La lezione del 9 aprile

Lettera aperta ai compagni e collaboratori di Aginform

Sollecitati anche dalle conversazioni avute con alcuni collaboratori, riteniamo necessario, arrivati a questo punto della nostra esperienza, definire il nostro punto di vista sulle possibili prospettive del nostro foglio.

La questione ci è posta, in primo luogo, dalla situazione  determinatasi dopo il voto del 9 aprile. Su un piano politico generale, questa situazione ci dice due cose e cioè, in primo luogo, che la nostra valutazione sul pericolo di destra esce rafforzata dall’esito elettorale e, in secondo luogo, che l’ipotesi di governo del centro-sinistra si conferma una vittoria dei moderati e la questione centrale rimane lo squagliamento della sinistra dopo il voto, cioè la sua totale bancarotta. Se pure ce ne fosse stato bisogno, basterebbe l’ammucchiata sui caduti di Nassirya e il balletto sulle poltrone istituzionali a chiarire ulteriormente le cose.

Gli accaniti astensionisti ci diranno “noi l’abbiamo detto che votare Prodi non cambiava nulla”. A costoro è stata data una risposta dagli stessi risultati del 9 aprile che hanno dimostrato che Berlusconi non è una tigre di carta, ma un blocco reazionario con radici profonde nella società italiana. Sottovalutare questo fatto e non porsi problemi tattici vuol dire, a nostro parere, confermarsi come inguaribili gruppettari che non hanno assolutamente in testa come muoversi nella situazione presente e coprono il loro vuoto sul che fare con un inerte radicalismo. L’astensionismo non può essere disgiunto dalla prospettiva politica.

Nel valutare l’opportunità di un voto al centro sinistra, al tempo stesso, abbiamo però ribadito a quei compagni  che la questione essenziale non è votare e lamentarsi, ma inserirsi nella situazione con un ruolo preciso, assumersi cioè la responsabilità di un agire politico che costituisca un riferimento per tutti i compagni e le compagne. A noi sembra che questa necessità esca rafforzata proprio da ciò che è avvenuto all’indomani del voto.

Se prima pensavamo che la questione del voto non poteva essere separata dalla costruzione di un’alternativa politica, ora pensiamo che questa alternativa è posta in modo oggettivo. L’antibertinottismo passa dai discorsi alla prospettiva politica.

Ci riferiamo non solamente alla parabola governista del PRC, ma anche alla vergognosa, (e prevedibile anche da parte dei compagni  che fingevano di crederci) bancarotta dell’ Ernesto e dei disobbedienti confluiti in liste a sostegno di Veltroni.

Questo vuol dire che il centro sinistra funzionerà a scatole cinesi che comprendono, oltre al  gruppo egemone DS-Margherita, tutti quei ‘radicali’ che ne devono assicurare l’estensione dell’egemonia a sinistra. Vuol dire anche che nel vuoto politico che si è creato a sinistra bisogna mettersi in testa di lavorarci seriamente, abbandonando il modo tipico di reagire ‘a sinistra’ fatto di autoproclamazioni partitiche, di movimentismo, di obiettivi fasulli nel tentativo di condizionare i grandi manovratori politici.

Il ragionamento che abbiamo fatto alla vigilia del voto rimane dunque valido e  non può che diventare, necessariamente, proposta politica .

Dobbiamo solo specificare che per proposta politica non intendiamo una specifica nostra proposta politica, quanto un progetto di lavoro che questa proposta contribuisca a farla scaturire  dalla situazione che si è determinata. Se non vogliamo ricadere nelle autoproclamazioni che non fanno fare passi avanti alla situazione.

Intanto, come si è detto, bisogna ragionare  sui dati oggettivi: il pericolo della destra e la politica del futuro governo Prodi.

Sulla tenuta di Berlusconi e del blocco della CDL, al contrario di molti radikalen, non sottovalutiamo ciò che ha rappresentato e soprattutto ciò che in futuro può rappresentare. Come è stato più volte ripetuto, e da più parti, le indicazioni di voto e l’alta affluenza alle urne ci dicono che le tendenze reazionarie, anticomuniste, fascistoidi, razziste e cattolico- integraliste hanno superato la tradizionale area moderata ereditata dai governi  a guida democristiana e sono divenute un magma dal quale può fuoriuscire una soluzione di governo forte della borghesia più reazionaria collegata alla politica imperialista degli americani e dei sionisti.

Questa realtà ci induce a capire meglio quali sono i rapporti di forza e quali soluzioni tattiche adottare, compresa la questione elettorale che ha senso solo in questo contesto e senza enfasi alternativista.

In rapporto ancora a questa situazione, è evidente che è una illusione, dal punto di vista strategico, pensare che il centro-sinistra possa essere un punto di appoggio per noi. Sia perché la sua politica, tutta interna al quadro imperialista mondiale e alle politiche liberiste e UE, apre una fase di scontro a cui dobbiamo prepararci, sia anche perché, proprio in rapporto alla destra, l’attuale centro-sinistra si presenta debole, e non tanto per il minimo scarto di voti, quanto proprio per la tendenza liberaldemocratica e ‘occidentalista’ che l’Unione esprime, come già i governi Prodi e D’Alema a suo tempo.

L’azzeramento della sinistra col voto del 9 aprile, (pensavamo che piovesse e non che diluviasse), corrisponde a un ulteriore spostamento a destra che si aggiunge ai risultati della CDL?

Noi non pensiamo che sia questa la conclusione da trarne, al contrario. L’integrazione della falsa sinistra autodefinitasi antagonista o ‘comunista’ nel sistema di governo del centro-sinistra non corrisponde affatto al disagio e alla disapprovazione che settori non marginali  della sinistra provano nei confronti del programma dell’Unione e anche verso i partiti ‘radicali’.

Questo però è un dato oggettivo che cozza contro la situazione soggettiva che non fornisce elementi di ottimismo. E’ vero che un settore trotskista di rifondazione si appresta a diventare ‘partito’, ma riteniamo che questa soluzione tutta politicista non abbia le basi per reggere un progetto così impegnativo. In fondo i trotskisti  ripetono il solito ruolo di sinistri dogmatici in vista di future capriole istituzionali. Ai gauchismi bisogna ricordare che i partiti non si inventano, ma sono espressione di tendenze reali e, a nostro parere, le tendenze che si sono espresse in questi ultimi anni non sono andate aldilà del movimentismo post sessantottino e del corporativismo di sinistra. Su questa realtà non si può impiantare un partito dei comunisti.

In altri termini la situazione, a nostro parere, non ha espresso a livello strutturale un’esigenza di riorganizzazione a sinistra che fosse paragonabile ai processi che hanno attraversato il corpo reazionario dell’Italia. Ciò spiega i contorcimenti, i pentimenti, gli ingressi istituzionali dei radikalen e quindi la vittoria della socialdemocrazia che ha di fatto egemonizzato le tendenze alternative prive di asse strategico.

La situazione sembrerebbe senza via d’uscita. Nei precedenti 54 numeri del nostro foglio, che coprono un arco di sei anni, abbiamo sempre ribadito la necessità che si creasse in Italia un riferimento comunista che, nella tradizione storica inaugurata da Lenin e dalla terza internazionale, portasse una posizione chiara nel dibattito storico-teorico e nelle scelte politiche da fare.

Su questo tracciato, in una situazione difficilissima, abbiamo resistito, dovendoci confrontare con le aree ‘comuniste’ che andavano per la maggiore e in particolare con la corrente ernestina del PRC. Diciamo pure che, in questo senso, la battaglia l’abbiamo vinta, dato l’epilogo governista del gruppo di Grassi e la scelta filosionista e veltroniana dei radikalen disobbedienti.

Ma bisogna ammettere che, se abbiamo vinto una battaglia di coerenza e di lungimiranza, rischiamo di perdere la guerra, in quanto non siamo riusciti a crare un punto di riferimento solido che contrastasse le tendenze negative. A chi è attribuibile la responsabilità di questo insuccesso? Ai nostri limiti o ai limiti della situazione?

Francamente dobbiamo ammettere che i nostri limiti erano evidenti fin dalla partenza. Noi non siamo nati come un gruppo politicamente formato, seppure piccolo, che dava battaglia su tutte le principali questioni. Noi abbiamo rappresentato un foglio di corrispondenza che evidenziava il punto di vista di compagni che potevano stare in una stessa area politica in quanto a giudizi sulla storia del movimento comunista, sull’autonomia politica dalla sinistra istituzionale, sul rifiuto di logiche gruppettare, sull’individuazione della strategia di guerra dell’imperialismo e l’esaltazione della lotta antimperialista. Non abbiamo avuto la forza e la possibilità di andare oltre.

Diventa quindi evidente che, di fronte alla nuova situazione, ripetere non giova, ma bisogna andare a verifiche definitive. Se riteniamo che si sia creata una situazione oggettiva che rende necessaria una proposta, dobbiamo saperla elaborare.

La prima verifica la vogliamo fare coi compagni che ci hanno sostenuto finora e che hanno anche scritto su Aginform ai quali poniamo esplicitamente la questione. Serve ancora o non serve il nostro foglio di corrispondenza? Oppure dobbiamo e possiamo andare oltre?

Ad essi poniamo anche una condizione rispetto  alla risposta che (speriamo) ci perverrà. Siete o non siete disponibili ad uscire dalla ‘corrispondenza’ e creare uno strumento collettivo di battaglia politica che esca dall’opinionismo e diventi militanza? Ci sono le condizione minime per fare questo?

A scanso di equivoci, quando parliamo di strumento collettivo di battaglia politica dobbiamo precisare che non ci interessa che qualcuno sia d’accordo con noi su qualche cosa. Intendiamo dire che ravvisiamo la necessità che le posizioni espresse si trasformino in azione politica organizzata, ribadendo il concetto - per parafrasare Mao - che “chi non fa l’inchiesta non ha diritto di parola”. In altri termini: non abbiamo bisogno di soli articoli, ma di lavoro politico e sottolineiamo che, se siamo usciti (quasi) regolarmente per 55 numeri qualcuno ha pur dovuto lavorare, ma questa responsabilità non è stata collettiva. Abbiamo accettato questa condizione pur di aprire un varco. Ora questa responsabilità dovrebbe diventare collettiva per rappresentare un passo in avanti, oppure non ha più senso, nella nuova situazione, ripetere solo discorsi.

Abbiamo premesso queste considerazioni, per così dire metodologiche, per evitare che dei ragionamenti giusti cadano in un tessuto ‘opinionista’ che non fa certamente avanzare la situazione. Non ci basta che ci si definisca leninisti o stalinisti nel senso retorico, ma nel valore rivoluzionario che queste posizioni hanno nella lotta quotidiana contro il capitalismo e l’imperialismo.

Se l’analisi, sia pur sintetica, che abbiamo fatto all’inizio sulla bancarotta della ‘Rifondazione’ comunista e dell’arcipelago alternativo che ne è il corollario, sul ruolo del governo Prodi e sul pericolo di destra è corretta, su quale linea di condotta può crescere un’organizzazione di comunisti che non sia la ripetizione della retorica emmellista? Come si può passare dall’opininismo comunista a un livello di organizzazione dei comunisti?

E qui ci troviamo di fronte al solito dilemma dell’uovo e della gallina. Agli emmellisti la questione importa poco perchè, bonta loro, come ripetiamo spesso, si autodefiniscono  e vanno avanti per decenni. Da soli.

Per noi la questione è diversa perché per crescere effettivamente riteniamo necessario individuare i fondamenti oggettivi di un progetto e la loro dialettica coi processi organizzativi.

Il  primo di questi fondamenti è sì la sedimentazione ‘storica’ di un gruppo comunista che sulla base di un’analisi corretta della situazione inizia un percorso strategico  e che sia cosciente delle questioni poste dalla presente epoca storica caratterizzata dalla controrivoluzione e dal rilancio dell’aggressività imperialista, ma senza proposta politica corretta non si può sciogliere il nodo della prospettiva.

Premettiamo che, a nostro parere, la necessità ‘storica’ dell’organizzazione comunista (non di una qualsiasi organizzazione) non può essere facilmente e illusoriamente perseguita in una condizione che, come Massimo Piermarini ci ricorda in una nota che pubblichiamo in questo numero, è quella di paese imperialista. Una condizione che produce una falsa coscienza non solo tra i movimentisti radikalen, ma anche nei settori che si considerano comunisti per un puro ragionamento storico ideologico. Difatti ciò che resta di ‘comunista’ in occidente si dibatte tra il parlamentarismo e la chiusura ideologica, non riuscendo a entrare effettivamente nei veri processi di trasformazione mondiali.

Da questo punto di vista Aginform ha cercato, seppur nelle mentite spoglie di foglio di corrispondenza, di evidenziare le questioni su cui effettivamente occorreva un orientamento comunista. Dal giudizio storico sul movimento comunista, alla difesa degli stati e dei movimenti “canaglia” in guerra con l’imperialismo, al significato delle contraddizioni aperte tra gli Usa e le grandi aree mondiali, Cina in testa, alla polemica e alle differenziazioni dai gruppettari e dai portatori dell’ideologismo settario.

Può essere questa una base e un punto di partenza per un’esperienza collettiva?

Abbiamo più volte asserito che la formazione di un  nucleo comunista è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per dare vita ad una nuova esperienza politica, e oggi ribadiamo questo concetto.

La scissione tra posizione generale e quotidianetà, che da decenni si riproduce e che consegna costantemente l’egemonia delle lotte ai leaders dei ‘movimenti’ è la dimostrazione di questa incapacità o difficoltà oggettiva, per i comunisti, di impostare correttamente la questione. Qualcuno la salta a piè pari  andando comunque avanti, in un senso o nell’altro, riproducendo l’empasse. Altri si limitano a dare la linea ‘cartacea’ ai movimenti, cioè a distribuire volantini ai margini delle manifestazioni. Ma come la questione della riorganizzazione dei comunisti non può avvenire se non dentro una condizione che riapre processi rivoluzionari, così il rapporto tra organizzazione e lotte deve essere collocato non solo mantenendo un rapporto tra realtà dello scontro e prospettiva politica, ma anche capendo modi e forme della partecipazione comunista agli avvenimenti.

Il riformismo e il parlamentarismo ci hanno abituati a credere che la conquista delle masse sia un portato automatico della lotta politica, mentre i comunisti sanno dare una dimensione dialettica alla questione, nel senso che i risultati dipendono dalla natura delle contraddizioni e non da una generica ‘linea di massa’. Questa concenzione non porta i comunisti ad isolarsi, nè a rinunciare allo scontro, ma a calibrarne la portata differenziandosi in questo dai radikalen e dai gruppettari e, soprattutto, dai procacciatori di voti. Nondimeno i comunisti debbono misurarsi con la realtà, prevedendo anche la sconfitta, anzi introiettandola per preparare la riscossa successiva.

Ora che le elezioni del 9 aprile hanno azzerato la situazione a sinistra, dandoci la soddisfazione di vedere i nostri antagonisti rotolarsi nella merda, lanciamo la proposta, a quei compagni e a quelle compagne che sono disponibili a ricominciare, di definire assieme la prospettiva politica che la fase richiede. Non garantiamo il risultato e non ricominceremo comunque. Il marxismo- leninismo non è retorica, ma impegno rivoluzionario e cambiamento dello stato di cose presente. Cominciamo la discussione da questo.

Roberto Gabriele
Paolo Pioppi.

maggio 2006


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