La sinistra italiana e i nuovi Hitler

di Domenico Losurdo

1. Da uno Stato pariah all’altro

Nelle settimane scorse si è assistito ad uno spettacolo straordinario, col formarsi di un gigantesco fronte unito mondiale contro il "nuovo Hitler", rappresentato dal leader di un partito entrato a far parte del governo austriaco: è il governatore della Carinzia, Jörg Haider, una sorta di Bossi in salsa carinziana.

La formazione politica da lui diretta è un prodotto tipico della globalizzazione capitalistica; gode dei vantaggi derivanti dalla possibilità, per i paesi industriali più avanzati, di esportare merci in tutto il mondo, ma guarda con orrore all’altra faccia della medaglia del mercato globale, la mobilità della forza-lavoro su scala planetaria e la conseguente ondata immigratoria di una massa di disperati che cerca di sfuggire al sottosviluppo e alla fame. E come sempre in questi casi, assieme alla razzizzazione dei nuovi venuti o di coloro che premono alle porte, ecco manifestarsi il revisionismo: è il tentativo di rimettere in discussione o liquidare la gigantesca ondata rivoluzionaria che, prendendo le mosse dall’Ottobre bolscevico, ha investito colonialismo e razzismo, travolgendo fascismo e nazismo, cioè i regimi impegnati a perpetuare e a radicalizzare per l’appunto il dominio occidentale, bianco e ariano. Siamo in presenza di processi ideologici e politici che, con modalità diverse, trovano la loro espressione in personaggi come Haider, Bossi, Le Pen.

Né si tratta solo dell’Europa. Ai confini meridionali degli Stati Uniti un vero e proprio muro impedisce l’accesso agli immigrati che premono dal Messico, mentre si infittiscono le voci che lamentano l’effetto di inquinamento e di snaturamento provocato dal flusso dei latinos ai danni dell’autenticità americana e anglosassone. In una diffusa ideologia reazionaria, i latinos tendono a far corpo coi neri, i quali ultimi, da sempre relegati nei segmenti inferiori del mercato del lavoro, continuano ad essere bersaglio di pregiudizi e stereotipi: libelli e libri "autorevoli" si affannano a dimostrare "scientificamente" l’inferiorità intellettuale dei neri e a riabilitare la Confederazione secessionista e schiavista, la cui bandiera ancora oggi, nel Sud degli Usa, viene agitata orgogliosamente dai rampolli degli ex-proprietari di schiavi a ulteriore umiliazione delle vittime e dei discendenti delle vittime dell’Olocausto nero.

S’impongono la vigilanza e la lotta contro questi movimenti e queste tendenze; e va dato atto ai comunisti austriaci di aver saputo mettersi alla testa delle manifestazioni popolari di protesta contro Haider. Ciò significa che dobbiamo riconoscere all’Unione Europea il diritto di interferire nelle vicende interne dell’Austria? In quale direzione verrà poi fatto valere questo precedente? Nell’analizzare gli sviluppi politici in atto nella repubblica ceca, la stampa statunitense si lascia sfuggire qualche ammissione: "Mancano ancora due anni per le prossime elezioni, ma se il Partito Comunista, che ha raddoppiato i suoi suffragi in questi due anni, dovesse continuare a crescere", ecco che, dopo l’Austria di Haider, un altro Stato "pariah" dovrebbe essere fronteggiato dall’Unione Europea (Finn, 2000 a).

A questo punto i dubbi dovrebbero accrescersi ulteriormente: non è sospetta l’attuale campagna che prende di mira un paese, l’Austria, che ha rifiutato di partecipare, in modo diretto o indiretto, alla guerra contro la Jugoslavia e che non fa parte né intende far parte della Nato? Siamo ricondotti alla tragica realtà della guerra nei Balcani: è qui che è in corso una pulizia etnica, di cui sono protagonisti proprio quei paesi e quei governanti che oggi si strappano le vesti per Haider. Senza mai mettere la sordina in alcun modo alla lotta contro la xenofobia in ogni sua manifestazione, una sinistra degna di questo nome dovrebbe stare bene attenta a non mettersi al rimorchio dei carnefici di Washington e delle diverse capitali europee.
E, invece…

2. Dalla guerra civile rivoluzionaria
alle guerre di liberazione e di difesa nazionale

Per comprendere l’ennesima manifestazione di subalternità della sinistra e la sua permanente incapacità di elaborare un’autonoma strategia, conviene riflettere sulla storia del movimento comunista internazionale. Essa è accompagnata come un’ombra da una debolezza di fondo, teorica e politica: è la tendenza a fare appello all’analogia piuttosto che all’analisi concreta della situazione concreta. La rivoluzione d’Ottobre scoppia a partire dalla trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria: Lenin smaschera il carattere mistificatorio della parola d’ordine della difesa della patria e fa appello perché, in ogni realtà nazionale, i comunisti si impegnino in primo luogo per la disfatta del proprio paese e del proprio governo. E’ sull’onda di queste gigantesche lotte che scaturisce la Terza Internazionale. Innegabili e enormi sono i suoi meriti storici, ma a lungo essa ha ondeggiato e stentato prima di elaborare una strategia all’altezza della situazione radicalmente nuova che si era venuta a creare. Diffusa e tenace si è rivelata la tendenza a pensare la nuova ondata rivoluzionaria che stava montando sul modello di quella che aveva dato vita alla Russia sovietica; si scrutava l’orizzonte alla ricerca della nuova guerra imperialista da trasformare, ancora una volta e secondo un modello già consolidato, in guerra civile rivoluzionaria.

Non ci si rendeva conto che, proprio in virtù della loro vittoria, i bolscevichi avevano reso improbabile o impossibile la riproposizione meccanica della precedente esperienza. Della svolta è invece consapevole Lenin: "dall’ottobre 1917 siamo divenuti tutti difensisti, fautori della difesa della patria" (Lenin 1955 b, p. 64). L’esistenza stessa della Russia sovietica, risultato della rivoluzione vittoriosa, significava l’irrompere di un elemento del tutto assente nel primo conflitto mondiale: in ogni paese i comunisti dovevano tenerne conto se volevano procedere ad un’analisi concreta della guerra concreta.

Ma non era solo l’esistenza di un paese impegnato nella costruzione del socialismo a conferire una natura e un significato nuovi alle crisi belliche che si andavano addensando. Non bisogna perdere di vista il fatto che, assieme all’appello alla trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria, i bolscevichi lanciano anche l’appello agli schiavi delle colonie a spezzare le loro catene e, dunque, a condurre guerre di liberazione nazionale contro il dominio imperiale delle grandi potenze. Il nazi-fascismo si presenta come un movimento di reazione, e di reazione estrema, anche a questo secondo appello. Alla vigilia dell’inizio ufficiale della seconda guerra mondiale, prima ancora di aggredire Polonia e URSS, la Germania nazista smembra la Cecoslovacchia e dichiara in modo esplicito che la Boemia-Moravia è un "protettorato" del Terzo Reich: il linguaggio e gli istituti della tradizione coloniale sono esplicitamente rivendicati e il loro ambito di applicazione esteso anche all’Europa orientale. E’ qui che Hitler intende edificare "le Indie tedesche", decimando la popolazione locale, appropriandosi delle loro terre e trasformando i superstiti in forza-lavoro servile per la "razza dei signori".

Ciò significa che sin dall’inizio il secondo conflitto mondiale presenta caratteristiche radicalmente diverse rispetto al primo: non si tratta più di trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria; la lotta contro l’imperialismo si intreccia ora strettamente all’appoggio alle guerre di liberazione nazionale dei popoli investiti dalla nuova ondata di espansione coloniale e alla guerra per la difesa dell’Unione Sovietica. Persino i comunisti e i democratici tedeschi, italiani e giapponesi lottano sì per la disfatta dei loro rispettivi governi e paesi ma anche - e questa è una radicale novità rispetto al 1914-18 - per la vittoria delle guerre di difesa e indipendenza nazionale dell’URSS, della Jugoslavia, dell’Albania, della Cina: per fare solo un esempio, si pensi ai soldati italiani inviati nei Balcani dal governo fascista, che si arruolano nelle file dei partigiani jugoslavi e albanesi, impegnati in una guerra di liberazione nazionale.

Di queste radicali novità il movimento comunista si rende conto a partire soprattutto dal VII Congresso dell’Internazionale (1935). E’ un complesso processo di apprendimento che avviene in condizioni drammatiche, mentre sempre più minaccioso incombe il pericolo della guerra e del fascismo: alle difficoltà della situazione oggettiva si aggiungono l’inesperienza, gli errori e i crimini soggettivi col trasformarsi, per responsabilità di tutti, di contraddizioni in seno al popolo in contraddizioni antagonistiche. Resta il fatto che la nuova ondata rivoluzionaria comincia a svilupparsi quando, abbandonato il gioco delle analogie, il movimento comunista procede ad un’analisi concreta della situazione concreta. Quei pochi (Bordiga, Trotski ecc.) che continuano ad agitare nostalgicamente la parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria si rivelano in realtà prigionieri di una "frase" e finiscono col separarsi dal corpo del movimento comunista.

La nuova strategia trova la sua espressione più alta in due avvenimenti epici: la Lunga Marcia dei comunisti cinesi che, guidati da Mao Zedong, attraversano migliaia di chilometri, in condizioni assai difficili, per andare a mettersi alla testa della guerra di difesa nazionale contro l’imperialismo giapponese; l’appello di Stalin ai popoli dell’Unione Sovietica perché si uniscano nella Grande Guerra Patriottica contro le bande hitleriane. E’ così che si sviluppa, dopo la rivoluzione d’Ottobre, una seconda gigantesca ondata rivoluzionaria: il campo socialista conosce un’enorme estensione, mentre il dilagare delle rivoluzioni anticoloniali sembrano far barcollare l’imperialismo.

3. Il "nuovo Hitler" e l’Anticristo

Disgraziatamente, sulla scia di questa grande vittoria fa di nuovo la sua apparizione il gioco inane delle analogie. Il movimento comunista segue con appassionata attenzione l’andamento della borsa a Wall Street nell’attesa di una riedizione della grande crisi del 1929. Questa crisi aveva accelerato l’ascesa del fascismo e aggravato le contraddizioni tra le grandi potenze capitalistiche, sfociate poi nel secondo conflitto mondiale. Un anno prima della sua morte, nel 1952, Stalin ribadisce la tesi dell’assoluta inevitabilità della guerra tra i paesi imperialisti. Questi, come nel 1939, si sarebbero scontrati sanguinosamente tra di loro, prima di coinvolgere nella guerra l’Unione Sovietica e il campo socialista. Come si vede, si pensa l’auspicata terza ondata rivoluzionaria sul modello della seconda, così come per tanto tempo la seconda ondata rivoluzionaria era stata pensata sul modello della prima.

In realtà, proprio la gigantesca estensione del campo socialista frena lo sviluppo delle contraddizioni tra le diverse potenze capitalistiche: gli Usa riescono ad unificarle sotto la loro egemonia e non solo sul piano militare: una serie di organismi economici internazionali per un verso assicura il controllo di Washington sui suoi alleati, per un altro verso cerca di controllare la dinamica che aveva portato alla catastrofe del ’29.

Il movimento comunista si rivela piuttosto riluttante a congedarsi dalle sue grandiose memorie storiche e dal gioco delle analogie ad esse connesso. Anche i gruppi scaturiti dal ’68 non si sono stancati di invocare la "nuova Resistenza" e i "nuovi partigiani". Era largamente diffusa la visione secondo cui la crisi spingeva la borghesia a ripercorrere la via del fascismo; solo che questa volta il movimento di lotta per il recupero della democrazia sarebbe andato sino in fondo, rovesciando una volta per sempre il capitalismo. Sia chiaro: non è che siano mancati i colpi di Stato e i tentativi di colpi di Stato: epperò, la stessa dittatura militare, da distinguere peraltro dal fascismo propriamente detto, è stata per lo più pensata come soluzione provvisoria, come tappa intermedia in vista della realizzazione del Nuovo Ordine Internazionale che oggi, dileguati il "campo socialista" e le angosce da esso provocate, si va delineando, come vedremo, con grande chiarezza.

Non ha senso, allora, scrutare l’orizzonte alla ricerca delle avvisaglie che annuncino il nuovo Hitler. Tanto varrebbe attendere la venuta dell’Anticristo. In un caso e nell’altro si tratta di una rappresentazione religiosa: la riedizione del Male assoluto è il presupposto del trionfo totale e definitivo del Bene. In realtà, le orde hitleriane, bloccate e ignominiosamente sconfitte a Stalingrado e poi progressivamente ricacciate indietro dall’eroica Armata Rossa fino alla capitolazione finale del Terzo Reich, non risorgeranno dalle loro ceneri. Il movimento comunista ha contribuito in modo decisivo a liquidare il nazismo anche sul piano ideologico. Ancora negli anni ’30, il termine "razzismo" aveva una connotazione tutt’altro che univocamente negativa; a questa presunta "scienza" facevano riferimento, ben al di là della Germania, non pochi "scienziati" del mondo capitalistico. Con la disfatta del Terzo Reich tutto è cambiato.

E un nuovo radicale mutamento è intervenuto col crollo del "campo socialista". Se negli anni della guerra fredda erano due le capitali (Washington e Mosca), in aspra concorrenza l’una con l’altra, a tentar di bollare questo o quel nemico come un "nuovo Hitler", ora questo potere di scomunica è rimasto esclusivamente e saldamente in mano a Washington. E così, dopo Saddam e Milosevic, è Haider il "nuovo Hitler"! Per sua fortuna, l’Austria non è ancora stata colpita dalle bombe e dagli embarghi che hanno devastato e continuano a devastare l’Irak e la Jugoslavia. Dunque, una sinistra che continua a coltivare il gioco delle analogie, scrutando l’orizzonte alla ricerca del nazismo risorto o risorgente, non solo si muove in uno spazio storico immaginario, ma contribuisce a rafforzare ulteriormente l’egemonia del Santo Padre…che siede a Washington, il quale ora si trova a disporre al tempo stesso del potere di scomunica e della capacità di annientamento nucleare.

Fa un po’ pena Cossutta quando si atteggia a Dimitrov o Togliatti redivivo, a leader di un rinato fronte popolare in lotta contro un imprecisato pericolo fascista. Intanto il suo partito fa parte di un governo che nei Balcani si è macchiato e continua a macchiarsi di infamie, che trovano un precedente soltanto nell’operato di Mussolini. Bisogna però riconoscere che, in occasione del caso Haider, pur di fronteggiare l’improbabile Hitler della Carinzia, anche "il manifesto" e persino certi esponenti del PCF o di Rifondazione Comunista si sono rivelati inclini a costituire un fronte unito con Jospin e con gli altri responsabili della guerra nei Balcani e della pulizia etnica a danno dei serbi tutt’ora in corso nel Kosovo.

4. Il bel Thaci, Lady Killer e la frase "trotskista"

Se Cossutta in particolare gioca a rappresentare Dimitrov o Togliatti, certi gruppi "trotskisti" si ostinano invece a rappresentare Lenin e Trotski: il loro cavallo di battaglia è dunque l’"autodeterminazione". Epperò nell’agitare questa parola d’ordine, essi sembrano non volersi neppure interrogare sui colossali sconvolgimenti nel frattempo intervenuti. A partire dall’Ottobre, il movimento di emancipazione dei popoli in condizioni coloniali e semicoloniali ha conosciuto grandi vittorie: Stati di antica civiltà hanno conquistato un’indipendenza reale, non più meramente formale (si pensi alla Cina e alla Persia); nuovi Stati nazionali si sono costituiti scuotendosi di dosso il giogo delle grande potenze imperiali. Queste continuano a manifestare la loro natura aggressiva e le ambizioni di dominio in condizioni nuove: costrette a riconoscere l’indipendenza dei paesi che si sono sottratti al loro controllo, cercano ora di disgregarli facendo appello alle rivalità etniche e tribali. E’ una manovra agevole. I paesi di nuova indipendenza, spesso con confini incerti, mal disegnati o arbitrari, non hanno una consolidata storia unitaria alle loro spalle. Già di per sé, l’eredità coloniale è un terreno fertile per l’emergere di movimenti separatisti e secessionisti, che sono facilmente egemonizzati dall’imperialismo. "Donde il ripetuto, e spesso vano, invito dei capi di questi nuovi Stati a superare il "tribalismo", il "localismo", o qualsiasi altra forza disgregrante ritenuta responsabile dell’incapacità dei nuovi abitanti della Repubblica X di sentirsi, in primo luogo, cittadini della patria X, invece che appartenenti a questa o quella collettività" (Hobsbawm, 1991, p. 202).

Esemplare è la vicenda che si svolge nel Congo tra la fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’60. Costretto a concedere l’indipendenza, il Belgio si impegna subito a promuovere la secessione del Katanga. Non era in nome dell’autodeterminazione che il Congo (come tutta l’Africa) aveva rivendicato e andava rivendicando l’indipendenza? Ebbene, questo medesimo principio doveva ora esser fatto valere anche per la ricca regione mineraria controllata dall’Union minière. Per l’occasione, si trova subito il "rivoluzionario" pronto ad agitare questa bandiera: è Moise Ciombe, "figlio del primo milionario negro" del Katanga. Secessionisti e forze coloniali catturano Lumumba, leader del Movimento nazionale congolese, che si ispira "a un programma unitario, progressista, intertribale". E’ dunque colpevole di opporsi alla secessione e all’"autodeterminazione" della ricca regione cui i colonialisti non intendono rinunciare; viene pertanto massacrato (Santarelli, 1982, pp. 511-2).

Per di più il dominio coloniale ha lasciato i segni: sul piano economico, accentuata risulta la disuguaglianza dello sviluppo tra le diverse regioni; mentre la presenza egemone ad ogni livello delle grandi potenze e la politica di ingegneria etnica talvolta da esse promossa hanno accentuato la frantumazione culturale, linguistica e religiosa. Di nuovo sono in agguato tendenze secessioniste di ogni tipo, regolarmente alimentate dalle ex - potenze coloniali. Quando ha strappato Hong Kong alla Cina, la Gran Bretagna non ha certo pensato all’autodeterminazione, e di questo principio non è si è ricordata neppure nei lunghi anni in cui ha esercitato il suo dominio. Ma ecco che alla vigilia del ritono di Hong Kong alla madrepatria, il governatore inviato da Londra, Chris Patten, un conservatore, ha una sorta di illuminazione e conversione improvvisa: fa appello agli abitanti di Hong Kong perché facciano valere il loro diritto all’"autodeterminazione"… contro la madrepatria, rimanendo così nell’orbita dell’Impero britannico.

Considerazioni analoghe valgono per Taiwan. Quando, agli inizi del 1947, il Kuomintang, in fuga dalla Cina continentale e dal vittorioso Esercito Popolare, scatena contro gli abitanti di Taiwan una terribile repressione che provoca circa 10. 000 morti (Lutzker, 1987, p. 178), gli Stati Uniti si guardano bene dall’invocare il diritto all’autodeterminazione per gli abitanti dell’isola; anzi, cercano con ogni mezzo di imporre la tesi secondo cui il governo di Chiang Kai-shek era il governo legittimo non solo di Taiwan ma dell’intera Cina: il grande paese asiatico doveva dunque rimanere unito, sotto il controllo però di Chiang Kai-shek, ridotto a semplice proconsole dell’imperiale sovrano di Washington. Man mano che dileguano i sogni di riconquista del continente e più forte si avverte l’aspirazione dell’intero popolo cinese a conseguire la piena integrità territoriale e la piena indipendenza, ponendo fine al tragico capitolo di storia coloniale, ecco che i presidenti statunitensi conoscono un’illuminazione e una conversione simile a quella di Chris Patten: cominciano ad accarezzare anch’essi l’idea dell’"autodeterminazione". Incoerenza? Nulla di tutto questo: l’"autodeterminazione" è la continuazione della politica imperiale con altri mezzi. Se proprio non è possibile mettere le mani sulla Cina nel suo complesso, intanto conviene assicurarsi il controllo di Hong Kong o Taiwan.

Così anche nei Balcani. Il diktat di Rambouillet prevedeva per la Nato il controllo militare dell’intera Jugoslavia; un’eroica resistenza ha fatto fallire questo piano; ed ecco ora le manovre per imporre, oltre a quella del Kosovo, l’"autodeterminazione" anche del Montenegro e, possibilmente, di altre regioni. L’imperialismo rivela una ferrea coerenza. Sono invece certi gruppi "trotskisti" a dar prova di totale distacco dalla realtà: credono di essere discepoli fedeli e coerenti di Lenin e Trotski e non si avvedono di trasformare una grande parola d’ordine rivoluzionaria in una "frase". Avviene dunque che, mentre si spellano le mani per applaudire il principio dell’autodeterminazione, gli "eroi della frase" guardano con freddezza o ostilità alla concrete lotte per l’autodeterminazione che si svolgono sotto i loro occhi e che vedono protagonisti paesi come la Jugoslavia e la Cina; anzi questi eroi, pur prendendo le distanze dai bombardamenti, finiscono col riecheggiare alcuni motivi dell’ideologia della guerra della Nato, cioè di un’alleanza che, con la sua nuova dottrina, ha posto in modo esplicito sulle proprie bandiere la cancellazione della sovranità nazionale e dello Stato nazionale, e dunque dello stesso diritto all’autodeterminazione.

Parlando di gruppi "trotskisti", ho usato a ragion veduta le virgolette: pur coi gravi errori commessi nel corso di un complesso e tragico processo di apprendimento che ha coinvolto l’intero gruppo dirigente scaturito dall’Ottobre e il movimento comunista nel suo complesso, il grande rivoluzionario russo non si sarebbe mai sognato di conferire una legittimazione rivoluzionaria all’Uck e al bel Thaci, il capo mafioso, beniamino della Nato e, soprattutto, della Albright, la Lady Killer dell’imperialismo americano.

E così, pur impegnati a rappresentare, nell’ambito del gioco delle analogie, personaggi storici tra loro assai diversi, Cossutta e i suoi involontari imitatori da un lato e i gruppi trotskisti dall’altro rischiano di mettersi al rimorchio di quello che è oggi il peggior nemico sia del principio dell’uguaglianza tra popoli e etnie sia del principio dell’autodeterminazione.

5. Il Führer e l’aspirante sovrano planetario di Washington

In effetti, ben lungi dall’essere dileguati, l’ambizione e il sogno di dominio planetario hanno assunto ai giorni nostri una configurazione ancora più netta. In questo senso, se c’è qualcosa che può far pensare al Terzo Reich, nella visione di Hitler destinato a durare almeno mille anni, è il Nuovo Ordine Internazionale egemonizzato dagli USA, titolari, secondo l’arrogante e visionaria rivendicazione di Clinton, di una "missione" planetaria addirittura "senza tempo". Si comprende allora che Washington rifiuti di pronunciare qualsiasi autocritica per Hiroshima e Nagasaki. Eppure sono autorevoli studiosi stanunitensi a parlare a tal proposito di "olocausto", messo esplicitamente a confronto con l’"olocausto" consumato dai nazisti. Ma gli Usa sono decisi a rivendicare il loro "diritto" all’annientamento nucleare della popolazione civile dei paesi nemici con lo sguardo rivolto non solo al passato ma anche al presente e al futuro. Ecco perché rifiutano ostinatamente di impegnarsi a non far ricorso per primi all’arma atomica. Tutti i popoli del mondo devono aver chiaro che Hiroshima e Nagasaki sono tranquillamente ripetibili ogni volta che Washington lo riterrà opportuno.

Assieme alla minaccia dell’olocausto, gli Stati Uniti fanno anche riemergere la realtà terribile dei campi di concentramento. Cosa sono infatti gli embarghi se non una versione post-moderna del campo di concentramento? In epoca di globalizzazione, non c’è più bisogno di deportare un popolo: basta bloccare l’afflusso di cibo e medicinali; tanto più poi se, con qualche bombardamento "intelligente", si riesce a distruggere acquedotti, fognature e infrastrutture sanitarie, come per l’appunto è avvenuto in Irak e in Jugoslavia.

Né le analogie con il Terzo Reich si fermano qui. Ieri come oggi, gli autoproclamatisi signori dell’universo considerano il diritto internazionale alla stregua di un pezzo di carta: non valgono nulla né la sovranità nazionale né le norme che dovrebbero regolare il conflitto armato. In occasione della guerra del Golfo, gli Usa non hanno esitato a "sterminare gli irakeni ormai fuggiaschi e disarmati" (Bocca, 1992); per l’esattezza, a sterminarli "dopo il cessate il fuoco" ("Corriere della Sera" del 9 maggio 1991). In modo ancora più sovrano si è manifestato il disprezzo del diritto internazionale in occasione della spedizione punitiva contro la Jugoslavia: sono lì a testimoniarlo i proiettili all’uranio, le bombe a frammentazione, l’esecuzione, mediante il bombardamento della TV serba, dei giornalisti considerati politicamente scorretti dalla Nato.

Gli Usa si riservano il diritto di fare a pezzi, a loro piacimento, questo o quel paese, ad esempio proclamando in Irak le no fly zones e bombardando sistematicamente chi dovesse anche solo osare puntare il radar contro gli aerei invasori. A partire da Washington, una sorta di mafioso tribunale segreto commina condanna a morte a carico di questo o quel capo di Stato. Un articolo dell’"International Herald Tribune" annuncia giubilante: la Cia ha stanziato somme enormi "per trovare un generale o un colonnello che conficchi una pallottola nel cervello di Saddam" (Hoagland, 2000).

Indipendentemente da questo o quel singolo crimine, siamo portati a pensare al Terzo Reich per una questione politica centrale. Il gigantesco processo di emancipazione dei popoli in condizioni coloniali o semicoloniali, messo in moto dalla rivoluzione d’Ottobre, si è scontrato con due grandi ondate controrivoluzionarie: se la prima è rappresentata dal nazismo, la seconda prende ora forma nella nuova dottrina della Nato. Ritorna così d’attualità il principio classico di legittimazione delle guerre coloniali: sinonimo di civiltà, l’Occidente guidato dagli Usa ha il diritto e il dovere di diffonderla in ogni angolo del mondo, spazzando via i barbari che dovessero intralciare questa marcia trionfale. Infine. L’ideologia cara al nazismo, che celebrava i tedeschi come il "popolo dei signori", destinata dalla natura o dalla provvidenza ad esercitare l’egemonia mondiale, tale ideologia continua a mostrarsi vitale nell’imperialismo Usa: per fare solo un esempio, Kissinger non esita a dichiarare che "la leadership mondiale è inerente al potere e ai valori americani".

Non c’è dubbio: se proprio si vuol far ricorso al gioco delle analogie, a rassomigliare al Führer è l’aspirante sovrano planetario che siede a Washington. E, tuttavia, sarebbe fuorviante vedere in Clinton il "nuovo Hitler. Non si tratta tanto di stabilire una gerarchia dell’orrore. Certamente, nell’ambito di questa gerarchia un posto eminente dev’essere riservato a un individuo che, mediante embargo, condanna un intero popolo alla decimazione, e lo condanna non già nel corso di un conflitto per la vita o per la morte, ma in tutta tranquillità, senza correre alcun pericolo né per sé né per il paese che rappresenta, a freddo, anzi in modo giulivo, tra una scorribanda sessuale e l’altra.

6. "Filantropia più 5% più politica delle cannoniere"

Se, tenendo conto del diverso contesto storico e geopolitico, Clinton non risulta meno repugnante di Hitler sul piano morale, resta comunque il fatto che profondamente diversi risultano la tradizione politica e ideologica alle spalle dei due personaggi, il contesto storico in cui essi agiscono, le tattiche e le parole d’ordine cui fanno ricorso. Al contrario di quello nazista, l’imperialismo americano non aspira oggi al controllo politico diretto delle sue colonie o semicolonie. Esso mira piuttosto a trasformare il mondo intero in un "libero mercato" e in una "democrazia" intesa come "libero mercato politico", aperto alle merci e ai "valori" made in USA. Alla realizzazione di tale obiettivo mirano in modo convergente da un lato la promozione delle rivalità etniche e dei movimenti separatisti dall’altra le campagne per i "diritti dell’uomo". Agli occhi di Washington un partito politico fortemente organizzato è altrettanto intollerabile di una fiorente e autonoma economia e tecnologia nazionale (la Cina Popolare costituisce un pugno nell’occhio da entrambi i punti di vista). I paesi che possono costituire un ostacolo alla marcia verso l’egemonia mondiale devono essere smembrati e spalancarsi alla strapotenza economica, multimediale, culturale e politica dell’imperialismo americano. Nell’ombra è pronto a intervenire in modo diretto, scatenando "guerre umanitarie", un mostruoso apparato militare di distruzione e di morte.

Più che a quello nazista, l’odierno imperialismo americano fa pensare all’imperialimo britannico che, con la sua espansione, si sentiva impegnato a "rendere le guerre impossibili e promuovere i migliori interessi dell’umanità". Ad esprimersi in tal modo è Cecil Rhodes, il quale così sintetizza la filosofia dell’Impero britannico: "filantropia + 5%" (Williams, 1921, pp. 50-1); dove "filantropia" è sinonimo di "diritti umani" e la percentuale del 5% sta ad indicare i profitti che la borghesia capitalistica inglese realizzava o si proponeva di realizzare mediante le conquiste coloniali e l’agitazione della bandiera dei "diritti umani". Vediamo ora in che modo un giornalista statunitense descrive e celebra la globalizzazione: questa serve ad esportare in primo luogo "i prodotti, le tecnologie, le idee, i valori e lo stile del capitalismo americano". Gli Usa possono quindi consolidare ed estendere la loro egemonia "sia stabilizzando il mondo militarmente sia democratizzandolo economicamente e politicamente"; in particolare, "per smuovere la Cina", essi devono saper combinare "cannoniere, commercio e investimenti Internet", oltre, naturalmente, alla parola d’ordine della "democratizzazione" economica e politica (Friedman, 2000). La formula cara a Rhodes, il cantore dell’imperialismo britannico, può quindi essere riformulata con maggiore precisione e franchezza: "filantropia (ovvero diritti dell’uomo) + 5% + politica delle cannoniere". Le cannoniere sono essenziali già per stimolare il processo di globalizzazione: il giornalista già citato invita Israele a non fare nessuna concessione sul Golan "sino a quando non vede la Siria entrare nel mondo" e cominciare a "privatizzare e deregolamentare" (Friedman, 1999). D’altro canto, è stato notato che, agli occhi della Nato, uno dei crimini più gravi di Belgrado è nel suo rifiuto di "adottare il modello neoliberista imposto dalla globalizzazione" (Ramonet, 1999).

C’è dunque una ferrea unità in questa formula: "filantropia + 5% + politica delle cannoniere". E’ la sinistra che non riesce a comprenderlo. Condanna le "guerre umanitarie" ma appoggia l’opposizione a Milosevic; epperò, se andasse al potere, questa "opposizione" profumatamente pagata da Washington e dall’Occidente nel suo complesso, spalancherebbe il paese alle merci e all’egemonia culturale e politica degli Usa e della Nato, la quale finirebbe con l’allargarsi ancora di più, inglobando la stessa Serbia; e così la "guerra umanitaria" conseguirebbe tutti gli obiettivi per i quali è stata scatenata. Sulla stampa americana è possibile leggere delle denunce che parlano degli Usa come di un paese in cui domina la "plutocrazia", nell’ambito delle quale le istituzioni sono controllate dalla ricchezza, mentre "il resto del popolo è lasciato fuori" da ogni possibilità di influire sulle scelte politiche (Pfaff, 2000). Eppure una certa sinistra guarda sì con sgomento all’avanzare del mercato globale e allo smantellamento dei diritti economici e sociali, ma poi si accoda alle campagne per la "democrazia" come se la plutocrazia di Washington non giocasse alcun ruolo in queste campagne e come se il trionfo del mercato politico non andasse di pari passo col trionfo del mercato economico.

La confusione è totale: quanti articoli sono apparsi e appaiono sul "manifesto" che invitano l’Occidente ad essere ancora più intransigente nella sua campagna per i "diritti dell’uomo" in Cina? Assistiamo così al singolare spettacolo di un "quotidiano comunista" che fa appello alle potenze capitalistische perché scatenino una guerra, per ora solo "fredda", contro la Repubblica fondata da Mao Zedong e tuttora diretta dal Partito Comunista.

Nella strategia dell’imperialismo, la crociata "filantropica" per i "diritti dell’uomo" è il primo passo di una scalata che, attraverso le rappresaglie commerciali e poi l’embargo più o meno totale, conduce all’aggressione militare vera e propria; ma un certa sinistra sale per un pezzo su questa scala infernale e si dimena scompostamente per scendere, solo quando comincia ad avvertire il puzzo del bruciato e il fragore delle bombe.

7. Il pericolo principale

In mancanza di un’analisi concreta della situazione concreta, la sinistra si rivela incapace di elaborare un’autonoma strategia. Perde di vista il nemico principale. Ad Haider viene giustamente rimproverato il tentativo di parziale riabilitazione delle Waffen SS (anche al loro interno c’erano persone "rispettabili"!); ma non bisogna dimenticare che nel 1985 è stato lo stesso presidente Usa, Reagan, a rendere omaggio, nel cimitero di Bitburg, assieme a Kohl, a questi corpi militari, che, se anche non vanno confuse con le SS vere e proprie, costituivano comunque uno strumento essenziale dell’infame politica del Terzo Reich. E dunque sono stati Washington e Bonn ad impegnarsi per primi in questa spregiudicata operazione revisionistica.

Ma veniamo al presente. Mentre si strappavano le vesti per il caso Haider, gli Usa, d’accordo coi loro alleati europei, conducevano nel Kosovo un’orribile pulizia etnica. Già nell’agosto dello scorso anno l’Human Rights Watch di New York calcolava che "dall’arrivo delle truppe Nato a metà giugno più di 164. 000 serbi sono fuggiti dal Kosovo"; altri 200 circa non hanno avuto questa possibilità: sono rimasti vittima di attentati o massacri (Fraser, 1999). Chiunque ha osato parlare in pubblico in serbo si è attirato o ha rischiato di attirarsi "una sommaria sentenza di morte" (Finn, 2000 b)

L’Uck non è la sola responsabile. Facendo ricorso ad un grazioso eufemismo, sempre insospettabili fonti americane riconoscono che "la protezione dei civili serbi e dei luoghi santi non era in posizione eminente nella scala di priorità" delle truppe di occupazione; anzi, il generale Jackson riteneva che il suo compito sarebbe stato più agevole "se fossero rimasti meno serbi" (Erlanger, 2000 a). Contemporaneamente, nel Kosovo le porte sono state "spalancate ai nuovi immigrati dall’Albania" (Nava, 2000). Dunque, una pulizia etnica in piena regola. Visto il successo dell’operazione, perché bloccarla alle frontiere della regione ora controllata dalla Nato? E in effetti l’Uck si spinge al di là, nel Presevo: ha ora un nuovo nome e nuove uniformi, "un misto tra quelle tedesche e quelle americane", e "si esercita" anche con armi pesanti, in territorio serbo, sotto gli occhi benevoli delle truppe Usa (Erlanger, 2000 b). Ci sono già le premesse per un rilancio in grande stile della "guerra umanitaria".

Inane e ridicola è l’attesa di un "nuovo Hitler"; ma la permanente barbarie dell’imperialismo esige sin d’ora una strategia coerente e una risposta all’altezza della situazione.

Domenico Losurdo

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