso provvedessero poi a trasformare tali assunzioni a tempo indeterminato riceveranno per altri 12 mesi lo stesso sconto sulla contribuzione, ed in premio, anche il 50% dell’indennità di mobilità che spettava al lavoratore, fino ad un massimo di 12, 24, 36 mesi, a seconda dell’età del dipendente e della zona geografica dove si svolge l’attività. E così accade che le aziende ricorrano proprio al tempo determinato, date le sostanziose opportunità offerte. Con facilità, molte aziende si sono riciclate chiudendo battenti e riaprendo sotto altro nome, per godere dei grossi vantaggi offerti da questa legge. L’INPS ha tentato di far argine a questi abusi, ma nonostante gli sforzi (per lo più vani) gli abusi sono e rimangono notevoli. Questa legge ha cambiato il mercato del lavoro rendendo tra l’altro penose le condizioni di inquadramento e di vita per i lavoratori assunti dalle liste di mobilità.

La mobilità spesso colpisce lavoratori in età avanzata, 50 anni e anche più, in tali casi la mancanza di prospettive porta con facilità alla depressione. Inoltre chi è riassunto è in costante condizione di ricatto.

Le imprese ora possono ristrutturare, ridurre il personale, o sostituire i lavoratori costosi (coloro che hanno maturato diritti e salario negli integrativi aziendali e per anzianità di servizio) con personale nuovo a basso costo, ricattabile, con sgravi contributivi, incamerando inoltre anche il 50% dell’indennità di mobilità del lavoratore assunto dalle liste. Delle eccedenze e degli “scarti” costosi, se ne facciano carico la società, le famiglie, la sanità.

Atro regalino della legge: i lavoratori assunti con Contratto di Reinserimento sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti. Ciò ridurrà ancor più il campo di applicazione dell’Art. 18.

La precarietà secondo la sinistra

Nel periodo del Governo di centro-sinistra sarà firmato, tra Governo (Prodi) e Parti Sociali, l’Accordo per il Lavoro (24 sett. 1996) e nove mesi dopo il Pacchetto Treu (L. 196 approvata il 24 giugno 97). Con questi due passaggi dove il primo apre la strada al secondo e ne definisce dettagliatamente le linee guida, si progetta una consistente ri-definizione dell’Apprendistato “al fine di allargare le possibilità di ricorso all’istituto” per “settori, titoli di studio, profili professionali, fascia di età interessata”. Ovviamente nell’ormai noto refrain, paga sempre pantalone, lo Stato (cioè noi) si farà carico dell’onere salariale durante i periodi di formazione.

Sono definite anche nuove forme di utilizzo della manodopera.

E’ introdotto il Lavoro Interinale (detto anche lavoro temporaneo, lavoro in affitto, nella sostanza, un’intermediazione di manodopera tecnicamente ed esteticamente più evoluta del caporalato), che non obbliga l’imprenditore ad alcuna forma di assunzione, infatti, ad essa può ricorrervi agevolmente per provvedere, con flessibilità, alle necessità momentanee della sua attività. Tra le altre novità troviamo gli Stage di formazione, i tirocini formativi, nuovi criteri di utilizzo di manodopera praticamente gratis fino a 12 mesi. E’ previsto inoltre il ri-finanziamento ed il rilancio dei Lavori Socialmente Utili (LSU) e la definizione dei Lavori di Pubblica Utilità (LPU). Per gli Stage ed i Tirocini va detto che lo stesso legislatore si è premurato di chiarire che non costituiscono rapporto di lavoro. Non si sa mai - che il lavoratore si mettesse in testa idee strane.

Inoltre si introduce il concetto di medie orarie settimanali, mensili, annuali che tornerà molto utile per l’attuazione della flessibilità oraria.

Lo sconvolgimento delle tutele, e delle condizioni di vita sono oggetto da prendere in seria considerazione.

La semplice instabilità della propria condizione lavorativa, prima ancora possa manifestarsi come precarietà economica, quindi, anche nel caso di un buon assetto economico, determina un forte impatto a livello emotivo. Leggevo in particolare sull’argomento le confessioni di un professionista benestante americano che, parlando con un sociologo, raccontava la sua forte preoccupazione per le ripercussioni sulla sua vita personale, familiare e di relazione, dei ritmi e della singolare discontinuità/flessibilità del lavoro. La sua vita di relazione si frammentava come il suo lavoro che appariva un’affastellarsi di attività, cose e vicende prive di connessione tanto da non avere più le sembianze di una successione logica temporale di fatti, non aveva un senso. Questo per una quadro di medio livello americano senza problemi di reddito. Nel caso dei nostri lavoratori flessibili, non avendo essi una condizione di reddito soddisfacente, si somma a ciò la precarietà economica, come anche una situazione lavorativa subordinata nettamente più scadente. L’impatto sulla loro vita è ben più pesante. Molte delle cose accessibili a chi ha un lavoro stabile, sono loro precluse. Pensate solo all’accesso al credito. Una banca su quale stabilità di salario può fondare un credito nei confronti di chi vive di contratto a termine, di rapporto in Collaborazione Coordinata e Continuativa, di Lavoro Socialmente Utile, di Lavoro di Pubblica Utilità? Quante di queste persone potrebbero accendere un mutuo? Chi è nella precarietà non può dar corso a progetti importanti per la sua vita. Il ventaglio delle cose a lui possibili si restringe alla necessità.

Ma anche prima del pacchetto Treu la sinistra al governo cercava di spingere di più sull’acceleratore, delineando un nuovo e rapido percorso verso la precarizzazione dei lavoratori.

Precisamente il 2 aprile 1997 fu presentato da due esponenti DS, De Benedetti e Ichino, il Disegno di Legge N. 2075 (per fortuna rimasto tale), per la riforma dell’art 18. Ichino stesso dichiarerà in un’intervista, “a questo tabù accadrà fra un po’ quello che è accaduto degli altri: l’art. 18 prima o poi verrà modificato e dopo qualche mese non ci sarà più quasi nessuno a sinistra a nutrire nostalgia per la vecchia norma”. Il provvedimento prevedeva il licenziamento senza giusta causa e senza obbligo di reintegro - per dipendenti pubblici, privati e soci lavoratori di cooperative - in tutti i casi tranne quelli di malattia, licenza matrimoniale o maternità. Nella realtà anche in questi casi non c’è una vera tutela, bensì solo una dilazione, perché si può licenziare il lavoratore al rientro da tali circostanze.

Una nota sulle Collaborazioni Coordinate e Continuative di cui accennavo all’inizio dell’articolo: nel frattempo hanno subito un vero e proprio stravolgimento di senso. A tale figura d’impiego le imprese fanno riferimento per attuare flessibilità mascherata da lavoro autonomo (un espediente per mascherare rapporti di lavoro subordinati). Così da percentuali molto basse si giunge in Italia (soprattutto nell’ultimo decennio) al coinvolgimento di 2,5 milioni di lavoratori. Un’altra forma di precarietà deriva dai cosiddetti Percorsi Formativi delineati nei Contratti Nazionali. In qualche caso (Contratto Poligrafici) si entra al lavoro con salari pari al 60% del salario d’inquadramento, il primo anno, 70 % il secondo, fino al 100% il quinto anno, ma accade anche che i dipendenti siano nuovamente licenziati prima del quinto anno.

Bilancio del secondo decennio

In questo periodo le forme di precarizzazione precedenti - part-time, apprendistato, contratti di F. L. chiamata nominativa (ormai nei fatti chiamata nominativa generalizzata), collaborazioni coordinate e continuative - conoscono un’espansione poderosa. Ma vediamo anche emergere nuove forme di inquadramento e l’attuarsi di vere e proprie svolte epocali, come l’attacco alla titolarità del posto di lavoro, la legalizzazione del lavoro in affitto e quelle forme di impiego che si caratterizzano come “divieto di costituzione del rapporto di lavoro”. Il campo d’intervento dello Statuto dei Lavoratori è stato di nuovo ridotto con l’introduzione degli interinali e degli LSU ed è stato fatto anche un tentativo per eliminare l’Art. 18. Precarizzazione in ingresso, in uscita, nel salario, precarizzazione della vecchiaia, precarizzazione psico-fisica. Il lavoro flessibile, precario è cresciuto poderosamente, nelle nuove assunzioni ma anche per effetto sostituzione di lavoro a tempo indeterminato e a pieni diritti con lavoro temporaneo, flessibile.

E sul tema dei diritti che emerge per pressione sociale, centro-sinistra e centro-destra, congiuntamente si adoperano a raffigurare i diritti alla stregua di privilegi eccessivi, ingiustificati, per cui, i lavoratori privilegiati sarebbero causa della mancanza di diritti per i precari. La soluzione prospettata (il progetto), prefigura la redistribuzione/contesa dei diritti tra i lavoratori, per la spartizione di ciò che è rimasto e del danno ricevuto.

Chi ha guadagnato e chi ha perso? Anche in questo secondo decennio la fortuna e la sfortuna ci vedono bene, guardano sempre da due parti distinte e precise ed anche i titolari sono rimasti gli stessi.

La flessibilità/precarietà costringe il lavoratore a ritmi stressanti ed improvvisi ed il tempo a disposizione per gestire la vita si assottiglia, le condizioni di vita per giunta sono peggiorate. Emerge, quindi, un problema sociale che in qualche modo va gestito. C’è chi onestamente si muove per riconnettere il problema alle cause reali e si spende insieme a questi lavoratori in una battaglia politica per la conquista di diritti e di migliori condizioni di vita.

Ma c’è anche una ricca schiera di operatori sociali che concentrano i loro sforzi per congelare l’esistente. Uno dei primi passaggi da loro compiuti è quello della de-storicizzazione del problema. Ciò che accade non ha causa, infatti loro affermano che quanto si vive appartiene semplicemente al tempo moderno, è il lavoro nel XXI° secolo, c’est la vie moderne. In definitiva tutto quanto riportato in questo documento, i provvedimenti adottati, i soggetti coinvolti, e tutto l’operare politico di partiti, sindacati, confindustria, mondo del lavoro, tutto ciò è azzerato, non c’è storia. Nel 2000 accadono le cose del 2000 e basta.

Dopo aver trasformato gli eventi in casualità, avendoli anche naturalizzati, scompaiono responsabili o sottrattori.

Il lavoro, senza altro attributo che quello del moderno (aggettivo che riassume tutte le cause su di sè), trovando una diversa armonizzazione con la vita può essere meglio sopportato. Si tratta di riconciliare i tempi di lavoro con quelli della vita, a causa di un’inimicizia nata non si sa come o dove. I riconciliatori sono appunto quegli operatori sociali (politici, sociologi, sindacalisti) che stanno studiando come calmierare la sofferenza sociale con surrogati di tutele, schedualzioni del menage familiare, turni di coppia, asili nido a pagamento pensati come parcheggio dei bambini che godranno sempre di meno delle cure famigliari, congedi parentali, anni sabbatici.

Questi soggetti intendono interferire anche su quel tempo libero che è proprietà degli individui, poiché questo deve essere ottimizzato per una gestione efficiente, in modo da consentire alle persone di attendere alle incombenze famigliari dopo che ad esse è stato rubato molto del loro tempo e dei loro soldi (e ora devono lavorare anche di più per avere un reddito soddisfacente). Questi operatori svolgono una funzione complementare utile alle imprese, poiché narcotizzando il dissenso sociale garantiscono un atterraggio morbido e la sopravvivenza ai provvedimenti restrittivi fino ad ora adottati.

Non entro nel merito dei gradi di consapevolezza che possiedono i singoli riconciliatori, certamente il loro lavoro anche quando non sporco è comunque dannoso.

Nel corso dell’articolo ho criticato quei riferimenti in astratto al termine libertà. La libertà non nasce semplicemente da un negativo, un “non impedimento”, non deve essere slegata perché nessuno la può imprigionare. Non cade dal cielo e non sgorga in automatico dalle persone, non è leggera. La libertà è un positivo, è prodotto dell’attività umana e costa molto realizzarla, mantenerla, rinnovarla, ma non vola via. La libertà è possibilità e potere. Le possibilità vanno create socialmente edificando percorsi ed il potere deve essere dato ai soggetti, da leggi e istituzioni che ne garantiscono equa partecipazione.

Nella società borghese, nella nostra società occidentale, la possibilità, il potere e la libertà sono inscindibilmente legati al possesso di danaro. Un individuo non può neanche decidere di vivere se non ha danaro per soddisfare le sue esigenze, semplicemente muore, poiché la libertà, particolarmente nella nostra società, non deriva da un atto volontario. Questa è la tirannia del danaro, dei possessori del danaro.

Le lotte dei lavoratori nel XIX° e XX° secolo sono scaturite per ribellione da questa tirannia, ed hanno operato per spostare il potere dal danaro alle regole sociali, alle istituzioni, cioè per ridarlo agli uomini. I lavoratori hanno combattuto per affermare regole positivamente, mediante leggi. Hanno creato possibilità, cioè percorsi per garantire condizioni di vita decorose, un itinerario di accesso al lavoro tale da garantire una partecipazione secondo criteri di equità. I lavoratori hanno conquistato un potere sul lavoro e sulla vita a caro prezzo, con versamenti di sangue, strappandolo al danaro. Nelle norme contrattuali hanno fissato le condizioni universali per il salario, la pensione ecc. Le forme di assistenza conquistate li hanno liberati dalle angosce per la malattia e l’infortunio. Ora potevano vivere, istruirsi, ammalarsi, curarsi, invecchiare, godere di svaghi e di ferie. Ognuno di questi aspetti è una forma di potere a cui è connessa una forma di libertà. Prima di affermare questi poteri, vivevano da schiavi, nell’ignoranza, nell’incertezza della vita, la malattia era un’angoscia perché non ricevendo il salario si moriva, mentre la vecchiaia era spesso un triste destino.

Contro ognuna di queste libertà, di queste forme di potere, si sono scatenati, in nome delle libertà astratte, i soggetti che ho citato negli articoli comparsi su Aginform e con meticolosa attenzione hanno mirato a smantellare pezzo dopo pezzo l’impalcatura di norme e istituzioni connessa ai diritti, alle tutele, al salario, per riaffermare il potere del danaro e con esso il dominio di chi lo possiede, il capitale, il quale ora può agire senza ostacoli.

Per questo hanno cercato di convincere che la libertà sta dentro la parola, basta dichiararla. Resa così leggera, come una farfalla vola via.

Molte delle forme di precarietà che ho esaminato sono un vero e proprio disastro dal punto di vista previdenziale. Se non si opererà un’inversione di tendenza in vecchiaia molti dei nuovi lavoratori godranno una pensione da povero mentre altri rischieranno di trovarsi nella condizione di homeless..

Se pensiamo all’impatto psico-fisico della catena di montaggio sui lavoratori possiamo meglio comprendere le conseguenze della flessibilità, poiché essa trasforma tutta la vita di una persona nella sequenza di una catena di montaggio, di cui non si percepiscono i nessi (perché non ci sono) tra una fase e l’altra. A questa indeterminazione e perdita di senso, che perturba anche i rapporti famigliari e di relazione in genere, dobbiamo aggiungere il senso di precarietà e la povertà delle condizioni di vita. Certamente non possiamo nè accettare, nè arrenderci ad un c’est la vie moderne che tali soggetti vogliono farci assimilare. Organizzarsi per ribellarsi è più che mai giusto, necessario ed urgente.

Antonio Di Simone


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