La condizione operaia nella nuova fase imperialista

Con questo articolo di Antonio Di Simone Aginform inizia un percorso di indagine e discussione sugli aspetti nuovi della condizione operaia e del conflitto sociale allo scopo di individuare i punti qualificanti di un progetto di riorganizzazione che tenga conto delle mutazioni avvenute nell’ultimo decennio.

Aldilà di una certa retorica operaista, è indubbio che la questione essenziale che si pone oggi è individuare che cosa è realmente avvenuto nella condizione di classe e quali sono le ragioni della debolezza dei lavoratori rispetto a come il padronato si è mosso.

In questa breve nota di introduzione al testo sulla flessibilità, ci preme sottolineare che i punti essenziali della ricerca e del dibattito sul programma non riguardano solo e prevalentemente l’analisi delle articolazioni che si sono andate determinando nei rapporti di lavoro subordinato, ma anche la comprensione di come da questi nuovi rapporti si possa esprimere un livello di conflittualità incisivo.

Questo tipo di impostazione esula dalla tradizionale visione contrattualistica delle lotte e punta invece a stabilire su quali livelli si possa riuscire a contrastare gli obiettivi di fondo padronali e qual’è il contesto politico e organizzativo che consenta un mutamento di indirizzo rispetto alla grande ritirata che è iniziata negli anni ottanta.

Purtroppo, negli ultimi anni, si è insistito su riferimenti che non sono certamente serviti a fare chiarezza. Da un punto di vista generale abbiamo dovuto constatare che le ‘grandi lotte’, quelle che hanno caratterizzato la situazione a partire dagli anni sessanta, non potevano essere rilanciate, mancando la premessa essenziale, una condizione oggettiva che ne potesse garantire la forza e quindi i risultati.

Anche se alcune forze, FIOM e PRC in particolare, hanno cercato di rianimare il clima delle grandi mobilitazioni, i risultati sono stati deludenti e non poteva essere diversamente. Una classe operaia invecchiata e passata attraverso le grandi ristrutturazioni non poteva contrattaccare, per di più con settori vasti di manodopera ‘parallela’ alla produzione tradizionale. Di qui la necessità di capire come cambiare le cose.

Una cosa è certa però, la condizione di classe è arrivata al limite, sul salario, sulla stabilità dell’occupazione, sul contesto sociale complessivo a partire dalle pensioni. Ma la chiave di una svolta non è stata individuata. Nei prossimi numeri cercheremo di approfondire queste tematiche.


Nell’ultimo ventennio il mondo del lavoro è stato scosso a ritmo crescente da gravose trasformazioni. Quest’ultime ne hanno ridisegnato così radicalmente il paesaggio e le modalità in cui esso si riproduce, che oggi, per molti tra i nuovi lavoratori, guardare al proprio futuro è come guardare attraverso una cortina di fumo che ispessisce sempre più, da cui a sprazzi emergono fotogrammi che prefigurano una vita insicura, un lavoro dove lo spazio dei diritti è compresso ai limiti della subordinazione, una vecchiaia angosciante. Purtroppo i segnali negativi non accennano a diminuire, gli accadimenti di questi ultimi giorni lasciano intravedere un ulteriore giro di vite.

L’elenco delle aziende europee, dove sotto il ricatto della delocalizzazione degli impianti sono pattuiti accordi di retrocessione su diritti acquisiti, si allunga. Volkswagen, Opel, Bosch, Seb, Sediver, Ronzat, Doux (anche le aziende di pollame minacciano la delocalizzazione). Nel campionario degli accordi troviamo incrementi di orario da 35 a 40 ore, riduzioni di oltre il 50% della tredicesima, incrementi di 23 giorni annuali di lavoro, eliminazione di indennità pomeridiane e notturne, riduzioni salariali …

In Francia il Ministro per le Relazioni sul lavoro Gérard Lacher, comunica di essere pronto a utilizzare tutti i mezzi legali a disposizione per giungere ad una estensione della settimana lavorativa. In Italia fortunatamente per ora il problema non è molto sentito, ma non mancano commenti interessati. Luca di Montezemolo (attuale presidente di Confindustria) allude a forme di agevolazione fiscale per frenare il fenomeno delle delocalizzazioni. Pietro Ichino (DS Liberal) riferendosi a quanto sta accadendo in Francia e Germania, dalle pagine del Corriere della Sera, criticando il sindacato, afferma che “da noi nessun sindacato ha il coraggio di abbandonare esplicitamente la tesi dell’ “intangibilità dei diritti acquisiti” (tesi peraltro giuridicamente del tutto infondata: non esistono “diritti acquisiti” dei lavoratori sulle condizioni di lavoro future”.

Certamente non mancano gli argomenti per rispondere, il vero problema è che in pochi ne facciamo uso. Parte di quella che oggi si fa chiamare sinistra o è assente, o a volte consenziente.

Sul fronte sindacale persiste la schermaglia tra CGIL da un lato e CISL e UIL dall’altro che persiste fin dalla rottura sul Patto per l’Italia. Analogamente ad allora troviamo CISL e UIL pronte al dialogo/scambio con la “nuova” Confindustria di Montezemolo e con il Governo, mentre la CGIL mantiene un profilo di contrapposizione, ma tutto inscritto all’interno dell’accordo del luglio 93.

Il nuovo attacco al mondo del lavoro non giunge unicamente dai fatti citati sopra, poiché a breve cominceremo ad assaporare gli effetti degli accordi e delle leggi prodotti nell’attuale fase di Governo del centro-destra, i quali certamente inaspriranno le condizioni di vita, già particolarmente dure, di molti lavoratori ed espanderanno ulteriormente l’area del precariato.

La precarietà che già conosciamo invece deriva, per intero, dai governi precedenti (in particolare dal Governo di centro- sinistra) di cui parlerò in un successivo numero di Aginform. Partendo dalle considerazioni  sullo stato di consapevolezza nella sinistra politica e sindacale e sollecitato anche da quanto sta accadendo in questi ultimi giorni, mi sono determinato a produrre questo articolo sui provvedimenti inerenti il mondo del lavoro varati dal Governo in carica, nell’intento di rappresentare al meglio sia l’entità del problema sia il ruolo giocato dai soggetti coinvolti.

Le politiche di precarizzazione del Governo di centro-destra

Nell’ottobre 2001 il Governo in carica presentò il Libro Bianco di Maroni, la sua riforma della legislazione del lavoro. Una vera e propria controriforma (ad oggi realizzata in buona parte) con la quale intendeva ridisegnare il collocamento, i diritti del mondo del lavoro, l’amministrazione della giustizia sul lavoro; stravolgere la contrattazione nazionale e le tutele dei lavoratori; estendere oltremodo la flessibilizzazione della manodopera attraverso l’introduzione di nuove forme di impiego; in definitiva si proponeva di riscrivere l’intera legislazione del lavoro.

Il mese successivo il Governo tentò un primo affondo con il disegno di legge 848/01 (1). In esso erano delineate le seguenti direttrici di trasformazione: apertura delle funzioni del collocamento a privati e a formazioni privato-sociali (2) ; estensione dell’intermediazione della domanda di lavoro ai consulenti di lavoro e alle università; innovazioni nel contratto part- time; nuovi tipi di contratto come lo staff leasing, il contratto a chiamata, etc. Al suo interno si prevedevano apposite deleghe per risolvere i contrasti con la legislazione in vigore, tra cui la questione relativa all’Art 18.

Immediata fu la risposta  della sinistra e del mondo sindacale (3), che sfociò più tardi nella imponente manifestazione del 23 marzo 2002.

Questo disegno di legge avrà un corso travagliato e nello stralcio deliberato dall’Assemblea del giugno 2002 riemergerà come disegno di legge 848-bis, attualmente ancora in discussione al Senato.

Sullo specifico dei contenuti riferirò più avanti nel testo, mi soffermo per ora su un aspetto (della 848 - bis) di particolare delicatezza e gravità. Esso riguarda l’esplicita formulazione, non già di parte padronale, ma del soggetto (4) che dovrebbe agire a tutela del cittadino ed essere il miglior interprete e tutore delle leggi e del loro valore, cioè il Governo, il quale, riguardo l’amministrazione della giustizia in materia di lavoro, promuove il: “… superamento del divieto di compromettibilità in arbitri delle controversie individuali aventi ad oggetto diritti dei lavoratori derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, affermandosi conseguentemente il lodo secondo equità, …”. Approfondendo e intrecciando la lettura con il Libro Bianco si comprende bene che l’intenzione è quella di scardinare definitivamente la tutela fondamentale del soggetto più debole fornita dalla figura del Giudice, quale garante dell’applicazione delle legislazione sul lavoro e del rispetto della contrattazione collettiva. Il Governo di centro-destra intende attuare la compromettibilità, l’elasticizzazione del diritto del lavoro.

Dopo le vicende travagliate della 848, seguirà un altro passaggio politico importante, il Patto per l’Italia. L’inasprimento del confronto sull’Art 18 dello Statuto dei Lavoratori aveva reso già caldo il clima tra i soggetti in campo, a ciò si aggiunse lo scollamento, nel merito del Patto, tra le componenti sindacali, inasprendo ancor più il clima del confronto Governo - Confindustria - Sindacati, che portò rapidamente ad una frattura nell’unità sindacale ancor oggi non ricomposta. L’accordo, per lacontrarietà della CGIL,  sarà raggiunto con le sole firme di CISL e UIL il 5 luglio 2002.

La CGIL darà poi corso, nella sostanza, ad in una battaglia prevalentemente teorica, mentre nella contrattazione nazionale in più occasioni procederà a recepire il Patto. La componente FIOM invece, procederà anche sul piano pratico a comportamenti di opposizione molto coerenti. Tutta la fase dei pre-contratti mostrerà una FIOM coerente, come non si era vista da tempo.

Il Patto per L’Italia prevede che le nuove tipologie di servizio al mercato del lavoro (incontro tra domanda ed offerta, selezione, formazione, ricollocazione, lavoro interinale, ecc) possano essere svolte da soggetti privati o privato-sociali (come le OO.SS. maggiormente rappresentative). Quest’ultime potranno  curare anche la gestione dell’indennità di disoccupazione sia di base, sia integrativa.

Certamente la politica è mediazione, ma questo scambio (Governo- sindacati), che da diverse parti  è stato indicato come una forma di corporativizzazione, è stato fatto interamente sulla pelle dei lavoratori.  Emergerebbe a mio parere un’inversione della missione. Dall’analisi dell’accordo sembra proprio che il sindacato abbia fatto uso della rappresentanza e del potere che gli è conferito dai lavoratori per trattare, più che nell’interesse di quest’ultimi, per il proprio tornaconto. Di questo sembra rendersene conto bene anche il Governo che, approfittando intelligentemente  delle “debolezze” della controparte, fa passare i suoi contenuti, mediandoli con una distribuzione di ciliegine candite.  La pietanza è quella giusta per un sindacato che ormai, aspirando a configurarsi come azienda di servizi, vede aprirsi quelle strade (5), precedentemente precluse,  verso funzioni e servizi importanti.

Ma anche l’aspetto economico ad essi connesso è altrettanto interessante per il sindacato confederale poiché, quando questi nuovi servizi del mercato del lavoro andranno a regime, esso avrà introiti, dalla partecipazione alla loro fornitura, in quantità direttamente proporzionale alla mole di lavoro flessibile presente nel mercato (ciò potrebbe anche spiegare i motivi dell’acquiescenza e della disponibilità di tale sindacato alle flessibilità). A ciò dobbiamo aggiungere le grosse cifre  che ruotano attorno alla formazione permanente e quanto giungerà dalla partecipazione negli organismi bilaterali di gestione delle prestazioni di base ed integrative dell’indennità di disoccupazione; ma arriverà anche altro.

C’è inoltre da considerare che, dal punto di vista del peso sociale, è tutto un plus; ruolo, funzioni, dislocazione. L'influenza dell'organizzazione crescerà, anche se a discapito della sua natura (6) di soggetto sociale. La precarietà, per questo soggetto (il sindacato confederale) mutato o mutante che sia, non potrebbe essere certamente fonte di sofferenza e preoccupazione, poiché ne trarrebbe business, potere e funzione.

La precarietà appare oggettivamente un affare per le imprese, per il sindacato confederale e per altre aziende private che forniscono servizi per l’impiego, al cui interno ed in posizioni prestigiose, già da tempo operano funzionari sindacali riciclati. Come potremmo confidare in un loro effettivo interesse nel risolvere il problema precarietà, dal momento che sulla sua esistenza poggiano opportunità così interessanti per questi soggetti? Verrebbe del tutto naturale pensare che per loro, nei fatti, la precarietà diverrebbe un problema economico ed organizzativo proprio nel caso accennasse a sparire.

Sulla questione ammortizzatori sociali il Patto non ha partorito neanche il topolino, poiché degli oltre 5 miliardi di euro richiesti (da parte del Sindacato) se ne ottiene meno di 1 (700 milioni di euro); che vengono redistribuiti lasciando ancora fuori i soggetti che da tempo  ne erano esclusi (7).

L’aspetto più preoccupante del Patto riguarda l’attacco all’Art.18. I contenuti dell’allegato 2 (attualmente raccolti nella delega 848 Bis ferma al Senato) prevedono, per le aziende al di sotto dei 15 dipendenti che intendessero crescere assumendo personale, il non computo dei nuovi assunti (8) ai fini dell’applicazione dello Statuto dei Lavoratori.

Se aggiungiamo ciò alla situazione attuale, dove praticamente già esistono molti metodi per superare i 15 dipendenti aggirando le tutele dell’Art 18 (9), potremo avere aziende molto grandi dove praticamente non esiste alcuna tutela rispetto al licenziamento arbitrario.

Per valutare bene la gravità di tale provvedimento dovremmo aggiungere alle possibilità di costituzione di nuova azienda, già offerte dalla L. 223, quelle che potranno costituirsi sulla base dei nuovi criteri per la cessione di ramo d’azienda (ridefiniti nel Patto). Infatti otterremo in breve tempo  aziende con 100 e più dipendenti tutti fuori dalla copertura dello Statuto dei Lavoratori, in quanto la crescita  interverrebbe per nuove assunzioni..

C’è da dire poi che la tanto sbandierata temporaneità della sospensione dello Statuto dei Lavoratori, con lo stratagemma della verifica dei 3 anni sull’efficacia della sospensione dell’Art 18, potrebbe essere con facilità aggirata.

Avremo aziende con “assunti fantasma” (non computabili per l’efficacia dello Statuto dei Lavoratori) a fianco ad altre con dipendenti regolari. Quest’ultime sarebbero penalizzate, quindi, implicitamente stimolate a fare altrettanto per reggere la concorrenza.

Sette mesi dopo questo pesante provvedimento, il mondo del lavoro viene sconvolto da un cataclisma. La legge 30 (Riforma Biagi), le cui deleghe saranno attuate con il D.lgs. del 10 sett. 2003 n.276, provvederà a sferrare il colpo grosso della controriforma Biagi proposta con il Libro Bianco. Partiamo subito dai contenuti della 276.

Sono introdotte nuove figure lavorative per lo più prive di una copertura in caso di malattia o infortunio e  caratterizzate da discontinuità nella prestazione. La questione previdenziale è l’altra nota dolente di queste forme precarie di attività, mentre il tempo ridotto va ad impattare negativamente anche sugli altri istituti contrattuali.

L’attività del collocamento è ulteriormente privatizzata, con l’obiettivo di innescare una competizione tra soggetti pubblici e operatori privati. Nascono le Agenzie per il lavoro, le quali cureranno l’intermediazione, la ricerca, la selezione e la ricollocazione del personale. Queste agenzie potranno essere gestite da soggetti  pubblici e privati. Esse potranno effettuare anche l’attività di somministrazione del personale. La somministrazione è la nuova dizione del lavoro interinale che oltre al nome cambia anche la sua natura, in quanto la caratteristica temporanea (da cui prendeva il nome di lavoro temporaneo) viene stravolta, poiché ora il lavoro può essere somministrato anche a tempo indeterminato.

Ciò che Le OO. SS. si erano riservate nel Patto per L’Italia gli viene riconosciuto per intero nella possibilità di esercitare l’attività di Agenzia per il Lavoro.

Su alcune delle ormai 40 forme di contratto, sono introdotte addirittura delle penalità nei confronti dei lavoratori. Nasce l’obbligo di disponibilità e di intervento su chiamata, pena risarcimenti o citazione per danni da parte del datore di lavoro.

Il lavoro ripartito, conosciuto anche come job-sharing durante il periodo del centro-sinistra, è una tra le forme più brutte di impiego (per certi versi anche prossima all’incostituzionalità). Oltre al frazionamento del tempo, che conoscevamo fino ad ora, qui nasce una nuova tipologia, il frazionamento del posto di lavoro. Non si può parlare più di posti di lavoro ma di mezzi posti, poiché il lavoratore non detiene più un rapporto di lavoro, ma mezzo. L’altra metà è detenuta dall’altro lavoratore, con lui in solido coobbligato all’intera prestazione. Emerge il concetto di prestazione lavorativa, normalmente soggetta a ripartizione, ma che nei casi di assenza di uno dei due lavoratori il datore di lavoro può pretendere per intero dall’altro.

Essendo la prestazione ripartita, anche il salario del singolo lavoratore è conseguentemente più basso e tale riduzione, come fosse un’onda d’urto, si ripercuote sugli altri istituti contrattuali ed in futuro sulla sua pensione.

Per raffigurare in modo molto eloquente il lavoro ripartito basta ricordare i  due schiavi legati a catena. Ciò che accade all’uno si riversa sull’altro, l’indisponibilità non è ammessa per entrambi, pena la rescissione del contratto (cosa accade in caso di malattia?), se uno dei due recede anche l’altro perde il lavoro. Preoccupa  anche quello che può innescarsi per l’intreccio delle responsabilità. Se uno manca l’altro deve erogare l’intera prestazione ed il datore di lavoro la esige. Cosa accade nei casi di provvedimento disciplinare su un lavoratore?

Come dalle navi negriere, per sfuggire ai controlli, gli schiavi venivano buttati a mare e nessuno poteva salvarsi poiché, essendo tutti legati a catena, quando uno andava giù trascinava anche l’altro, così accade nel lavoro ripartito; se uno dei coobbligati cade va giù anche l’altro, se uno dei due si ammala o è assente, l’altro ne subisce le conseguenze (deve coprire l’intero turno). La stessa stabilità economica e le condizioni di vita di ciascuno dei due lavoratori  dipendono dalla sorte che investe l’altro. Così anche i tempi della propria vita vengono messi totalmente in subordine rispetto all’imperativo della coobbligazione. Il datore di lavoro invece ha tutti i vantaggi, la certezza di una prestazione lavorativa continua, che non teme malattie e assenze. In aggiunta ha in mano un potente strumento di ricatto verso entrambi i lavoratori.

Passiamo ad altro. Non si può certo qualificare come rivoluzione, quanto fatto per regolarizzare le Collaborazioni Coordinate e Continuative.

I CoCoCo vengono inquadrati entro progetti con durata anche pluriennale. Le garanzie sull’effettivo  carattere  autonomo della prestazione sono del tutto aleatorie, infatti, chi potrebbe sostenere seriamente che un lavoratore autonomo, alle condizioni (10) del CoCoCo, si sentirebbe di denunciare il “datore(11)” di lavoro (un lavoro a progetto di durata, addirittura, determinabile, definibile in corsa) con la minaccia sempre pendente di una chiusura del rapporto.

Accidentalità come la malattia o l’infortunio che a volte subiamo nella vita, per questo tipo di lavoratori possono essere causa di rescissione del rapporto, se costringono a più di 30 giorni di assenza. Il part-time è peggiorato poichè ora il datore di lavoro potrà chiedere/pretendere anche lavoro supplementare oltre  il regime orario concordato. Ma una tra le cose più riprovevoli (eticamente e sul piano dei diritti) è che la procedura di certificazione prevista nella Riforma Biagi contempla che il lavoratore possa pattuire con il suo datore di lavoro clausole di rinuncia a diritti contrattuali e ciò anche di fronte al sindacato (!!) che provvederà a convalidare l’accordo con la certificazione. Attribuendogli un valore legale superiore (!!!) a quello del Contratto Nazionale. La legislazione del lavoro precedente aveva evitato con molta forza ed efficacia che un lavoratore potesse trovarsi o essere messo nella condizione di dover barattare i suoi diritti, ritenuti inalienabili, e impediva anche al lavoratore di poterli barattare, rendendo nullo l’atto. Il superamento di questa soglia coincide con la legalizzazione della vessazione dell’individuo.  Dalla breccia aperta viene fuori un certo odore di schiavitù.

Nel caso poi dei lavori occasionali o accessori, il datore di lavoro può addirittura acquistare dal tabaccaio dei buoni o ticket per lavori domestici vari o altri piccoli lavori di durata massima pari ad un mese. Con questi paga il lavoratore, che può cambiarli a poco più di 5 euro l’uno.

Per ultimo voglio accennare allo staff leasing; è la modalità di lavoro somministrato peggiore in assoluto. Qui si assiste ad una ulteriore scissione del rapporto in due livelli, quello del rapporto tra l’agenzia di somministrazione e l’azienda che utilizza il lavoro - il rapporto commerciale tra le aziende - e quello relativo al contratto di inserimento del lavoratore. Un rapporto tra aziende a tempo determinato riguarda la definizione temporale del contratto tra le aziende, all’interno del quale il lavoratore può trovarsi con un contratto a chiamata, contratto di inserimento, part-time, ecc. La dizione di rapporto a tempo indeterminato significa che il tempo del contratto tra le aziende non ha una scadenza definita, ma può determinarsi e terminare sulla base di un preavviso. Il lavoratore non ha un rapporto di subordinazione con l’azienda che lo impiega nel lavoro, ma con l’azienda che lo affitta, quindi ogni rimostranza, anche sindacale, non riguarderebbe mai l’azienda utilizzatrice. Data la tipologia di rapporto, l’azienda utilizzatrice potrebbe avere un elevato numero di dipendenti (anche più di cento) ma nei conteggi essere considerata al disotto dei 15 dipendenti, quindi libera di licenziare senza incorrere nelle limitazioni dell’Art.18. Le centinaia di lavoratori affittati non sono visibili ai conteggi, sono fantasmi.

Come si può notare dopo la L. 276, praticamente il lavoratore è totalmente alla mercè dell’imprenditore e non solo, ora è lui stesso fonte di guadagno e oggetto di sfruttamento delle Agenzie per il Lavoro, quindi da parte dello stesso sindacato. Sono in molti ora a mangiare sulle sue spalle e a volerlo in quella condizione.

Basta guardare attentamente queste figure per comprendere quanto infondate o disoneste siano le dichiarazioni di chi afferma di fare tutto ciò per aiutare le nuove generazioni ed il mondo del lavoro. Nella realtà, quando non si tratta di persone incompetenti, si è di fronte ad individui senza alcuno scrupolo e per lo più molto male intenzionati.

Pensate solo alle condizioni di vita che questi “generosi benefattori” hanno riservato ai giovani e non. Per un precario le condizioni normali (non esose) di vita possibili a chi ha un lavoro stabile, sono precluse. Quale banca gli concederà un credito? Quale stabilità o certezza di reddito può esibire per poter accendere un mutuo? Qualsiasi progetto importante, necessario per quella vita che ciascuno di noi ha conosciuto da bambino nella propria famiglia,  è a lui precluso. Il ventaglio delle cose a lui possibili si restringe drammaticamente.  In aggiunta la precarietà della propria condizione di vita distrugge anche nella psiche la persona.

Molte delle forme di precarietà che ho esaminato sono un vero e proprio disastro dal punto di vista previdenziale. Se non si opererà un’inversione di tendenza, in vecchiaia molti dei nuovi lavoratori godranno una pensione da povero mentre altri rischieranno di trovarsi nella condizione di homeless.  Gli articoli che compaiono in questi giorni sui giornali e che raffigurano le condizioni future per molti giovani, parlano della necessità di ben oltre 100 anni di lavoro per maturare una pensione (nel caso di alcune delle attuali forme d’impiego). Sulle altre forme, quelle più decorose o che ancora poggiano su un impiego a tempo indeterminato, questi articoli mostrano come il sistema contributivo porti ad un abbassamento rilevante rispetto al retributivo.

Concludo semplicemente riproponendo un vecchio slogan, quanto mai valido ai nostri giorni: Ribellarsi è giusto.   Ma aggiungerei anche: … e non più rinviabile.

Roma 5 settembre 2004
Antonio Di Simone

NOTE

1.Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro.  
2. Tra cui Enti Bilaterali composti da associazioni di datori di lavoro (parte imprenditoriale) o di prestatori di lavoro (comparativamente più rappresentativi a livello nazionale, cioè CGIL,CISL,UIL)
3. Con un ruolo attivo della CGIL, del mondo extraconfederale ed un codismo sordo di CISL e UIL.
4. Ovviamente chi è di sinistra conosce bene i limiti e la natura dello Stato borghese, ma ciò non lo esime dal un dovere di sorveglianza o di intervento su quegli aspetti formali presenti in accordi, leggi o documenti fondanti come la Costituzione, sia in direzione di cambiamenti positivi, sia nel caso si producano effetti negativi per la collettività. Questo fa parte della battaglia politica che dobbiamo condurre.
5. Nel Patto per l’Italia è consentito alle Agenzie di lavoro Interinale e alle Organizzazioni Sindacali Firmatarie (in qualità di parti sociali) di svolgere tutte le tipologie di servizio al mercato del lavoro, (incontro tra domanda ed offerta, ri-collocazione, formazione, selezione, lavoro interinale, …), a determinate condizioni. Praticamente è superato il requisito dell’oggetto sociale esclusivo.
6. Nella nuova configurazione sarà difficile pensare a queste associazioni come ad un sindacato. Quali garanzie per un lavoratore, quando la sua instabilità lavorativa, la sua precarietà sarebbe più redditizia (sotto diversi aspetti, anche quelli di ruolo e funzione) per questi sindacati, della sua stabilità occupazionale.
7. I lavoratori temporanei e i parasubordinati.
8. A tempo indeterminato sia a part-time, sia a contratto F. L..
9. Tenendo conto che sia gli assunti in apprendistato, in contratto di Formazione Lavoro, gli Interinali, gli LSU, LPU, i lavoratori in contratto di reinserimento (dopo trattamento speciale di disoccupazione), i CoCoCo,…, praticamente data l’alta percentuale di lavoratori che si possono assumere con questi contratti, le aziende che rimangono al di sotto dei 15 dipendenti lo fanno per loro libera scelta e non per le limitazioni dell’Art 18.
10. Di sicurezza economica e stabilità di vita.
11. Essendo il rapporto qualificato come autonomo, formalmente non si può rappresentare il committente come un datore di lavoro. La realtà invece sostanzialmente si rappresenta in un rapporto subordinato, falsamente e a tutto vantaggio del datore di lavoro, trasfigurato come rapporto autonomo.

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