Pentiti: siamo alla terza generazione

Il punto di riferimento è il 1968. Da allora abbiamo assistito a un flusso continuo di generazioni 'rivoluzionarie' dentro le braccia accoglienti delle istituzioni che tengono in piedi il sistema.

E' accaduto con moltissimi esponenti della prima ondata di fondatori di partiti o movimenti 'rivoluzionari'. Il capo di una setta di marxisti leninisti che andava per la maggiore, Servire il Popolo, si è ritrovato in Comunione e Liberazione con Formigoni. Il fondatore di Lotta continua, Adriano Sofri, è approdato nelle file neoliberal accanto a Fassino assieme a moltissimi suoi compagni di avventura, Da Gad Lerner, a Paolo Liguori della berlusconiana Rete Quattro, a Enrico Deaglio di Diario, al 'costituzionalista' Marco Boato. Qualcuno, come il potoppino Pace, è finito con Il Foglio di Ferrara.

Insomma, la grande ondata della rivoluzione mancata del '68 si è infranta sugli scogli delle improvvise folgorazioni neoistituzionali che hanno ridotto l'evento a una grande scapigliatura gravida di sviluppi culturali devastanti.

Più drammatica è stata la seconda fase, quella legata alla deriva terrorista che nella sua grande maggioranza ha dato vita a pentimenti e dissociazioni e, in altri casi, a un dignitoso silenzio, che però è stato spiegato con una storicizzazione dei trascorsi non motivata politicamente.

Ora siamo a una fase più complessa, ma non per questo meno grave, delle tendenze al pentitismo. Il pentitismo, da scelta personale diventa corrente di pensiero revisionista.

Il capo di questa corrente porta il nome di Fausto Bertinotti il quale si è cimentato negli anni scorsi con la condanna storica del novecento comunista, con la non violenza come metodo di lotta per le classi subalterne, fino ad approdare alle meditazioni sul monte Athos e alla giustificazione del muro in Palestina. Il caso non è unico, tutt'altro, perchè dietro questa scelta vi è stato e vi è un flusso continuo di pentimenti che ha trovato la sua accelerazione col governismo filoprodiano.

Trotskisti, ernestini, marxisti 'critici', sono entrati a vele spiegate nella logica della governabilità come terreno di confronto strategico subendo tutte le sconfitte che da questa scelta sono scaturite, dalla base di Vicenza, all'aumento delle spese militari, alla missione in Afganistan, alla politica antipopolare di Padoa Schioppa al neoclericalismo della Bindi.

Dai pentimenti singoli scaturiti dalla disgregazione dei gruppi ‘rivoluzionari’ siamo passati a un salto qualitativo che mette in discussione le basi politico-culturali della opposizione di classe e antimperialista. Siamo arrivati al grande pentimento.

Qualche compagno ha usato l’espressione 'forchettoni rossi' per definire la terza generazione dei pentiti e, a mio parere, l’espressione è azzeccata. Essa non spiega però la ragione di queste trasformazioni. Su questo bisogna rflettere. Per quanto ci riguarda, proprio a partire dal ’68, abbiamo pensato e detto che il movimento politico antagonista era zeppo di ambiguità politiche e sociali per cui occorreva, come comunisti, avere la totale autonomia. Questo non poteva salvarci dai pentimenti di massa e dalle degenerazioni che sono sotto gli occhi di tutti i compagni e le compagne onesti. Questa autonomia può permetterci però di ricominciare su basi diverse. Trasformare quindi, come dice Fidel, la sconfitta in vittoria.

Erregi

28 maggio 2007


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