Isolarsi o integrarsi?

Il richiamo che ci viene fatto da più parti al senso della Realpolitik pone necessariamente questioni che vanno analizzate e discusse a fondo. In questo senso l’intervista del compagno Bronzi è un richiamo ad affrontare l’argomento. Rispetto al quale ci siamo già imbattuti nelle ultime elezioni europee. Votare o non votare e soprattutto per chi votare? L’orientamento che abbiamo seguito è stato, ovviamente, di andare a votare contro Berlusconi, valutando come obiettivo prioritario quello di sconfiggerlo sul terreno elettorale. E ci sembra che il risultato ottenuto ha dimostrato la validità di questa scelta. La chimera astensionista avrebbe sicuramente aiutato Berlusconi e il pericolo che egli rappresenta non può essere sottovalutato, nè giocato sul terreno di una fraseologia ‘rivoluzionaria’ che non presenta concrete alternative. La coscienza, dunque, di questa necessità ci è ben presente. Naturalmente la scelta di voto è stata collocata laddove presentava meno rischi di rafforzamento delle tendenze moderate, ma anche senza illusioni sul valore ‘comunista’ del voto... Votare contro Berlusconi, quindi, non significa, automaticamente, accettare di inserirsi nella dialettica parlamentare dei partiti del centro sinistra. Insomma non è un voto per, ma un voto di resistenza. Ma come si passa dalla resistenza al progetto comunista?

Alcuni compagni propendono a credere che questo passaggio debba essere realizzato all’interno di ciò che attualmente esiste a livello di partiti comunisti e definiscono sbagliato e illusorio mettersi sulla strada dello splendido isolamento e autoproclamarsi comunisti al di fuori di queste realtà consolidate. Esiste, certamente, un problema di legami con quella massa di compagni che militano nei partiti che si definiscono comunisti. Ma illudersi che questo sia una soluzione è profondamente sbagliato. Immaginare che la questioni si limiti a ‘contaminare’ l’attuale corpo militante dei partiti che si definiscono comunisti è una semplificazione che non fa i conti con la situazione oggettiva. La prevalenza al loro interno di un ceto politico istituzionale per vocazione impedisce di impostare un discorso serio di alternativa. I compagni provino ad immaginare che effetto farebbe un discorso sull’organizzazione leninista e su comportamenti coerenti a questo riferimento. Se prendiamo come esempio la storia del gruppo che fa capo alla rivista l’Ernesto, constateremo che, per evitare la completa emarginazione, esso è costretto a contorsioni tattiche che ne liquidano la possibilità di incidere nella formazione di un nucleo comunista con un solido orientamento strategico. Ora si affaccia alla ribalta, dopo le grandi svolte anticomuniste bertinottiane, il PdCI, il quale si è caratterizzato, negli ultimi tempi, per una serie di coraggiose prese di posizione di politica internazionale. Già questo ha procurato al partito di Cossutta qualche guaio e ha permesso la costituzione di un solido asse DS-PRC contro il PdCI. Utilizzato da D’Alema all’epoca del suo governo con Cossiga e Mastella, questo partito, appena ha accennato a liberarsi di questa eredità ha trovato una pronta reazione degli ulivisti. A nostro parere, ai compagni deve essere chiaro, prima di tutto, il fatto che non ci si può nascondere dietro un dito e che occorre fare i conti con due incompatibilità che il sistema dei partiti, compreso il centro-sinistra, ha introdotto.

La prima di queste incompatibilità è l’eredità comunista. Chi ne ripropone i contenuti è un fuorilegge, uno stalinista, che non solo non può stare nei ‘moderni’ partiti comunisti e di sinistra, ma non può neppure rientrare in un sistema di alleanze parlamentari di centro-sinistra. Quindi c’è una sorta di muro invalicabile contro cui i comunisti vanno a cozzare ed è inutile illudersi di passare inosservati.

A questo si deve aggiungere la questione del ceto politico e dei cosiddetti movimenti. La loro egemonia nell’arena politica è incontestabile e, avendone anche fatto più volte le spese, ci rendiamo conto che non è possibile contrastarli e anche questo è un fattore oggettivo, una rappresentatività sociale nella politica che può essere battuta solo da una espressione di classe radicale che imponga di nuovo all’ordine del giorno la lotta rivoluzionaria e di potere. Come è evidente, questa cosa in Italia non esiste e il fallimento, nel passato, di espressione di radicalismo ‘proletario’ miseramente fallite, ne è la conferma. Si tratta perciò, per i comunisti di ragionare seriamente su queste cose e - evitando Realpolitik senza strategia, oppure protagonismi culturali che non modificano i rapporti di forza - di trovare il bandolo della matassa. Rammentando che senza una teoria che indaghi sulla natura delle contraddizioni e su come organizzarle politicamente si rimane inchiodati dentro una logica istituzionale borghese e si perde il senso della prospettiva.

Ma allora bisogna vivere in uno splendido isolamento? Nientaffatto: come le elezioni dimostrano i comunisti possono e devono partecipare a eventi politici, elettorali e di classe che sono utili a modificare i rapporti di forza e vincere battaglie su punti programmatici di massa. Però i comunisti devono combattere con il loro strumento, il partito dei comunisti.

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