Comunisti: punto e a capo?

Quello che colpisce delle ultime vicende del PRC è che esse sono destinate a chiudere una fase politica che pur con tutte le ambiguità aveva permesso di mantenere aperto un discorso sui comunisti in Italia dopo la trasformazione del PCI in un partito liberaldemocratico.

E’ vero che per molti anni è rimasto aperto il discorso sull’asse strategico che questo partito avrebbe dovuto imboccare e quindi, sin dall’inizio, era insita una battaglia sulle opzioni, però la situazione si presentava aperta. Le accelerazioni bertinottiane contro la storia del novecento, cioè contro il secolo caratterizzato dalla grande espansione del movimento comunista, associate al revisionismo storico sulla violenza e alla rivoluzione concepita come riforma etica, hanno posto la parola fine ad ogni identità comunista del PRC.

Ora i comunisti della diaspora si trovano di fronte non più ad un crogiuolo di identità comuniste che vivono nello stesso partito, ma ad un partito che si è definito sul piano anticomunista nella accezione sostanziale che si può dare di questo termine. Il fatto che il PRC parli di pace, di difesa dei salari, di movimenti, non può trarci in inganno, dal momento che un partito di sinistra può essere anticomunista allo stesso tempo. Basti guardare alla storia della socialdemocrazia europea per avere esempi in questo senso.

La novità sta dunque nel fatto che sul terreno della rifondazione è spuntato un partito con connotazioni opposte a quelle che sarebbero dovute essere le premesse. Ogni concessione all’idea che il PRC possa garantire un avvenire per i comunisti e per una politica comunista in Italia deve essere quindi evitata e bisogna porsi di fronte a questo partito in completa autonomia, considerandolo per quello che realmente è, un partito di sinistra, ma anticomunista.

A modificare questo giudizio non serve ricorrere all’analisi delle contraddizioni interne e delle componenti che, in un modo o nell’altro, si sono opposte alla deriva bertinottiana. Sulla posizione della minoranza trotskista, per quanto ci può riguardare, non possiamo che constatare la diversità di vedute, oltre alla valutazione di come essa sia politicamente inefficace e ideologicamente ossificata. Ma qual’è il giudizio che si può esprimere sul settore del PRC collegato alla rivista l’Ernesto’? E’ da questa componente che ci si aspettava una capacità di risposta adeguata alla gravità della svolta anticomunista di Bertinotti. Invece si è avuta la solita prudente posizione tattica di chi parla a nuora perchè suocera intenda, senza esplicitare i contenuti di una alternativa comunista al bertinotti-pensiero.

Un atteggiamento di questo genere non è solo dovuto ad opportunismo o calcolo sbagliato. Ovvero, una dose di opportunismo che spinge il cosidetto ceto politico a stare sempre in ‘gioco’, come si dice, è abbastanza presente in questo settore del PRC. Questo spiega le paradossali convergenze tra maggioranza bertinottiana e sostenitori dell’Ernesto e l’ossessivo richiamo di questo gruppo a sentirsi maggioranza anche se il giuoco risultava scoperto e poco credibile. Anche se si volesse fare la tara al cinismo da ceto politico, nel caso migliore i sostenitori del gruppo che fa capo all’Ernesto ingenuamente non hanno valutato la spregiudicatezza della maggioranza bertinottiana che non ha fatto nessuna concessione di sostanza e ha dominato e continua a controllare le prospettive del partito decidendo su tutto. Anche Bertinotti ha accettato la finzione della gestione unitaria, ma usandola per decidere a vantaggio della vera maggioranza. La tattica non ha dunque pagato ma, soprattutto, ha impedito che si andasse a contrastare nel corpo del partito e in una maniera politicamente e teoricamente chiara l’ondata anticomunista che si è sprigionata dalle posizioni di Bertinotti.

La riflessione su questo aspetto della vicenda PRC ci porta non tanto ad evidenziare tatticismi e furbizie da ceto politico, quanto a constatare che la rinuncia ad una battaglia sostanziale è dovuta a questioni di indirizzo teorico e politico del gruppo che fa capo all’Ernesto. Difatti, gli ultimi avvenimenti del PRC hanno non solo messo in luce l’anticomunismo di Bertinotti e la natura di questo partito, ma hanno anche chiarito che all’interno di esso non esiste una posizione teorica e politica che può essere organicamente riferita ai comunisti. Anche su questo bisogna avere le idee chiare.

Certamente anche qui si tratta di prendere atto che esiste un dissenso organizzato che però, a nostro parere, non raggiunge il livello di una alternativa strategica di tipo comunista. Si tratta, in buona sostanza, di una posizione piena di se e di ma che ricalca quel terzaforzismo di matrice PCI che è uso traformare la tattica in strategia. Si respinge il giudizio bertinottiano sul novecento, ma non si dice esplicitamente che il novecento da difendere è la rivoluzione d’ottobre, il leninismo, l’URSS di Stalin e dell’internazionale comunista, la lotta rivoluzionaria contro l’imperialismo. Tutto si riduce ad una ideologia resistenziale che ben poco ha a che fare con i comunisti e molto di più con i loro epigoni tardotogliattiani. Il convegno di Milano su potere, violenza, resistenza è stato la massima espressione di questo modo di pensare.

Dunque dobbiamo ritornare all’interrogativo iniziale, comunisti punto e daccapo? Nell’evitare di cadere in pessimismi di tipo cosmico o di ritornare alla solita e sterile posizione di chi gufescamente ha sempre sostenuto che sul PRC aveva sempre avuto idee chiare, ci confortano due dati che sono stati sempre presenti nel discorso di Aginform. Il primo di questi dati sta nella posizione che abbiamo sempre espresso sul carattere preparatorio del lavoro comunista da svolgere. Quindi non ci siamo mai fatti travolgere dall’idea di poter realizzare, come si dice, qui e subito, un progetto organizzativo di tipo comunista. I fatti del PRC ci hanno semmai confermato che il nostro pessimismo aveva ragioni oggettive. Una seconda questione che scaturisce dalla situazione e su cui Aginform ha sempre insistito è che per costruire una prospettiva per i comunisti fosse essenziale coagulare un dibattito che avesse punti di riferimento certi, sul piano teorico e politico. Può darsi che questo sia apparso come un modo ‘settario’ di affrontare la situazione, ma come ci si può definire comunisti senza definirne l’identità?

A nostro parere oggi più che mai occorre che coloro che ritengono di avere una posizione comunista abbiano il coraggio e la capacità di sviluppare la loro unità e la loro autonomia di pensiero. Invece di coltivare orticelli e esaltare protagonismi che non incidono sulla realtà.

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