Che Guevara tra romanticismo e sciacallaggio

Con il quarantesimo anniversario della morte del Che si sono intensificati i richiami alla sua storia e alle sue idee. Gli orfani della rivoluzione in cerca di occasioni per superare le frustrazioni del presente, si danno da fare con convegni e discussioni interpretative del personaggio. Tutte queste operazioni di riciclaggio però non servono a dare un valore giusto all'opera del Che, ma in sostanza ad alterare il significato della sua esperienza e il contenuto delle sue posizioni.

Il popolo delle magliette che in un primo momento dà l'idea di una diffusione di massa delle posizioni rivoluzionarie, nei fatti subisce operazioni di marketing che portano fuori dal contesto storico gli avvenimenti di cui Che è stato protagonista e ne fanno un cavaliere senza macchia e senza paura in contrasto con la miseria del mondo reale. Domandiamoci una cosa, perchè in occidente milioni di giovani non portano le magliette dei kamikaze palestinesi e di quelli iracheni? Questi anonimi personaggi che offrono deliberatamente la loro vita per contrastare lo sterminio occidentale e sionista dei loro popoli non eccitano la fantasia rivoluzionaria? Vogliamo domandarci il perchè?

Se vogliamo fare una similitudine storica, dobbiamo fare riferimento al rapporto tra San Francesco e la Curia romana. Tutti sanno che il santo di Assisi è stato usato dalla cattiva coscienza della chiesa cattolica per esaltare l'umiltà e la povertà di Francesco e dare una immagine umana ad un mondo di miseria morale e di corruzione. Oggi, l'immagine del Che è il riscatto romantico di una esigenza di cambiamento che inizia e finisce con le magliette. Certamente non bisogna essere contro le magliette, bisogna spiegarne la manipolazione mediatica. Per capire fino a che punto arriva questa manipolazione, basti dire che in questi giorni sono comparsi manifesti della Quercia-Sinistra giovanile che ripetono lo slogan hasta la victoria siempre. Quale vittoria, quella di Veltroni e del PD?

Non meno discutibile è la manipolazione ‘rivoluzionaria’ della storia e dell’opera del Che.

Intanto è singolare che si parli di un rivoluzionario, indiscutibile sul piano della coerenza, senza entrare nel merito dei risultati strategici delle sue scelte. Un personaggio come Giorgio Amendola, alludendo al Che parlò di stratega da farmacia. Queste gravi affermazioni di un dirigente del PCI dell’area migliorista menarono giustamente scandalo. Ma una domanda vogliamo fare a chi crede di guadagnare meriti e spazi trasformando il Che in una sorta di padre Pio o di Maria Teresa di Calcutta attraverso convegni e manifestazioni: la vicenda boliviana e quella congolese non impongono una riflessione?

Infine, un’ultima questione quella relativa allo sciacallaggio delle tendenze trotskoidi che da decenni usano il Che in funzione antisovietica e, in definitiva, anticomunista. Si rifanno, costoro, sia alle teorie economiche del Che che alle critiche che egli rivolgeva all’esperienza del socialismo reale. E’ indubbio che un rivoluzionario come il Che non era compatibile né coi compromessi col breznevismo né con la realpolitik della coesistenza pacifica. Ma, per dirla con Lenin, ai rivoluzionari spetta il compito di seguire la linea curva della retta della rivoluzione. Da qui dovrebbe partire la discussione su un grande rivoluzionario come il Che, sottraendola al romanticismo e allo sciacallaggio.

Erregi


Ritorna alla prima pagina