Insistere, insistere, insistere

Insistere, insistere, insistere: nello sforzo di contribuire al dialogo fra i tanti comunisti dispersi in piccole formazioni o anche, ma con sofferenza, in partiti istituzionali, quando non addirittura isolatisi nel privato.

Seguitiamo a credere che questo è l’imperativo dell’ora. Occorre passare dal rifiuto degli attuali partiti istituzionali, che pur si richiamano al comunismo (e non discutiamo qui in che modo, salvo quel che risulterà più avanti), alla messa a frutto positiva e costruttiva del dato fondamentale che ci accomuna: almeno quelli che respingiamo il "revisionismo moderno", il veleno che - certo ricollegandosi a precedenti storicamente ben determinati nel movimento internazionale - ha inficiato (a partire da Tito e da Krusciov) la gigantesca impresa dei comunisti nel secolo XX, l’edificazione del socialismo (una prima fase di transizione) in Unione Sovietica e quindi in altri Paesi, e l’ha poi portata almeno in Europa ad una sconfitta catastrofica per il movimento operaio di tutto il mondo, per i lavoratori, per la pace.

Chi condivide questi presupposti e vuole una società di liberi ed eguali da raggiungersi con gli inevitabili passaggi rivoluzionari ma nei tempi storici necessari, accettando anche i duri costi che tutto ciò comporta, senza cedere a sogni e fantasticherie, deve compiere il massimo sforzo di unità, deponendo personalismi, pregiudizi, astratte schematizzazioni, pretese di incarnare da soli la verità o la "linea giusta". Occorre finirla con la sterile frantumazione di gruppetti, iniziative, rivistuole per ricostituire invece un tessuto unitario ai fini dell’azione politica e anzitutto, inevitabilmente, culturale che incombe. L’analisi scientifica delle grandi rivoluzioni del secolo XX, dell’edificazione di società nuove, dei successi e quindi delle cause e delle forze di decadenza e degenerazione va compiuta con severo e sereno spirito critico, senza apologie ma anche senza demonizzazioni opportunistiche.

Cito da una lettera al "Venerdì di Repubblica" del 03.05.2002. Un lettore chiede: "La sinistra ha una visione del mondo concreta o naviga ancora nelle acque dell’utopia? Secondo me… né una cosa né l’altra. L’utopia dell’eguaglianza e della felicità generale, insomma il paradiso in terra senza più classi e senza più Stato, ha dato i frutti che conosciamo e non poteva darne altri perché la pianta uomo (e donna) è quella che è, groviglio di passioni, egoismi, invidie e volontà di potenza. - Quelli che pensano ad un nuovo comunismo senza più le orribili storture del "socialismo realizzato" illudono se stessi e chi li ascolta. Ma non mi pare che, nel vuoto lasciato dal mito infranto, sia emersa una visione concreta e alternativa ai valori e agli obiettivi della destra e cioè al mercato libero e alla solidarietà verso i più deboli. Questi obiettivi e questi valori sono comuni. Può cambiare il modo di arrivarci, ma questo aspetto da solo non basta a differenziare due forze politiche. Insomma la filosofia di base è sempre più il liberalismo e il centrismo e gli elettori sanno che la destra è il braccio naturale che può realizzare e gestire questa filosofia condivisa. - Se tutto questo è vero, la sinistra rappresenterà soltanto un utile ed anzi indispensabile elemento di confronto e di controllo…".

Questo è il senso comune ormai introiettato ad ogni livello. Mi pare evidente per quanto riguarda la c.d. sinistra "moderata" o "progressista": la questione è la gestione del sistema capitalistico, unico ed ultimo orizzonte storico. Ma vale anche per gli "alternativi" o "antagonisti": "illudono se stessi e chi li ascolta". Ne sono persuaso. E il nodo è l’accettazione del punto fondamentale indicato dal lettore: "l’utopia dell’eguaglianza e della felicità generali… ha dato i frutti che conosciamo e non poteva darne altri". Questo punto cruciale ha attraversato tutta la storia del movimento operaio e della lotta per il socialismo, alimentando i vari riformismi e revisionismi, dando argomenti - a fronte delle realizzazioni del socialismo sul pianeta - a socialisti rivoluzionari, trotzkisti, socialdemocratici, alle ricerche di "terze vie", alle vie "nazionali" al socialismo, all’eurocomunismo: oggi in particolare alle posizioni di Rifondazione comunista che, da sempre, nel suo nome stesso, ha voluto esprimere il rigetto dell’esperienza del "socialismo realizzato", sino alle periodiche e plateali sconfessioni dello "stalinismo" e allo sbocco, tra grottesco e demenziale, dell’ultimo Congresso, per cui "lo stalinismo non ha nulla a che fare con il comunismo".

Ciò porta quel partito proprio nel vicolo cieco denunciato dal lettore "borghese" e ci induce a ritenere che è stata innescata la retromarcia del socialismo "da scienza ad utopia": naturalmente, con il carattere "farsesco" che assumono spesso nel processo storico ritorni e ricorsi di cose a loro tempo serie. L’innegabile durezza della storia reale viene rifuggita con un espediente semplicistico: si assume il punto di vista borghese sui mali del mondo (e certo sarebbe interessante riflettere su quanto in tutto ciò conti la componente piccolo-borghese, da sempre dominante nel riformismo e nel revisionismo): al centro non viene posta la situazione di disuguaglianza "strutturale", oppressione, sfruttamento, inaudita violenza subita dalla stragrande maggioranza dell’umanità già per il semplice funzionamento dei meccanismi capitalistici, secondo una corretta visione (in definitiva) di classe, sicché si giustifica il diritto a rovesciare l’ordine esistente anche con la forza rivoluzionaria, non solo iniziale ma pure per difendere il nuovo ordine rivoluzionario. Questo è stato, e non può non essere, l’autentico punto di vista proletario. Anche se viene rifiutata la visione del sistema capitalistico come l’unico possibile salvo correzioni, ritocchi e "governo" di esso, anche se si professa che "un altro mondo è possibile" e qualche volta - ma quanto di rado e timidamente e a mezza bocca - si dice che va superata la proprietà privata dei mezzi di produzione, tutto ciò dovrebbe invece raggiungersi, secondo i sedicenti "innovatori", per una sorta di rifiuto morale-politico collettivo, di massa, una fuoriuscita dal sistema effettuata mediante la convinzione, il consenso ma - il ciel ci guardi! - non con la violenza rivoluzionaria (predicata da Marx, al quale pure ci si richiama!), non con la presa del potere (che per costoro non va perseguita) e il suo uso per la trasformazione rivoluzionaria. Si occulta così il fatto fondamentale che il sistema capitalistico, e tanto più nella fase imperialistica, è come detto esso stesso violenza sugli oppressi e si accredita l’idea che decisivo possa essere un utilizzo "progressista" (gabellato per "rivoluzionario" in sé) dei meccanismi istituzionali. Sia chiaro: nessun dogmatismo sul punto. Se ci si riuscisse… ben sarebbe e nessuno lo rifiuterebbe ma il punto discriminante è che in nessun caso può essere rifiutata aprioristicamente l’ipotesi realmente rivoluzionaria con tutti i mezzi resi leciti dalla violenza sociale subita e dal rifiuto violento che i dominanti hanno sempre opposto ai mutamenti di fondo.

Si dice: ma il tentativo storicamente realizzato è fallito. Per questo occorrerebbe tentare altre vie. Anche qui, il problema non è il "tentare altre vie" in sé: è chiaro che ogni epoca e situazione richiede "proprie vie". Il punto vero è che si dà una falsa analisi del "fallimento" e quindi di ciò che del passato va rifiutato o superato. Secondo la visione oggi corrente, tutto. Ma qui casca… con quel che segue.

Ne deriva infatti che, forse per la prima volta nella storia, un partito che si richiama al comunismo fa professione aperta di anticomunismo, precisamente nei riguardi di quel che storicamente è esistito, ha avuto concreta e reale esistenza, nel cui nome tante battaglie, vittorie e pure sconfitte vanno segnate. Per la prima volta un partito che si richiama al comunismo fonda in modo antiscientifico le proprie prospettive sulla negazione, e quindi la falsificazione, della storia. Si rovescia l’affermazione del "Quotidiano del popolo" di Pechino del 29 settembre 1956, il quale dopo l’infausto XX Congresso del PCUS affermava che "se si esamina la questione da ogni lato (e cioè - n.d.a. - tenendosi presenti i successi ed anche i "presunti" errori di Stalin, questi secondi per l’articolo prendendo "il secondo posto dietro ai meriti"), ‘stalinismo’, se proprio vuole usarsi tale concetto, in prima linea significa solo comunismo e marxismo-leninismo…". Questo, a parte ogni riserva sulla scientificità dei termini usati, era, accanto al necessario esame di eventuali limiti ed errori, il sentimento e questa l’analisi di chi aveva compiuto grandi rivoluzioni e stava cimentandosi nell’edificazione di realtà nuove. Ci sia consentito, a ragion veduta, e con tutta la disponibilità alla critica, mantenere questa bandiera, alzata da giganti, contestata oggi, sulla scia e con gli argomenti del revisionismo di sempre, da piccolo-borghesi che a tavolino giocano a sognare rivoluzioni nominali e illusionistiche. Il fondamentale errore - respinto dagli autentici comunisti che ancora esistono anche nei vari Paesi oggi ex socialisti - è quello, estraneo ad ogni serio punto di vista scientifico, per cui la storia anzitutto sovietica sarebbe un tutto unitario, con il fallimento iscritto fin dagli inizi: e per questo Lenin viene ridotto ad un’icona quando non direttamente gettato via come Stalin: del resto, nella fase iniziale, si rivolgevano a Lenin accuse simili a quelle che poi verranno riservate a Stalin. Quest’ultimo, ricollegandosi al primo, ha ammonito in diverse occasioni sulla possibilità della sconfitta, dato il perdurare della lotta di classe e l’azione dell’imperialismo, qualora le contraddizioni nella società socialista non fossero state "convenientemente" governate. E’ ciò che è accaduto, con il prevalere del revisionismo e le insorgenze piccolo-borghesi, che hanno gradualmente avvelenato la vicenda del socialismo realizzato. Altro che "stalinismo che nulla ha a che fare con il comunismo"! E che sarebbe il mondo d’oggi senza i Paesi non capitalistici ancora in piedi (che cos’è Cuba? E gli altri, la Corea popolare, ad es.?), senza la decolonizzazione, senza i comunisti che ancora lottano anche nei Paesi ex socialisti? Come sarebbe stato il mondo senza l’Unione Sovietica? E come è oggi senza l’Unione Sovietica? Siamo seri! Consiglio vivamente di studiare quanto nei Paesi dell’Est i comunisti vanno elaborando sul revisionismo e la sua deleteria azione. Kurt Gossweiler, che già tanto ha scritto contro il revisionismo kruscioviano, ha ora licenziato un altro lavoro assai documentato sui seguiti letali del XX Congresso del PCUS, le lotte che si scatenarono nei diversi partiti comunisti, la resistenza al revisionismo che venne tentata e di cui qui tutto si ignora.

Ancora dal "Venerdì di Repubblica" (10.05.2002): Paolo Garimberti si meraviglia che "una trentina di anni fa, quando a Mosca regnava Leonid Brezhnev, una donna russa, il cui marito aveva fatto dieci anni di lavori forzati in un lager siberiano ai tempi di Stalin, mi lasciò di stucco affermando che Brezhnev era un piccolo burocrate megalomane che affamava il popolo, mentre il dittatore georgiano era ‘un grande leader che aveva sconfitto i tedeschi e non faceva mancare nulla alla gente’… La discussione era nata da un futile motivo": la donna sovietica ribadiva che ai tempi di Stalin il popolo aveva tutto l’essenziale e, all’obiezione del giornalista sui dieci anni di lager sofferti dal marito, l’interlocutrice diceva "tutti i grandi uomini commettono errori" e non cambiava certo la sua idea positiva su Stalin. Questo semplice episodio rispecchia, con profondità maggiore che non tante elucubrazioni intellettualistiche ed opportunistiche, il senso vero della vicenda sovietica. L’assoluta maggioranza dei sovietici si rendeva conto che fino a un certo momento storico per i proletari la situazione aveva conosciuto miglioramenti sostanziali delle condizioni di vita e che misure difensive anche forti erano inevitabili, mentre da un certo punto in poi la situazione era mutata in negativo. Stupisce che tanti nostri sapientoni odierni prescindano completamente da un giudizio tuttora vivo in larghissimi strati delle masse proletarie sovietiche e di altri Paesi per sovrapporvi le proprie schizzinosità cerebrali. Si rafforza invece il convincimento che l’esito catastrofico non è stato inevitabile né iscritto nel DNA della Rivoluzione di Ottobre: il tornante del 1956, del XX Congresso e dei suoi seguiti, si rivela negativamente decisivo e pone in luce, per contrapposto, come la linea di Stalin fosse nel complesso corretta e lungimirante, nelle scelte fondamentali, nelle vittorie epocali (la costruzione del socialismo, la vittoria sul nazifascismo per sempre legata al nome di Stalingrado, l’istituzione di una comunità socialista…) e financo - è doloroso ma vero - nell’aver affrontato le difficoltà, i contrasti, i complotti e sabotaggi, le mene dell’imperialismo alla continua ricerca di crepe, falle, connivenze all’interno del campo socialista: senza esitazioni nella convinzione che si trattava di una guerra incessante contro il socialismo nascente nel mondo, una guerra che si sarebbe potuta affrontare, e venne affrontata, con lo strumento rivoluzionario della guerra: non solo quella militare vinta nel 1945, ma l’inevitabile guerra anche interna per prevenire e distruggere quinte colonne e teste di ponte. Giudicare tutto questo con i criteri astratti e pseudoumanitari della borghesia (che mistifica) e della piccola borghesia (che a volte ci crede, spesso vi si rifugia per opportunismo), agitando numeri, tante volte artefatti, di vere o presunte vittime (purtroppo, ogni guerra giusta ne fa anche tra innocenti…), non ha alcun senso: ma vogliamo far paragoni con le vittime e i disastri secolari del capitalismo, del colonialismo, dell’imperialismo, nel loro semplice funzionamento e a danno - ciò deve contare in via primaria per i comunisti - delle masse proletarie? E tutto questo vale anche per l’oggi: stupisce sempre la "ingenuità" di chi dichiara, ad es., di ammirare le conquiste sociali della Rivoluzione cubana, ma lamenta il deficit di democrazia politica. Vi è una mentalità largamente diffusa (guarda caso, piccolo-borghese…), per cui basterebbe uno sforzo di buona volontà per aggiungere, come il prezzemolo a qualche cibaria, l’ingrediente "democrazia politica" alle conquiste sociali. Non è ovviamente così: a parte che la "democrazia socialista" è da sempre qualcosa di diverso e più ancora lo sarà rispetto alla "democrazia borghese" (che non è universale…), si dimentica sempre che gli attuali Paesi che si richiamano al socialismo sono "in guerra". Se facessero ciò che questi "cuochi politici" auspicano (vedi una lettera a "Liberazione" del 14 maggio 2002), si ripeterebbe quanto avvenuto nei Paesi dell’Est: lo spappolamento del sistema socialista e delle conquiste sociali. Possibile che tante esperienze purtroppo vissute non insegnano nulla a costoro? Può addirsi quanto essi auspicano a Paesi "in trincea", chiamati da loro a realizzare decentramenti, partecipazione c.d. democratica - cioè, più partiti, fra cui inevitabilmente, come Castro ha da tempo sottolineato, quello "americano" - e varie altre c.d. libertà politiche, cioè borghesi? Ciò non vuol dire che possano mancare a Cuba anche errori o rigidità eccessive, ma Cuba è appunto "in trincea". Essa, e altri, potranno sopravvivere se si realizzerà un’ampia solidarietà internazionale antimperialista: ed è comunque meglio cadere, se dovrà essere, in piedi e seminando per il futuro, sulla trincea socialista che non in un gorbacioviano sfacelo.

Solo sulla base di una riconquistata coscienza potrà ricostituirsi un autentico partito comunista all’altezza dei tempi, non fondato su un accecamento che cancella un’intera epoca e non consente neppure di spiegare situazioni e fenomeni dell’oggi, taglia i legami con tanti comunisti del pianeta, presenta come prospettiva libri di sogni e fantasie e manifesta fenomeni di vera dissociazione mentale, ad es. con i lamenti sul c.d. revisionismo storico, la cui vera radice è proprio nel rifiuto e nella criminalizzazione del passato comunista espressi dall’interno del movimento, da chi ha assunto punti di vista fondamentali della borghesia. Non può difendersi, ad es., la Resistenza italiana se si cancella, o vilipende, quella cinese, coreana, sovietica, jugoslava e così via, e i legami fra esse e il fatto che, per l’assoluta maggioranza di questi combattenti, il perno ideale della battaglia fu l’Unione Sovietica di Stalin.

Uno spazio enorme si apre a chi rifiuta la svendita del glorioso patrimonio del passato, pur nella ricerca di quanto occorra nella fase attuale; a chi non fugge dalla storia e non fonda prospettive su negazioni e falsificazioni; a chi non ricusa certo quel che può essere raggiunto con mezzi pacifici, ma non si chiude gli occhi di fronte alla violenza del capitalismo e della sua fase attuale, l’imperialismo, che non va occultato con fumisterie e trucchi verbali; a chi sa che non generici "movimenti globali" o "moltitudini" daranno la chiave di possibili esiti attraverso "fuoriuscite" o "esodi" (quanto sterile e idealistico messianismo in tutto ciò…), bensì l’insopprimibile lotta per il potere reale, che sola consentirà di espropriare gli espropriatori per la vera emancipazione dell’umanità: dovendo noi certo auspicare il minor dolore possibile, ma sempre mettere sulla bilancia quello reale già presente provocato dalle attuali strutture socio-economiche ai danni della maggioranza dell’umanità, nonché prendere in conto che i privilegiati non rinunceranno al potere in modo indolore e imporranno essi lacrime e sangue. Nessuno, o solo qualche imbroglioncello anche un po’ fatuo, può sul piano dello svolgimento della storia escludere in principio la violenza rivoluzionaria, che viene imposta sempre dalla violenza del nemico di classe.

Tutto questo richiede un lavoro "culturale" di ricomposizione e maturazione dei lavoratori e degli oppressi, che costituisce oggi il compito primario dei comunisti. Le battaglie istituzionali non vanno abbandonate, specialmente se a difesa di diritti conquistati a duro prezzo (e fra queste merita oggi menzione anche la battaglia contro il maggioritario, che ci ha espropriato pure di quel po’ di democrazia formale che si era raggiunto): ma certo non ci si può perdere nelle alchimie politicistiche e nella filosofia del (presunto) "meno peggio", che per cacciare il governo Berlusconi (certo impresentabile per la più dignitosa tradizione borghese, ma purtroppo ben confacente all’attuale fase imperialistica) vorrebbe riproporci lo squallido (contro)riformistico centro-sinistra, che ha anticipato quasi sempre i danni ora approfonditi dal centro-destra e per di più addormentando le coscienze, ed è anch’esso tutto interno all’imperialismo. I comunisti sono, devono essere altra cosa.

Aldo Bernardini

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