PRC: dopo Rimini costruire un progetto comunista

di Ferdinando Dubla

Il compagno Ferdinando Dubla , auore di questo contributo, è entrato a far parte della Redazione di Aginform

Il discreto successo dell’area leninista-gramsciana del PRC all’ultimo Congresso di Rimini (28,9% il risultato complessivo conseguito dalle posizioni ‘emendatarie’), pone alcune condizioni oggettivamente favorevoli alla ripresa, rilancio e sviluppo di un progetto comunista nel nostro paese. Naturalmente, al processo spontaneo di decantazione delle contraddizioni che l’imperialismo e il capitalismo impongono come realtà storica, deve affiancarsi un processo intenzionale di organizzazione (a livello politico-pratico e a livello teorico e di piattaforma ideale) dei comunisti italiani. E’ giunto il momento in cui quest’area deve tendere a superare sia la meritoria fase della resistenza (ogni resistenza, per non rimanere sterile deve trasformarsi in controffensiva strategica) sia l’autoreferenzialità politicista, che potrebbe rischiare di restringergli l’area di consenso nelle fila dello stesso partito o come potenziale polo aggregatore all’infuori di esso.

Il PRC, ma anche l’intera sinistra antagonista e di classe, è chiamata a rispondere oggi ad un dato (relativamente) nuovo dello scenario politico: la destra al governo mira tendenzialmente a svuotare le prerogative costituzionali della già fragile democrazia italiana e a configurarsi come regime dell’oligarchia capitalista che cerca di mobilitare in senso reazionario le masse popolari, accentuando sempre più gli strumenti di manipolazione ideologica in proprio possesso, nonché le forme di criminalizzazione del dissenso e dell’opposizione sociale (una neofascistizzazione, per richiamare un’espressione celebre del compianto compagno ‘Turi’ Toscano). Questa tendenza è destinata ad inasprirsi e ad aumentare via via che progredirà un conflitto di classe di natura organizzata e popolare (come quello dimostrato dalla CGIL il 23 marzo e il 16 aprile scorsi per la salvaguardia dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori). La scommessa della maggioranza del PRC, raccolta intorno a Bertinotti, è l’incidenza del ‘movimento dei movimenti’ nella platea sociale e politica, di modo che si concili e l’autonomia movimentista e la pressione sulle istituzioni con la finalità di strappare la conservazione delle conquiste (vedi la campagna dei referendum sociali) dall’offensiva padronale e reazionaria. Ma per ottenere questo, Bertinotti ha annunciato nella relazione d’apertura riminese i fondamenti con cui deve procedere la rifondazione: basta con il passato, cumulo fumante di macerie novecentesche, ma proiezione utopica verso un futuro dai contorni indistinti; l’immagine, ripresa più volte, anche nella replica finale, è l’angelo di Klee che guarda indietro alla catastrofe e non per questo rinuncia a spiccare il volo dispiegando le sue ali. Se non fosse per il piombo nelle ali. Questo piombo, ha affermato Bertinotti, è lo stalinismo. Dunque, la torsione movimentista ed economicista è resa funzionale con il massimo di deideologizzazione e di debolezza della prospettiva strategica: stalinismo in realtà sta per radici leniniste e finanche gramsciane per una formazione politica figlia della ‘modernizzazione’ che assume il comunismo solo come un bergsoniano élan vital al di fuori dell’esperienza storica concreta. Se non c’è da conquistare nessun palazzo d’inverno, in quanto secondo Bertinotti la rivendicazione di potere è un’obsolescenza della forma-partito del secolo scorso, esistendo poteri plurimi ed ubiqui da sfidare e/o condizionare, il soggetto della trasformazione rivoluzionaria non può non essere il movimento (questo particolare movimento, si badi, ‘movimento dei movimenti’, che viene assunto non come transeunte ma soggetto storico compiuto): ma se il movimento non rivendica il potere, ma si limita a sfidare la sua molteplicità diffusa, come si supera la società capitalista? Un principio, questo del superamento del capitalismo, a cui formalmente ancora non si rinuncia: a quello dell’imperialismo sì, ma inutili sono le argomentazioni della componente dell’"Ernesto" al riguardo, perché il dominio globale non è nemmeno un nuovo o super-imperialismo, è la ‘malvagità’ dei poteri mondiali del WTO, della Banca mondiale, del Fondo monetario che azzera i poteri nazionali, le sovranità dei popoli.

E allora quale socialismo? E’ il socialismo prescientifico, premarxiano, dunque utopico, irrealizzabile in quanto idealistico, il socialismo di Icaro.

La scientificità del marxismo pretende un altro linguaggio, e uno sviluppo della costituzione identitaria, che rimanda ad un altro paradigma (su cui ha scritto pagine significative H.H.Holz e su queste colonne il compagno Piermarini) e che oggi è rimosso dalla sinistra antagonista non comunista. Quel paradigma che porta a considerare, ad esempio, la lotta dei compagni marxisti-leninisti turchi in sciopero della fame contro l’imperialismo come una propria lotta, quella della guerra popolare in Nepal come il proprio fronte di lotta contro l’imperialismo. Il socialismo di Icaro viene invece dal ventre dell’occidente, da un’aristocrazia intellettualistica che si vuole erede dei francofortesi senza averne la capacità ermeneutica (pur discutibile) e che comunque non conosce o finge di non vedere gli scarponi fangosi nelle montagne nepalesi e si diletta per i ‘crinali’ di una storia che le élites amano sempre disegnare per i popoli.

Nonostante questo, i motivi per un impegno serrato all’interno del PRC di militanti e quadri che si richiamano al marxismo-leninismo, rimangono innumerevoli. Il PRC occupa oggi uno spazio politico, visibile e storicamente affermato, della sinistra antagonista e alternativa e connotata in senso comunista. Il come lo occupa e con quali prospettive strategiche, non può essere dibattito circoscritto alla sola battaglia congressuale [1]. Porre attenzione seria alla costruzione di un fronte unito contro le destre senza rinunciare ad una prospettiva strategica, la costruzione del processo rivoluzionario in direzione del socialismo: il primato politico senza organizzazione, il tatticismo non possono prevalere sul respiro strategico di una battaglia che, altrimenti, rimarrebbe fine a se stessa e scollegata alla strategia. I pilastri su cui deve fondarsi l’azione politica del PRC devono essere riempiti di contenuti: cioè da una tattica legata ad una più complessiva finalità strategica; ad un progetto sociale ampio che sostanzi gli obiettivi immediati e intermedi; da un’analisi storica e un bilancio critico dell’esperienza del ‘900 del movimento comunista internazionale, compreso il cosiddetto ‘togliattismo’ post-’56, certo mai nelle forme del ripudio e della liquidazione.

Bisogna riconoscere che la scarsa attenzione per la formazione dei quadri, per intessere quel reticolo fitto di materiali, riviste, seminari, strumenti, case editrici, ecc.., che solo può motivare oggi all’agire politico in una formazione comunista, è uno dei limiti più gravi ed evidenti del PRC. E’ così che si spiega l’impressionante turn-over nel tesseramento: e non solo. E’ così che si spiega l’inattività passiva in molti circoli. I giovani vengono affascinati dall’ideale comunista: possono allontanarsi dall’impegno politico quando non capiscono più il nesso fra il quotidiano, il contingente e i valori, le idee della prospettiva socialista. E ugualmente avviene tra i movimenti: il "popolo di Seattle e Genova" è mosso da un istinto anticapitalista e da una resistenza fisiologica ai processi della globalizzazione liberista.[2] Ma il movimento non ha e non avrà sbocchi senza la guida della classe operaia, del proletariato vecchio e nuovo e del partito comunista che deve rappresentarne gli interessi di potere e non solo di rivendicazione.

Occupare uno spazio politico non è assolutamente sufficiente per dare impulso espansivo al progetto rifondativo; lo è purtroppo solo per l’autoreferenzialità del ceto politico professionalizzatosi nelle istituzioni o nei gangli della forma-partito. Ciò è alla base di un’eccessiva litigiosità nei e tra i gruppi dirigenti, di base, intermedi e di vertice, che molte e troppe volte assumono forme pre-politiche e/o individualistiche e di carriera (gli ‘antistalinisti’ sono al lavoro soprattutto in questo senso, come dimostrano i casi eclatanti delle Federazioni di Milano e Treviso, tanto per fare qualche esempio). Inoltre, l’episodio di Cuneo alle ultime amministrative (lì Rifondazione si è ‘sciolta’ effettivamente per dar vita a una lista di ‘Sinistra alternativa’) dimostra come sia in pericolo l’autonomia stessa di un’organizzazione comunista e pone quesiti non irrilevanti su dove può portare la considerazione della centralità politica di questo movimento e il suo rapporto con le istituzioni rappresentative. Il gruppo dirigente del PRC è stretto da contraddizioni che si sono palesate anche nel dibattito congressuale, ma che non hanno avuto il peso specifico che invece possiedono: la radicalità movimentista e il rivendicazionismo economicista si scontrano con un quadro politico che richiedono una serrata dialettica con il centro-sinistra e un esito efficace della stessa azione politica. Nel contempo, l’anticapitalismo non proclamato solo a parole richiede un’accentuazione anti-sistema, pena la perdita stessa dei consensi anche in pura chiave elettoralistica, terreno privilegiato dell’azione dei quadri intermedi, nonostante le dichiarazioni di principio all’incontrario. Questi nodi contraddittori non possono essere, non diciamo risolti, ma neanche affrontati, con le fughe oniriche o anche con semplici contrappesi realistici alle stesse.

Il lavoro politico da svolgere è davvero notevole: ed è un lavoro che va svolto nella temperie della lotta, in campo aperto. Nessuna scorciatoia è possibile, noi lo sappiamo: i processi storici non si decidono a tavolino o si saltano con i sillogismi della logica formale; gli strumenti della dialettica materialistica ci consentono di comprendere che una necessità oggettiva (un partito comunista di quadri e di massa, popolare e con qualità d’avanguardia, che sappia trarre linfa vitale dalla propria storia rifuggendo il revisionismo storico e politico congiunti) deve inverarsi in una soggettività storica creatrice che è figlia della fase storico-politica. Come scrisse Mao, è in definitiva sempre il soggettivo che crea l’oggettivo. E ciò naturalmente aumenta, non diminuisce le responsabilità dei comunisti.


[1] Se è vero quello che il compagno Grassi ha dichiarato in un’intervista a L’ernesto: nel Congresso "la partita era tra una lettura fondata dei conflitti, della fase e delle prospettive, e una lettura ispirata, più che dalla conoscenza dei fatti, da ipotesi ideologiche non scevre da propensioni avventuriste". Le quali hanno comunque ottenuto la maggioranza relativa, cfr. L’Ernesto nr.2/2002, pag.4

[2] Diviso in almeno due grandi anime, come ha ben scritto A.Burgio nella Rivista del Manifesto di giugno 2002, che ha avuto buon gioco nel confutare l’analisi contenuta nell’articolo di M.Hardt dal titolo Today’s Bandung? sul nr. 14 (marzo-aprile 2002) della "New Left Review" secondo il quale è maggioranza non computabile nel movimento una posizione anticapitalista avversa alla sovranità nazionale e favorevole a una globalizzazione alternativa, rispetto a un’altra anti-liberista, favorevole alla sovranità degli Stati nazionali e avversa alla globalizzazione. Schemi notevolmente astratti di chi ha perso la bussola della categoria dell’imperialismo.

Ferdinando Dubla

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