L'Occidente si è fermato a Bagdad

Si comprende la delusione di milioni di persone che in modo straordinario hanno partecipato anche in Italia al grande movimento contro la nuova guerra in Iraq. Stavolta si sperava che le divisioni nello schieramento occidentale, l’impossibilità di usare la copertura ONU per la nuova aggressione, la netta condanna del Vaticano avrebbero avuto la meglio sulla decisione americana di attaccare. Così non è stato e quindi si pone il problema di analizzare i risultati di questa guerra e, di fronte al disorientamento causato anche dalla incapacità della leadership pacifista, trarne le dovute conseguenze. Nell’articolo di apertura di questo numero di Aginform affrontiamo un fattore essenziale della nuova fase imperialista, il rapporto tra questa e la questione dell’organizzazione. Qui ci occupiamo invece di analizzare il risultato e le prospettive dell’intervento americano in Iraq.

Ci poniamo subito una domanda: sono giustificate la delusione o il pessimismo sull’esito dello scontro? In un primo tempo si era sperato che un impantanamento delle truppe anglo-americane avrebbe potuto incrinare la decisione alla guerra infinita, in modo da mettere in forse lo scatenamento di nuove Blitz-Kriege e che la resistenza degli iracheni potesse dimostrare che la invincible armada statunitense poteva essere contrastata, determinando un’inversione di tendenza.

Dobbiamo ammettere che sul piano militare così non è stato. Militarmente le truppe irachene sono state sgominate, anche se non si è ancora in grado di capire se dall’interno della struttura militare stessa ci siano stati fattori che ne hanno accelerato la disgregazione. Tuttavia, è irrealistico pensare, sul piano strettamente militare, che un esercito del tipo di quello iracheno potesse resistere ad una offensiva basata su mezzi che sono in grado di colpire, senza subire danni sostanziali, tutti gli obiettivi possibili e di neutralizzare le infrastrutture di comando. La storia si è ripetuta già quattro volte con la sequenza Iraq - Jugoslavia - Afghanistan - di nuovo Iraq. In ciascuna di queste guerre ci si è posto il problema di come si può vincere lo scontro contro gli aggressori americani. La conclusione è stata che, realisticamente non ci si può aspettare che eserciti del tipo di quello iracheno o jugoslavo, privi della tecnologia necessaria, possano vincere in una guerra convenzionale contro gli americani. Bisognerà quindi aprire una riflessione su come, in termini militari si può affrontare il potenziale bellico americano e quali sono le tattiche da affrontare.

La strada maestra è indubbio che rimane ancora la guerra popolare antimperialista. Ed essa va teorizzata, sostenuta e considerata come asse strategico del movimento comunista in tutta l’area investita dall’intervento imperialista, rovesciando il concetto di terrorismo e presentandolo come resistenza popolare e nazionale. La nascita e lo sviluppo delle organizzazioni fondamentaliste è stata una risposta a questa necessità basata, però, sull’elemento religioso, sugli equivoci delle forzature islamiste e sulla prospettiva di instaurazione di regimi nazionalisti a base teocratica. Una risposta, dunque, inadeguata e piena di contraddizioni, ma che nelle presenti circostanze storiche rimane l’unico dato di fatto e chiunque voglia modificare i caratteri politici e ideologici dello scontro, deve misurarsi con la dinamica islamista che ha assunto i caratteri di guerra basata sul consenso popolare e saperne superare la potenzialità e la presa politica. All’orizzonte non si intravede chi possa togliere ai fondamentalisti la leadership. La bandiera della guerra antimperialista è in questa fase nelle loro mani. L’esito militare si misurerà dunque non sulla disfatta di un esercito impossibilitato a resistere in una guerra campale con un aggressore infinitamente più potente, ma sul grado di resistenza popolare e nazionale.

Nel frattempo, però, la prima grande sconfitta gli Usa e i loro lacchè inglesi l’hanno dovuta subire sul piano politico. Se la guerra è la continuazione della politica, ebbene il presupposto di una guerra di liberazione del popolo iracheno con le armi americane e inglesi è miseramente fallito. E non solo in riferimento alla questione delle famigerate armi di distruzione di massa, ancora non trovate, bensì alla impossibilità angloamericana di trasformare la vittoria militare in una marcia trionfale per la ‘democrazia’ occidentale. Possiamo ben dire che l’occidente, cioè la sua illusione di americanizzare i popoli sottomessi, si è fermato a Baghdad, come Cristo si fermò ad Eboli.

Il reclutamento di mercenari autoctoni al servizio degli Usa e la visione di scene televisive manipolate su eccidi e sevizie, non possono compensare il quadro dei genocidi e l’odio delle popolazioni contro le truppe imperialiste di occupazione. Gli americani e gli inglesi sono risultati non liberatori, ma nuovi colonizzatori e predatori di risorse. La valenza di questo dato è duplice: da una parte è foriera di un aumento della resistenza popolare e nazionale dei popoli colonizzati, dall’altra rende possibile l’isolamento di coloro che hanno scatenato la guerra contro l’Iraq, risultando evidente che si tratta di aggressione e di rapina e non di guerre umanitarie e per la democrazia. Dunque, quello che doveva essere un riassetto degli equilibri medio orientali sul modello dell’occidente non si è realizzato. Al contrario, si intravedono, come Riad e Casablanca insegnano, le nubi di una guerra antimperialista prolungata e non di un rafforzamento politico del blocco imperialista.

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