L'illegalità
della sporca guerra dell'Afganistan

di Aldo Bernardini

I titoli enfatici di lunedì 5 novembre su "l’Italia in guerra" (contro il popolo afgano) segnalano come urgente la riproposizione - anche se con nulla presunzione di ascolto, ma sotto la cogenza dell’imperativo morale e della coscienza scientifica - della questione della liceità (legittimità) internazionale dell’azione armata condotta contro l’Afghanistan dagli Stati Uniti quali capofila di una multiforme coalizione a geometria variabile: l’Italia si offre ora fra i comprimari. La risposta assolutamente negativa alla questione, che anticipo in vista dell’argomentazione che segue, pone con tutta chiarezza fuori gioco l’art. 5 del Trattato NATO, che ha la stessa valenza dell’ari. 51 della Carta delle N.U. e in questo va inquadrato, mentre porta in prima linea l’art. 11 della Costituzione repubblicana, con il suo incondizionato divieto della guerra non di pura difesa, del tutto combaciante con gli imperativi della Carta delle N.U.

Questo va fatto, dopo più di un mese di bombardamenti sull’Afghanistan, con centinaia, forse migliaia di vittime civili; con l’utilizzo di forme di attacco e di strumenti che rendono inevitabili i c.d. "danni collaterali’’, ed in misura ingente, quali i bombardamenti a tappeto, le bombe a grappolo e così via; con la distruzione di strutture non militari, sanitarie, di culto e danni enormi a un’economia già povera e disastrata ed a fronte persino della palese mancanza di risultali, almeno di quelli dichiarati. E senza che ci si addentri nelle violazioni dello jus in bello e delle norme umanitarie, tutti infranti senza infingimenti, al fine evidente di addomesticare una popolazione posta di fronte all’alternativa (il classico bastone e carota) fra bombe e pacchi alimentari, impongono la riconsiderazione i veri obiettivi che vanno delineandosi, dall’insediamento a Kabul di un governo "amico", per quanto sinora operazione di non facile attuazione, al controllo degli accessi alle fonti di energia dell’Asia Centrale e in specie degli oleodotti da costruirsi, sino eventualmente alla penetrazione strategica con basi militari per circondare da vicino Russia, Cina, Iran, India, per non parlare della ventilata estensione degli attacchi ad altri Stati (Iraq, in primo luogo). L’argomento della legittima difesa anche collettiva a seguito degli attentati dell’11 settembre negli USA mostra ormai chiaramente la corda. Ma non ha avuto pregio in nessun momento. E per quanto il diritto internazionale ancora una volta appaia dotato di scarsa o nulla effettività, esso mantiene, se correttamente inteso, la qualità di mezzo di orientamento valutativo e ogni mistificazione del suo reale contenuto deve venire sventata.

Di recente, un esponente dell’amministrazione USA, John Bolton, ha addirittura sostenuto che "‘il diritto internazionale non esiste". Tale drastica conclusione ha avuto il merito della sincerità circa la posizione americana. Essa viene contraddetta da chi comunque fa ricorso alle categorie del diritto delle genti, ma la smentita è solo apparente se, come ha fatto l’on. Giorgio Napolitano (‘"Repubblica" del 14 ottobre), si finisce per dire che il diritto internazionale, per quanto concerne l’ONU, esiste, qualora a Nazioni (Unite) sostituiamo Stati (Uniti). Secondo il parlamentare ex comunista, da lunga data amico degli USA, questi starebbero agendo, insieme anzitutto alla Gran Bretagna, in legittima difesa dopo gli attentati terroristici, come avrebbero riconosciuto due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza (non si dice però che "la necessità di combattere il terrorismo con tutti i mezzi" vi è espressa non nel dispositivo, bensì nei consideranda, per sé privi di valore giuridico operativo): ciò sarebbe poi convalidato, dopo l’informazione fornita dai due Stati al C.d.S. l’8 ottobre, da un comunicato stampa del presidente dell’organo consiliare, che ha dato atto dell’apprezzamento dei membri del C.d.S. per l’azione militare contro l’Afganistan. In mancanza dunque persino di un’espressione formale del Consiglio, questo, e quindi le stesse Nazioni Unite, divengono lo zimbello degli USA e dei loro sodali.

E valga il vero. Evito qui considerazioni di sostanza e mi limito a svolgere, secondo il mio mestiere, riflessioni basate sul diritto internazionale: senza indulgere a quelle teorizzazioni che gabellano per diritto il volere dei "forti". L’Afganistan è Stato indipendente e sovrano, membro delle N.U. e nulla rileva che, essenzialmente per ingerenze esterne, vi siano al momento due governi attori di una guerra civile (stabilire quale sia il governo "legittimo" non conta ai fini del mio discorso). Primo obbligo degli Stati estranei è (sarebbe) di non ingerirsi nella guerra civile e di non prefigurare gli scenari futuri, da riservarsi esclusivamente alla dialettica fra gli afgani. A date condizioni, proposte di soluzione potrebbero venire dall’ONU. Il c.d. regime dei Talebani (reazionario, certo, ma l’Alleanza del Nord non è molto da meno, e non va dimenticato che anche il primo è stalo creato e nutrito in ultima istanza dagli USA) potrebbe assurgere a paladino dell’indipendenza del Paese e quindi a gestore dell’autodeterminazione (esterna) a fronte dell’altra compagine che, in quanto oggi sostenuta ed eventualmente "fatta vincere" dall’esterno, si configurerebbe, al pari di qualunque coalizione in condizioni simili, come governo Quisling. L’obiettivo di predeterminare dall’esterno il futuro governo afgano viola il precetto cogente dell’autodeterminazione e della non ingerenza.

Non vi è dubbio che i Talebani hanno la responsabilità di quanto avviene sul territorio da essi controllato. Se si dimostrasse in modo adeguato che attentati terroristici all’estero - di per sè azioni individuali e non dello Stato afgano - sono stati eseguiti a partire (non esploriamo ciò che questo possa significare) dall’Afganistan, lo Stato colpito avrebbe il diritto di chiamare in responsabilità il potere afgano che avesse mancato di impedire gli atti terroristici e quello di esigere attività di ulteriore prevenzione e repressione. Ma questo a una condizione precisa: di fornire agli stessi Talebani non intimazioni fondate su vaghi indizi, congetture, teoremi, bensì prove - certo, non quelle necessarie a un giudice per condannare, bensì comunque elementi seri e oggettivi - della colpevolezza dei presunti autori. Non aver soddisfatto le richieste in tal senso dei Talebani - non importa ora quanto sinceri e pronti a trarre le conseguenze - è dimostrazione di arroganza e razzismo, che giuridicamente elude di porre in mora il regime talebano in rapporto, fra l’altro, al criterio "giudicare o estradare". La pretesa di uno Stato di ottenere la consegna di una o più persone sulla base di proprie asserzioni non comprovate, nel rapporto con la parte richiesta, è legalmente insostenibile.

Veniamo al punto centrale. Erroneo è ritenere che gli Stati Uniti (e la Gran Bretagna e quanti altri) stiano agendo in "legittima difesa", anche c.d. collettiva. Questa, in teoria generale e secondo l’art. 51 Carta, al di là di differenze terminologiche in dottrina e della non corretta versione corrente italiana (che traduce con autotutela l’inglese self-defence), si ha solo "in costanza di attacco" (dall’esterno e cioè di per sé da parte di uno Stato), in altri termini in immediata reazione ad un attacco in corso - o, al più, che sia assolutamente incombente e in procinto di partire, oppure in continuità senza soluzione temporale con esso, ma sempre al fine di bloccare o interrompere l’attacco e le sue conseguenze dirette, come, forse, un’occupazione territoriale. Inoltre, è difficile parlare in senso proprio di legittima difesa (internazionale) a fronte di un attacco "non statale". Si tratterebbe piuttosto, ad es. con l’intercettazione e l’abbattimento o l’inseguimento di aerei coinvolti in azioni terroristiche, di "azione di polizia in senso lato" interna, non estensibile in principio a sfere di sovranità altrui. Una reazione immediata verso l’esterno non è stata comunque posta in essere dagli Stati Uniti, ammesso pure che ne ricorressero i presupposti (e comunque solo fino all’intervento del C.d.S. con proprio misure, come detta ancora l’art. 51 ).

L’attacco contro l’Afganistan, più che quale rappresaglia (azione puntuale punitiva, nella forma armata, vietata almeno dal sistema delle N.U.), si configura come un’azione di autotutela in senso lato, e cioè attività posta in essere da uno Stato per tutelare un proprio diritto violato o in concreto minacciato con sufficiente incombenza (nel caso, quello a non subire attacchi terroristici dall’esterno), ad es. sostituendosi all’attività dello Stato asserito di provenienza, in ipotesi inerte o addirittura complice. Ma anche questa autotutela, se armata, è vietata almeno dal sistema delie N.U. nella forma individuale e ancor più associata. Essa deve venire sostituita dalle misure coercitive di "tutela collettiva" decise dal C.d.S. in base al cap. VII, e cioè agli artt. 41 e 42 Carta: senza o con uso della forza, in questo secondo caso potendosi parlare di "azioni di polizia internazionale". Qui occorre eliminare equivoci. Non si tratta di attività, sul territorio di uno Stato, di "sceriffi" stranieri, bensì di azioni del C.d.S., tramite gli Stati chiamati ad attuarle, meramente esecutive (né normative né giurisdizionali) con uso limitato della forza disposto e diretto dal C.d.S. stesso al fine esclusivo di sventare e far rientrare l’attività contraria o la minaccia attuale e concreta alla pace e alla sicurezza internazionale. Pur ammesso e non completamente concesso che il terrorismo (non di Stato) concreti in ogni caso tali fattispecie - ma appare imprescindibile la messa in mora di cui sopra nei confronti dello Stato "ospite" -, la "polizia internazionale", in principio difficilmente affidabile allo Stato o agli Stati interessati in quanto vittime dell’atto terroristico, o almeno solo ad essi, non potrebbe estrinsecarsi in un’azione diretta ad eliminare il "terrorismo" in generale su scala planetaria o anche, se non eccezionalmente e su basi certe, a combatterlo nella sua totalità in quanto (asseritamene) radicato in uno o più Stati: occorrerebbe sempre comprovare l’attuale e concreto compimento di atti terroristici o la loro assoluta incombenza e tenere ben distinte altre ipotesi, quali le lotte dì autentica autodeterminazione.

Il C.d.S. può dunque legittimamente decidere solo, al massimo, azioni di contingenti armati forniti dagli Stati e posti sotto comando "neutro" N.U. in rapporto a concreti episodi, singoli o fra loro connessi, provenienti dal territorio di determinati altri Stati (appunto se comprovati e, per quanto possibile, una volta esperiti invano altri mezzi), ma non può validamente dettare normative (che ad esempio sostituiscano convenzioni internazionali); può con quei contingenti occupare provvisoriamente territori al fine di conseguire risultati relativi alla situazione di minaccia o violazione dei diritti dello Stato vittima, ma non può decidere guerre (a finalità politiche generali di cambiamento di regime o di governo di un altro Stato, di modifiche territoriali o normative interne, di esercizio di giurisdizione di carattere interno, salvo forse che in base al diritto bellico, applicabile anche nel quadro delle operazioni decise dal C.d.S.). Naturalmente, deve essere rigettata la prassi dell’autorizzazione del C.d.S. a Stati, pure fra loro associati, ai fini dell’uso della forza, men che meno con obiettivi generali di guerra.

So bene che, anche al di là di quest’ultima ipotesi, i limiti che ho indicati sono stati, soprattutto a partire dalla guerra del Golfo, travalicati. Se giuridicamente ciò vizia di illegittimità le relative decisioni del C.d.S., nel concreto è equivalso a consacrare ex post (invalidamente, a mio parere) decisioni di talune potenze, in particolare degli Stati Uniti. Ma questi non sono le Nazioni Unite: non possono legittimamente porre in opera loro reazioni a scoppio ritardato e farsele poi "approvare" o ritenerle comunque autorizzate. In realtà, invece della "polizia internazionale", si ha la strumentalizzazione della situazione, da parte di uno o più Stati, per loro obiettivi politici ed economici.

Non c’è peraltro bisogno di spingere ulteriormente il ragionamento, in rapporto all’attacco anglo-americano contro l’Afghanistan. Esso, nella forma e finalità che ha assunto, non potrebbe venire validamente deciso, né tantomeno autorizzato, dal C.d.S. Ma di fatto l’uso della forza non è stato per nulla autorizzato né dalla ris. 1368 (2001) del 12 settembre, subito dopo gli attacchi terroristici negli USA, né dalla ris. 1373 (2001) del 28 settembre. Non è certo sufficiente il richiamo al cap.VII né il riferirsi agli atti dì terrorismo come "minacce alla pace e alla sicurezza internazionali": sarebbe necessaria nel dispositivo una specifica menzione (e per me un concreto organamento), sempre nel concorso delle relative specifiche condizioni, di misure implicanti l’uso della forza, mentre è ovviamente senza significato la riserva della "legittima difesa": questa, quando configurabile, non va autorizzata, bensì solo comunicata al C.d.S., ma essa non è stata esercitata nei termini propri alla figura e non ha senso invocarla con distacco temporale rispetto agli avvenuti atti terroristici, e quando il C.d.S. decide proprie misure, non importa qui se a loro volta legittime o meno, ex art. 41 (senza uso della forza) e resta investito della questione, dichiarandosi pronto ad assumere ulteriori decisioni. Si noti poi che le dette risoluzioni non indicano nessuno Stato (ad es. l’Afganistan) quale responsabile degli atti terroristici: mi sembrerebbe di dar di matto se ravvisassi in esse un’autorizzazione (ripeto, comunque impossibile) all’uso della forza, che risulterebbe quindi esplicabile nell’universo mondo. Di nessun rilievo giuridico è infine la nota del presidente del C.d.S. (S.C. 7167), che soltanto attesta lo schiacciamento dell’organo e dei suoi componenti sulla volontà USA in assoluta deviazione dai principi fondanti del diritto internazionale e delle N.U. Si deve riflettere sul fatto che, godendo USA e Gran Bretagna del diritto di veto, essi sarebbero in condizione di impedire misure proprie del C.d.S., e quindi di prolungare a piacimento la (falsamente asserita) attività di legittima difesa.

L’azione anglo-americana è, per concludere, tecnicamente azione di autotutela armata, di per sé oggi vietata e non autorizzabile, nei confronti di uno Stato per attività non sue, bensì individuali, rispetto alle quali l’Afganistan non è stato adeguatamente messo in mora (mancata consegna delle prove: non è sufficiente in principio l’incriminazione di dati individui da parte di tribunali nazionali, magari per episodi passati). Quell’azione ha assunto addirittura i caratteri di una guerra (perchè a fini generali) a maggior ragione non autorizzabile, ma di fatto non autorizzata, dal C.d.S., ed è dunque illecita nella forma più grave, quella del crimine internazionale. Nei fatti, rischia fortemente di incrementare, e piaccia o no motivare, i fenomeni che si dichiara di voler combattere, perché aggiunge terrorismo (di Stato) a terrorismo.

Aldo Bernardini
5 novembre 2001

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