Contro la guerra:
rafforzare politicamente il movimento
e definire gli obiettivi di lotta

Crediamo che ci sia una legittima soddisfazione in tutti noi per il fatto che il ripudio della guerra sta diventando un fattore di massa che ha raggiunto settori vasti della popolazione italiana. I soliti sondaggisti danno i fautori della guerra in netta minoranza, al punto che anche l’amerikano Berlusconi si dà da fare per dimostrare, nonostante i precisi impegni presi con Bush, che opera per la pace. Il fatto che ci sia in Italia una grande maggioranza di persone che è sinceramente contro la guerra rappresenta un dato importante su cui far leva per combattere i progetti americani di aggressione. Ma dentro questo dato oggettivo occorre saper individuare i passaggi che siano in grado, allo stesso tempo di rafforzare l’avversione alla guerra e di affrontare lo scontro riportando risultati concreti.

Partiamo dalla prima questione, il rafforzamento politico del movimento contro la guerra. La questione non è di poco conto, dal momento che i guerrafondai di casa nostra, consapevoli della posta in gioco, lavorano a pieno ritmo per ottenere almeno il risultato di neutralizzare gli oppositori alla guerra, disinnescando i contraccolpi del loro agire criminale. Da questo punto di vista occorre far fronte ad un pensiero pacifista ‘debole’ che aiuta l’avversario a disorientare il movimento di opposizione alla guerra.

Non si tratta, in questo caso, della posizione ‘ulivista’, quella aberrante secondo cui la guerra con l’ONU sarebbe accettabile, come se questo superasse di botto il discorso della guerra preventiva e dell’art.11 della Costituzione italiana. Ovviamente anche su questo fronte c’è da combattere. L’ipocrisia ‘ulivista’ della guerra perbene patrocinata dall’ONU è di fatto l’accettazione di tutte le motivazioni che stanno alla base della volontà di guerra contro l’Iraq. Se l’ONU decidesse di fare la guerra contro l’Iraq vorrebbe dire semplicemente che si considera questo paese più pericoloso e più aggressivo di altri, mentre sappiamo bene che gli americani e i loro alleati sionisti vogliono la distruzione dell’Iraq per motivi economici, il petrolio, e geopolitici, compresa la possibilità per gli israeliani di completare il genocidio contro i palestinesi.

Però, il pensiero ‘debole’ a cui ci riferiamo è quello più interno ai veri oppositori alla guerra, quelli che sostengono la pace senza se e senza ma. Il rischio che si corre è che il rifiuto della guerra diventi una questione etica, più che politica, e faccia apparire la posizione dei pacifisti una questione da obiettori di coscienza. Chi ha seguito i dibattiti pubblici, sapientemente orchestrati dai mass media, ha potuto constatare che il motivo centrale con cui i fautori della guerra cercano di far breccia sulle coscienze è che al mondo esistono dittatori che opprimono il loro popolo e che vanno liquidati, possessori di armi di sterminio di massa che vanno disarmati e terroristi che minacciano l’umanità. Se non si lavora per demolire questa ragnatela di luoghi comuni che rendono vischioso il terreno di scontro tra fautori della guerra e sostenitori della pace, non si riuscirà a consolidare ed estendere il movimento e evitarne la neutralizzazione. Già in passato le mistificazioni di ‘sinistra’, in particolare sull’ex Jugoslavia, hanno lasciato il segno e indebolito il movimento, accreditando l’ipotesi che Mhilosevic avesse contribuito a scatenare la guerra nei Balcani, rovesciando completamente il rapporto causa-effetti.

Nel caso specifico della odierna situazione, la battaglia ‘interpretativa’ sulle ragioni del conflitto ha bisogno di essere accompagnata da tre elementi che devono diventare coscienza di massa.

Il primo riguarda la questione dei ‘dittatori’. Putroppo esiste, nei paesi occidentali imperialisti la convinzione diffusa che in essi si vive democraticamente, mentra nei paesi aggrediti c’è una repressione diffusa. Quindi la guerra, seppure deprecabile, ottiene il risultato di eliminare una dittatura. Inutile ricordare che il colonialismo, e le guerre coloniali che lo hanno imposto, è stato sempre presentato come uno scontro tra civiltà e barbarie. Oggi non è possibile parlare di barbari, anche se l’Islam viene in qualche modo associato a questo concetto, allora si parla di democrazia. Pensiero debole, in questo caso, significa accettare o subire l’idea che occorre bombardare un paese governato diversamente dalle ‘democrazie’ occidentali. Noi non siamo solo contro la guerra preventiva, bensì siamo contro l’intervento armato contro governi che hanno differenti regimi politici, fermo restando che le popolazioni che li subiscono hanno il diritto legittimo di rovesciarli. La guerra preventiva contro i ‘dittatori’ è puro imperialismo.

Una seconda questione che rende debole il pensiero pacifista è la mistificazione del pericolo delle armi di distruzione di massa. Chi detiene veramente le armi di distruzione di massa e nel caso degli USA le ha anche usate in Giappone, oggi conduce la campagna contro i pericoli che il genere umano correrebbe ad opera degli stati cosiddetti canaglia. Come fa a reggere una menzogna di questo tipo? Perchè non si parla di chi veramente mantiene il mondo sotto il ricatto atomico e si prepara con lo scudo spaziale? Infine, la questione del terrorismo. Qual’è oggi il modello mondiale su cui si muove l’azione terroristica? Chi sono gli animatori del terrorismo e come lo utilizzano? Bisogna avere il coraggio di affermare che l’unico vero terrorismo che esiste è quello gestito dalla CIA, dai servizi israeliani e da quelli ad essi collegati. Come si è visto, anche la vicenda dell’11 settembre può essere ricondotta, direttamente o indirettamente, a questa mostruosa dinamica. Dunque, essere nel movimento, rafforzarne l’unità significa anche riuscire a sviluppare quei contenuti che possono fornirne le basi del rafforzamento. Altrimenti, come in gran parte avviene oggi, l’avversario può far breccia nelle stesse file di chi rifiuta la guerra.

Dibattito e chiarezza si impongono anche nella dinamica dello scontro. A questo proposito non ci stancheremo mai di ripetere quello che abbiamo potuto constatare nelle precedenti guerre contro l’Iraq, l’Afghanistan, la Jugoslavia. Il movimento, arrivato ad un certo punto, si avvita su se stesso e rimane come paralizzato dagli eventi. Consapevoli che la sola testimonianza non basta a bloccare gli eventi, coloro che si oppongono alla guerra vengono presi da un senso di frustrazione e spinti a una sorta di fatalismo.

Anche questo è sintomo di un permanere di debolezza politica che ritarda la consapevolezza del ruolo concreto da svolgere. A questo proposito occorre ricordare che in Italia abbiamo un governo di guerra, che le basi militari vengono utilizzate per la guerra, che i militari italiani sono in guerra in diverse parti del mondo. Su questa concretezza di riferimenti occorre pensare rapidamente alle risposte possibili per unire i contenuti agli obiettivi.

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