Congresso del PRC

Fuga dalla storia

Fra chi non è andato a Rimini (la quasi totalità dei militanti) per seguire dal vivo il Congresso di Rifondazione, più di uno avrà tratto l’impressione che è stata una grande messa in scena per esaltare il ruolo di Bertinotti. Ha parlato per tre ore. Il giorno dopo l’organo di partito riportava integralmente il suo discorso. E i delegati? Solo comparse di terz’ordine: i loro interventi hanno avuto una ridicola, reticente e ignominiosa "sintesi" in una mezza pagina di giornale riempita con spezzoni di frasi incredibilmente avulse da un contesto e quindi prive di senso. I militanti, leggendo Liberazione, hanno così appreso che Russo Spena ha parlato di "villaggi dolenti", che Losurdo, alla fine del suo intervento ha detto "senza aspettare il compiersi della rivoluzione", che Catania ha sottolineato che "nel partito ci sono compagni più uguali degli altri", che per Aldo Lombardi "non ci sono comunisti frenatori" e così via. Un po’ meglio sono andate le cose il giorno dopo, quando il giornale dedicava maggior spazio agli interventi. Quelli rimasti a casa non hanno neanche potuto seguire in diretta alla radio i lavori congressuali perché, disgraziatamente, vi erano contemporaneamente i congressi dei postfascisti a Bologna e dei radicali a Ginevra, quindi Rimini è stata sacrificata e relegata in trasmissioni differite, per lo più in impossibili orari notturni. Il sito Internet di Radio Radicale che mandava la diretta del congresso di Rc era intasato, quindi irraggiungibile dai più (a parte il fatto che non tutti i militanti hanno un computer e sono disposti a pagare i costi di ore e ore di telefono per seguire il congresso). Tutto ciò gli organizzatori dovevano saperlo o prevederlo. Da questo punto di vista l’evento riminese, che avrebbe dovuto inaugurare - secondo le trionfalistiche dichiarazioni dell’entourage bertinottiano - un modo assolutamente nuovo e rivoluzionario di far politica, si è risolto - almeno per chi seguiva da casa - in un’architettonica presa in giro della democrazia (d’accordo, non c’era più il podio, ma sono scomparsi, dai resoconti della stampa di partito, anche i delegati. C’era solo lui, l’Innovatore). A Rimini si è riprodotto, camuffato da un’assordante fanfara di sbandierate assolute novità, il lato oscuro della nostra tradizione: sempre pronti a rivendicare la democrazia nella società, mettiamo lo stesso zelo nel comprimerla, ostacolarla, o addirittura negarla, all’interno del partito comunista. Non rendere pubblici sulla stampa comunista i discorsi dei delegati nazionali o, peggio, annullarli in un modo così stupido e offensivo come è stato fatto, non è farsi beffe della democrazia?

Ciò detto, conviene soffermarsi su quello che ha significato - in ultima analisi - la svolta di questo quinto congresso. I temi trattati nelle 63 tesi di maggioranza (ed anche negli emendamenti proposti) erano davvero tanti (forse troppi), e tali da mettere a dura prova il bagaglio culturale e teorico nonché la capacità di riflessione di tutti i compagni: insomma una vera sfida alle "certezze" o peggio alle incrostazioni dogmatiche che possono albergare nel cervello di ognuno di noi , di noi che ci stiamo arrovellando da anni (o da decenni, dipende dall’età) per tentare di immaginare le vie di una possibile alternativa socialista (italiana, europea, mondiale?) nell’era del crollo sovietico e della potenza planetaria statunitense. Ma sulle questioni discusse: imperialismo e impero, partito e movimento, classe operaia o nuova classe operaia, guerra civile planetaria o guerra imperialista ecc. ne campeggia una che sembra la più lontana, la più anacronistica, e apparentemente la più inutile da tirar fuori proprio ora, ma che in realtà è ancora la più attuale di tutte: l’antistalinismo. Ecco, in ultima analisi, dove risiede la svolta di questo congresso: nell’aver voluto chiudere i conti con lo stalinismo. Non c’è riuscito Trotski, non c’è riuscito Krusciov, ci riproviamo ancora una volta noi oggi, nel secondo anno del nuovo Millennio. E chi ha perseguito con più coerenza la via di questo regolamento dei conti è stato Bertinotti, il quale è senz’altro il più consapevole di tutti (anche degli stessi compagni dell’Ernesto) del fatto che, prima ancora di definire una politica come che sia, occorre mettere le cose a posto dal punto di vista ideologico, che fra politica ed ideologia il primato spetta a quest’ultima, che una politica duratura non regge se non ha come retroterra un’ideologia. Noi siamo soliti attribuire a questo termine (ritenendo presuntuosamente di essere portatori di istanze di concretezza) solo il valore negativo di falsa coscienza. L’ideologia è - filosoficamente parlanndo - falsa coscienza quando implica l’esclusione (dai contenuti della coscienza, appunto) di qualsiasi presupposto oggettivistico. Ma se invece essa viene definita come un complesso sistematico di idee (di principi) posti a base di un atteggiamento politico o culturale, o tutti e due messi insieme, allora l’ideologia, così intesa, è una forza che muove la storia. Questo, Bertinotti, lo ha capito - ripetiamo - più di ogni altro, e bisogna dargliene atto. Nel suo discorso di Rimini egli ha raccontato che qualcuno gli ha chiesto: "ma perché proprio ora i conti così duri e profondi con lo stalinismo?" e lui ha risposto (in verità senza darsi la pena di dimostrarlo con solidi argomenti, ma solo tirando in ballo la presenza di un forte movimento) che è giunto il momento (se non ora, quando?) della necessità di "rifondare la politica".

Bertinotti accusa i compagni dell’Ernesto di conservatorismo, di richiamarsi astrattamente a Lenin visto che dimenticano che "fu proprio Lenin il protagonista di quella che Gramsci chiamò "la rivoluzione contro il Capitale" perché Marx aveva previsto la rivoluzione nei punti alti dello sviluppo capitalistico e invece l’Ottobre avviene, contraddicendolo, in un paese tra i più arretrati". Bene, ma Gramsci fu a favore della "rivoluzione contro il Capitale" non solo quando i bolscevichi conquistarono il Palazzo d’Inverno, lo fu anche quando condivise pienamente la linea leninista della possibilità della costruzione del socialismo in un solo paese. Fu Lenin, fin dal 1915 che diede le basi teoriche all’eventualità della costruzione del socialismo in un solo paese, non Stalin. Egli scrisse: "L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo all’inizio in alcuni paesi, o anche in un solo pae-se capitalistico preso separatamente" (Lenin, XXI pag.314). Fin quando Lenin fu in vita, Trotski non osò mai tirar fuori la questione del socialismo in un solo paese, lo fece solo in concomitanza con la scomparsa di Lenin. Quando, il 14 ottobre del 1926, poco prima di essere arrestato, Gramsci scrisse - su incarico dell’ufficio politico del partito comunista italiano - una lettera al CC del Pcus, egli, nel consigliare alla maggioranza guidata da Stalin di non "stravincere" contro Trotski, Zinoviev e Kamenev , espresse tuttavia il suo sostegno (inequivocabile) alla linea della costruzione del socialismo in un solo paese: "Nella ideologia e nella pratica del blocco delle opposizioni - scrisse in quella famosa lettera - rinasce in pieno tutta la tradizione della socialdemocrazia". (cit. in : G.Fiori, Vita di Gramsci, pag.249). Era infatti la socialdemocrazia occidentale che contrapponeva l’ortodossia marxista alla rivoluzione che i comunisti russi avevano "osato" scatenare e vincere (come a dire: come vi siete permessi di fare la rivoluzione in un paese arretrato se Marx ha previsto diversamente da voi?). E dovevano essere così calunniose e petulanti le critiche mosse alla giovane repubblica dei Soviet (da parte di quelli del "ritorno" a Marx) da far perdere la pazienza a Lenin che scrisse, in occasione del IV anniversario dell’Ottobre: "Lasciate che i bastardi e i porci della moribonda borghesia e dei democratici piccolo-borghesi che le strisciano dietro, ammucchino imprecazioni, oltraggi e derisioni per i rovesci che possiamo subire, gli errori che possiamo commettere nel lavoro di costruzione del nostro sistema sovietico" (Lenin, XXXIII pag.40).

Ritornando a Bertinotti, c’è da dire che egli, in più occasioni, ha riproposto gli argomenti della socialdemocrazia occidentale e di Trotski. Per esempio, in opposizione al cosiddetto stalinismo, egli parla di "rivoluzione come indivisibile fenomeno mondiale", oppure, come nel discorso di Livorno, dice: "La scelta del socialismo in un solo paese non ricade solo su Stalin. Essa era anche la risultante della convinzione del movimento comunista internazionale che un’epoca era chiusa e che quindi si dovesse pensare alle vie nazionali al socialismo". Proviamo a interpretare il pensiero del segretario di un partito che vuole "rifondare" il comunismo. Siamo nel 1927: dopo un’aspra lotta politica segnata da una divergenza teorica, non accademica, ma che investiva il destino stesso della Repubblica sovietica, il partito comunista bolscevico, con la complicità del movimento comunista internazionale ("la scelta non ricade solo su Stalin"), commette il crimine di edificare il socialismo in un solo paese senza dare ascolto a Trotski che sostiene il principio marxista della "rivoluzione come indivisibile fenomeno mondiale". Anzi, il povero Trotski, viene espulso dal partito. Dopodiché, nei locali messi cortesemente a disposizione dallo "stato guida", si riuniscono i rappresentanti dei vari partiti comunisti (che eseguono a bacchetta gli ordini di Stalin), e qualcuno dice: beh, ragazzi, un’epoca si è chiusa, bisogna pensare alle vie nazionali al socialismo". Ecco come un nano seduto sulle spalle dei giganti reinterpreta la nostra storia.

Le cosiddette vie nazionali al socialismo, che conducono all’abbandono della prospettiva di una rottura rivoluzionaria, diventano un fatto politico nuovo, effettivo, reale, ufficializzato, si potrebbe dire "rifondativo", solo 30 anni dopo il 1927, quando il 20° congresso del Pcus, 1956, dopo aver "estirpato" lo "stalinismo", vara la linea della competizione economica con gli Usa. Prima o poi - disse il rifondatore Krusciov - le nostre popolazioni mangeranno più carne degli americani (fu ironicamente chiamato il "socialismo del goulash" cioè dello spezzatino), e allora sarà chiaro per tutti che il socialismo è migliore del capitalismo. E il 20° congresso dichiarò anche, esplicitamente, che erano possibili le vie legali, parlamentari al socialismo, per i partiti comunisti non ancora giunti al potere. In preparazione dell’8° congresso del Pci, che seguì a ruota il 20° del Pcus, la rivista teorica Rinascita "traduceva" in lingua italiana la svolta antistalinista krucioviana.

"Non ribadiamo mai abbastanza questo concetto - scriveva Fausto Gullo - proprio e specialmente ora che il XX congresso ha ritenuto necessario affermare la possibilità di arrivare al socialismo attraverso la via parlamentare. E’ tutt’altro che difficile considerare che tale possibilità intanto è potuta sorgere nell’attuale momento storico in quanto appunto c’è stata la conquista violenta del potere nell’Unione sovietica, in Cina e in tutti gli altri stati guadagnati al socialismo o nei quali il socialismo ha posto le immancabili premesse. La grandiosa vittoria del proletariato socialista in un terzo della superficie terrestre, rendendo ormai, se non proprio impossibile, certamente molto difficile una violenta resistenza delle forze capitalistiche alle ulteriori avanzate delle classi lavoratrici, costituisce il fatto nuovo che dà ora, per la prima volta, consistenza alla possibilità della via parlamentare" (Antologia di scritti di Rinascita, Landi editore, vol.2° pag.873). A parte l’aspetto abbastanza ignobile di queste affermazioni (il sangue versato da altri popoli consentirà a noi parassitariamente di salire con comodità nella carrozza di prima classe della via parlamentare al socialismo), vi è anche l’utopistica e disarmante "previsione" che le forze reazionarie, imperialismo americano in testa, "difficilmente" opporranno una resistenza al futuro esproprio degli espropriatori per via legislativa, parlamentare (abbiamo saputo poi che erano pronti a fare stragi di comunisti nel nostro paese attraverso strutture illegali clandestine dirette dalla Cia). Ma Togliatti, da par suo, è meno ingenuo: "La garanzia che noi siamo una forza democratica, la quale si propone di costruire, senza uscire dal terreno anche formale della democrazia, una società socialista, sta nella lotta stessa che abbiamo condotto fino ad oggi e in quella che conduciamo, nel fatto che abbiamo educato l’avanguardia della classe operaia, che in passato era in parte massimalista, in parte anarchica, a combattere in modo nuovo, che ha creato e reso solido l’ordinamento democratico" (ibid. pag.897). Su quello stesso numero di Rinascita Valentino Gerratana scrisse un lunghissimo saggio: "Preparando il congresso del partito: La teoria marxista dello Stato e la via italiana al socialismo" (ibid. pag.900 e segg.) per cercare di dimostrare che era possibile armonizzare Stato e rivoluzione e via italiana al socialismo. Converrebbe che i compagni leggessero questo saggio, per rendersi conto di che gran quantità di mistificazione vi sia bisogno per assoggettare alle necessità di una svolta opportunistica il pensiero di un rivoluzionario.

Non vorremmo ripetere l’abusato aforisma dei drammi storici che si ripresentano, talvolta, sotto forma di farsa. Tuttavia dobbiamo ammettere che se la "rifondazione" del Pci dell’8° congresso implicava comunque il riconoscimento dell’esistenza, in un terzo del globo terrestre, di stati socialisti, la rifondazione di questo 5° congresso nega recisamente che sul nostro pianeta vi sia mai stato il socialismo. E ciò, al di là di ipocriti richiami all’Ottobre, che se si eccettua la "o" maiuscola, nel loro dire sta ad indicare poco più che il decimo mese dell’anno. Per esprimere con estrema chiarezza la compiuta ideologia della maggioranza dei compagni che vogliono estirpare fino alle radici lo "stalinismo", ci serviamo di un’ultima citazione che ha il pregio, come quella di Gullo riportata più sopra, di esporre con chiarezza come stanno effettivamente le cose, senza contorcimenti linguistici, come quel bambino che disse: "uh, guarda, il re è nudo!" mentre gli adulti facevano finta di non accorgersene. E’ una citazione tratta da un vecchio giornale trotskista, Avanguardia operaia (n.11/12), con cui anni fa i leninisti polemizzavano asprissimamente (rinnovando, ammettiamo pure, una vecchia tradizione e un vecchio stile da ambedue le parti). Scrivevano questi compagni: "Nella Seconda grande guerra imperialista il revisionismo (cioè lo stato sovietico e il partito bolscevico ndr) ha fabbricato un volto democratico per i feroci imperialismi Usa, britannico e francese, in funzione dell’alleanza anti-hitleriana, e ha impedito lo sviluppo di una lotta di classe rivoluzionaria nei paesi capitalistici economicamente sviluppati incanalando la lotta proletaria verso l’obiettivo della difesa della patria, cioè della difesa della borghesia del proprio paese e della difesa del ‘primo stato socialista’ che avrebbe poi esportato nei paesi che toccarono all’Urss dalla spartizione del bottino tra gli imperialisti vincitori e si formarono due blocchi imperialisti concorrenziali, l’uno egemonizzato dagli Usa e l’altro dall’Urss, venne elaborata la ‘teoria’ dei due mercati, quello capitalista e quello ‘socialista’, onde occultare la reale natura dei rapporti sociali di produzione all’interno del blocco sovietico e tra questo e il resto del mondo". E’ azzardato dire che la cultura dominante in Rifondazione affonda le sue radici in questo humus ideologico? Fu istituita una Commissione per redigere un nuovo statuto di Rifondazione, presieduta dal compagno Grassi. La cosa andò pressappoco così: su un punto di forte significato simbolico, se occorreva o no inserire un richiamo a Lenin e/o a Gramsci, la commissione non trovò l’accordo e rimise tutto nelle mani del Comitato politico nazionale. Bertinotti propose una "mediazione": eliminiamo tutti e due. Non sarà per caso che Gramsci è stato espunto dallo Statuto per la sua fedeltà, che è rimasta tale per tutta la vita, alla "rivoluzione contro il Capitale", cioè alle imprese che compivano i leninisti dell’Unione sovietica? Quando fu arrestato, il 14 ottobre 1926, egli aveva 35 anni ed era ormai il dirigente più prestigioso del partito comunista. I fascisti - vogliamo raccontare ancora una volta queste cose anche se tutti i compagni le conoscono - lo hanno torturato per l’intera durata della prigionia: ogni giorno dell’anno, per dieci anni, un secondino, a tutte le ore della notte andava a "verificare" se l’inferriata della cella fosse manomessa, impedendogli di dormire. Questa criminale tortura l’ebbe vinta sulla vita di Antonio Gramsci ma non fiaccò il suo cervello, che fino all’ultimo giorno non "smise di pensare". Egli, figura integerrima in cui si fusero saggezza rivoluzionaria e socratico disprezzo per i suoi aguzzini, che ci ha dato una grandiosa lezione di vita, si è rivelato non solo fra i più profondi pensatori marxisti del novecento, ma è anche stato il Martire della prima ora dell’antifascismo italiano. Oggi i giovani delle più svariate tendenze sventolano la bandiera rossa con l’effigie di Che Guevara. Perché non accade ciò anche con Antonio Gramsci? Rifiutare di richiamarsi a questo grande uomo nello Statuto di un partito che si dice comunista è un’ignominia che difficilmente i nostri compagni comunisti di altri paesi e continenti potrebbero perdonarci.

Si vuole una resa dei conti. Però si dice che ci è estranea l’idea di gruppi dirigenti omogenei, che è un’idea militare che va sconfitta culturalmente e praticamente. Si vedrà. I leninisti di rifondazione, cui quei gran signori del Manifesto appioppano l’etichetta di "destra", costretti a scendere in campo aperto, hanno dimostrato di avere al loro seguito il 27 per cento del partito. E’ un grande risultato. Già comincia a comparire sulla stampa la foto di Grassi, e il giornale l’Ernesto ha una prospettiva di più forte diffusione. E’ un grande risultato. Domenico Losurdo, un intellettuale leninista di prestigio, noto non solo in Italia, è stato eletto nel nuovo Comitato politico nazionale. Anche questo è un risultato di rilievo. E quel 27 per cento del partito avrebbe seguito i compagni dell’Ernesto anche se questi ultimi avessero proposto di abolire quella tesi 53 così violentemente offensiva dell’intelligenza dei compagni, di tutti i compagni. Quel 27 per cento li avrebbe seguiti anche se avessero avuto il coraggio di semplicemente nominare la parola Stalin senza attribuirgli un connotato di infamia, cosa che si son guardati bene dal fare. In questo, Bertinotti ha avuto più coraggio di voi, compagni dell’Ernesto.

Amedeo Curatoli

Ritorna alla prima pagina