Cari compagni,
vi invio questi due testi come contributo al dibattito sulla Cina (cap. VI di Fuga dalla Storia? Il movimento comunista tra autocritica e autofobia, La città del Sole, Napoli, marzo 1999) e sull’imperialismo.
    Domenico Losurdo

CINA POPOLARE E BILANCIO STORICO DEL SOCIALISMO

di Domenico Losurdo

1. Mao Zedong e la rivoluzione cinese

In Cina, il partito comunista ha conquistato il potere sull’onda di un’epica lotta di liberazione nazionale: i progetti di profonda trasformazione sociale si sono così strettamente intrecciati col compito di ridare dignità alla nazione cinese, protagonista di una millenaria civiltà ma, a partire dalla guerra dell’oppio, ridotta in condizioni semicoloniali (e semifeudali). Come condurre l’immenso paese asiatico al tempo stesso alla modernità e al socialismo, superando la lacerazione e umiliazione nazionale imposta dall’imperialismo? E come conseguire tale risultato nelle difficili condizioni della guerra fredda e dell’embargo economico, o almeno tecnologico, decretato dai paesi capitalistici sviluppati? Mao Zedong ha creduto di risolvere tali problemi facendo appello ad un’incessante mobilitazione di massa: è qui la genesi prima del «Grande balzo in avanti» e poi della «Rivoluzione culturale ». Mentre si delineavano le difficoltà e il vicolo cieco del modello sovietico, Mao lanciava la parola d’ordine della «c ontinuazione della rivoluzione sotto la dittatura del proletariato». A garantire al tempo stesso lo sviluppo economico e l’ulteriore avanzata verso il socialismo doveva essere una nuova tappa della rivoluzione, chiamata a liberare l’iniziativa delle masse da ogni impaccio burocratico, fosse anche l’impaccio burocratico del partito comunista e dello Stato da esso diretto.

Non c’è dubbio: il bilancio di tutto ciò dev’essere considerato fallimentare. Sul piano politico, ben lungi dal conoscere l’auspicato impetuoso sviluppo, il processo di democratizzazione ha subito un pauroso rallentamento o regresso. Cancellate sono state le regole del gioco e le garanzie democratiche nell’ambito dello stesso partito comunista e, tanto più, all’interno della società. Nettamente peggiorato è il rapporto tra Han e minoranze nazionali, trattate nel corso della «Rivoluzione culturale» alla stregua di una gigantesca Vandea da reprimere o da catechizzare con una pedagogia assai sbrigativa messa in atto da un «illuminismo » intollerante e aggressivo proveniente da Pechino e dagli altri centri urbani abitati dagli Han. Spazzata via la mediazione del partito e dello Stato, è rimasto in piedi solo il legame diretto tra capo carismatico e masse, mobilitate e fanatizzate dai mezzi di informazione e controllate dall’esercito (pronto a intervenire in caso di necessità). Sono gli anni in cui di fatto ha tri onfato il bonapartismo.

Il fallimento è risultato evidente anche sul piano economico, e non solo per le lacerazioni e gli scontri incessanti provocati dalla crisi di ogni principio di legittimazione che non fosse la fedeltà al capo carismatico. C’è un aspetto forse ancora più importante. «Grande balzo in avanti» e «Rivoluzione culturale» non tenevano conto del processo di secolarizzazione: non si può fare appello in permanenza e per l’eternità alla mobilitazione, all’abnegazione, allo spirito di rinuncia e di sacrificio, all’eroismo delle masse. Questo appello può costituire l’eccezione, non già la regola. Si potrebbe dire con Brecht: «Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi». Gli eroi sono necessari per il passaggio dallo stato d’eccezione alla normalità e sono eroi solo in quanto riescono a garantire il passaggio alla normalità; e cioè, gli eroi sono tali solo nella misura in cui sono capaci di rendere superflui se stessi. Sarebbe un «comunismo» ben strano quello che presupponesse una prosecuzione all’infinito, o quasi, dello spirito di sacrificio e di rinuncia. La normalità dev’essere gestita con criteri diversi, mediante meccanismi e norme che consentano il godimento possibilmente tranquillo della quotidianità: sono necessarie regole del gioco e, per quanto riguarda l’economia, incentivi.

Negli ultimi anni o mesi della sua vita, probabilmente lo stesso Mao deve aver maturato una certa consapevolezza della necessità di un mutamento di rotta. Deng Xiao-ping ha saputo introdurre il nuovo corso, senza imitare il modello kruscioviano di «destalinizzazione», senza cioè demonizzare colui che in precedenza aveva gestito il potere. Non solo non sono stati disconosciuti a Mao gli enormi meriti storici acquisiti nella costruzione del partito comunista e nella direzione della lotta rivoluzionaria, ma gli stessi gravi errori commessi a partire dalla fine degli anni ’50 sono stati collocati in un contesto più ampio, nel quadro cioè degli esperimenti più o meno avventati e persino folli che accompagnano i tentativi di costruzione di una società nuova, senza precedenti storici alle spalle. Non aveva lo stesso Mao, quello migliore, l’autore, nel 1937, del saggio Sulla pratica, invitato a non perdere di vista il fatto fondamentale per cui, come «lo sviluppo di un processo oggettivo» così «lo sviluppo del movim ento della conoscenza umana è anch’esso pieno di contraddizioni e di lotte»? E’ questa la chiave per comprendere le vicissitudini che hanno caratterizzato la storia dei partititi comunisti e delle società che al comunismo si sono richiamate: si tratta di mettere l’accento sul carattere oggettivamente contraddittorio del processo di conoscenza, non già sul «tradimento» o sulla «degenerazione » di questa o quella personalità. Riconducendo tutto al «culto della personalità» e demonizzando Stalin, Krusciov ne ereditava gli aspetti peggiori; rifiutando di procedere in questo modo nei confronti di Mao, Deng Xiao-ping ne ereditava gli aspetti migliori.

L’approccio scelto dalla nuova dirigenza cinese ha comunque evitato la delegittimazione del potere rivoluzionario; soprattutto, rifiutando di scaricare tutte le difficoltà, incertezze e contraddizioni oggettive su una singola personalità da trattare alla stregua di un capro espiatorio, questo approccio ha reso possibile un reale dibattito sulle modalità e le caratteristiche del processo di costruzione di una societ à socialista. E’ nel corso di tale dibattito che è stata criticata e rovesciata l’impostazione insita nel «Grande balzo in avanti» e nella «Rivoluzione culturale».

2. Una NEP gigantesca e inedita

Sul piano economico vediamo così sorgere gradualmente il «socialismo di mercato». A caratterizzarlo sono l’emergere di un ampio settore di economia privata e lo sforzo di conferire efficienza al settore statale e pubblico dell’economia. L’aggancio alla tecnologia, alle esperienze di organizzazione industriale e di gestione manageriale maturate in Occidente, l’aggancio al mercato mondiale comporta dei costi: ecco l’emergere in Cina di «zone eeconomiche speciali» francamente capitalistiche. D’altro canto, quale sarebbe l’alternativa? Soprattutto dopo la crisi e la dissoluzione dell’URSS e del «campo socialista» non è più possibile isolarsi dal mercato mondiale capitalistico a meno di non condannarsi all’arretratezza e all’impotenza. Nelle nuove condizioni dell’economia e della politica mondiale, l’isolamento sarebbe sinonimo di rinuncia sia alla modernità che al socialismo. Pur coi suoi alti costi, il risultato del nuovo corso è sotto gli occhi di tutti: uno sviluppo delle forze produttive assai accelerato, un

miracolo economico di dimensioni continentali, l’accesso di centinaia di milioni di cinesi a diritti economici e sociali in precedenza mai goduti e dunque la messa in moto di un processo di emancipazione di enormi proporzioni.

Sul piano politico, per combattere i residui dell’antico regime sopravvissuti alla rivoluzione e l’arroganza dei nuovi burocrati saldatasi con l’arroganza tradizionale dei mandarini, per promuovere cioè lo sviluppo della democrazia si è abbandonata la via, cara all’ultimo Mao, della «continuazione della rivoluzione sotto la dittatura del proletariato». Mettendo in crisi e delegittimando le scarse norme e garanzie esistenti, questa via, lungi dal cancellarlo, finiva con l’aggravare ulteriormente il fenomeno dello strapotere e dell’arbitrio di capi e capetti di ogni genere. A limitare e controllare il potere viene ora chiamato il governo delle leggi, un insieme codificato di norme e garanzie, un sistema legale prima sconosciuto e ora in via di rapida espansione. Assieme alla separazione degli organi di partito da quelli statali, si sviluppa nei villaggi un sistema elettorale basato sulla scelta tra diversi candidati. Sono allo studio ulteriori misure di democratizzazione, nell’ambito di un processo che, come ben sanno e come esplicitamente dichiarano i dirigenti della Cina Popolare, è ben lungi dall’essere giunto alla sua conclusione. Nel corso della sua storia, il «socialismo reale» ha bollato come vuote e ingannevoli le libertà «formali»; su questa stessa linea si è collocata, paradossalmente, la stessa «Rivoluzione culturale». Ai giorni nostri, invece, i comunisti cinesi considerano preziose le libertà «formali» garantite dalla legge; solo che, nell’attuale stadio di sviluppo della Repubblica Popolare Cinese, ritengono di dover mettere l’accento sui diritti economici e sociali. Irrevocabile è comunque la scelta della via della modernizzazione anche politica. Come sul piano economico cos ì su quello politico, non è pensabile un socialismo che non faccia un bilancio e non sappia far tesoro, creativamente, delle esperienze più avanzate maturate nell’Occidente capitalistico sull’onda della rivoluzione democratico-borghese.

Il regime sociale attualmente vigente in Cina si presenta come una sorta di gigantesca e prolungata NEP. E’ una NEP resa più difficoltosa dalla globalizzazione e dai rapporti di forza mondiale, epperò consapevole della necessità di dover permanentemente coniugare socialismo, democrazia e mercato, superando una visione semplicistica e grossolanamente omogenea della nuova società da costruire.

3. Un’enorme posta in gioco

Assai superficiale è la tesi che, a proposito della Cina, parla di capitalismo restaurato. Non c’è dubbio: s’è formata una solida borghesia, la quale per ò non ha per ora la possibilità di realizzare politicamente la sua forza economica. Si comprende la difficile situazione della dirigenza cinese: da un lato si tratta di portare avanti il processo di democratizzazione, elemento essenziale sia della modernizzazione socialista che del consolidamento del potere (quello dell’investitura dal basso è oggi l’unico principio di legittimazione); dall’altro lato si tratta di evitare che il pur necessario processo di democratizzazione comporti la conquista del potere da parte della borghesia. E’ questo, invece, l’obiettivo tenacemente perseguito dagli Stati Uniti, decisi a scalzare con ogni mezzo l’egemonia del Partito Comunista, in modo da imporre la definitiva omologazione della Cina all’Occidente capitalistico e da realizzare il trionfo finalmente planetario del «secolo americano».

Purtroppo, l’amministrazione USA può godere di appoggi anche a «sinistra ». Allorché si scandalizza della priorità accordata al conseguimento di un minimo di uguaglianza materiale in un paese in via di sviluppo di un miliardo e duecento milioni di abitanti, una certa sinistra dimostra di essere regredita alle posizioni dei neoliberisti, i quali guardano con disprezzo non solo a Marx ma anche ad un liberal come Rawls. Questi esige sì il primato della libertà sull’eguaglianza, ovvero, con un linguaggio diverso, della libertà negativa su quella positiva, ma aggiunge che tale primato vale solo «al di là di un livello minimo di reddito».

E il capitalismo dichiarato delle «zone economiche speciali»? Coloro che si accodano alla crociata anticinese in nome di Mao Zedong farebbero bene a riflettere su un fatto: a cinque anni dalla conquista del potere, il grande dirigente rivoluzionario constatava, senza gridare allo scandalo, la permanenza nell’immenso paese non solo del capitalismo ma anche del «regime dei proprietari di schiavi» (il riferimento è al Tibet) e di «quello dei proprietari feudali». E per quanto riguarda le sacche di miseria e di disoccupazione in ripugnante contrasto con l’opulenza dei nuovi ricchi, conviene rileggere una straordinaria pagina nel 1926 da Gramsci dedicata all’analisi dell’URSS e di un fenomeno «mai visto nella storia»: una classe politicamente «dominante» viene «nel suo complesso» a trovarsi «in condizioni di vita inferiori a determinati elementi e strati della classe dominata e soggetta». Le masse popolari che continuano a soffrire una vita di stenti sono disorientate dallo spettacolo del «nepman impellicciato e che ha a sua disposizione tutti i beni della terra»; e, tuttavia, ciò non deve costituire motivo di scandalo o di ripulsa, in quanto il proletariato, come non pu ò conquistare il potere, così non può neppure mantenerlo se non è capace di sacrificare interessi particolari e immediati agli «interessi generali e permanenti della classe».

Estremamente complesso è il processo di costruzione di una società socialista. Certo, quella a cui aspirano i comunisti cinesi presenta contenuti e caratteristiche vaghi. Ancora una volta non è lineare e agevole il processo di conoscenza della realtà oggettiva e, a maggior ragione, della realtà oggettiva di una società senza precedenti storici. Data anche la debolezza teorica del marxismo, sarebbe sciocco sottovalutare, in epoca di globalizzazione, la gravit à dei rischi di omologazione che corre la Cina; ma sarebbe dar prova di cecit à politica dar per avvenuta tale omologazione e ancora peggio sarebbe contribuire a promuoverla, accodandosi alla campagna anticinese guidata dagli USA. Enorme è la posta in gioco. Tra difficoltà e contraddizioni di ogni genere, si sta profilando la realtà di un paese-continente che esce dal sottosviluppo, e che vi esce deciso a mantenere l’indipendenza politica e a conseguire l’autonomia tecnologica per avanzare verso una modernità socialista. La riuscita di questo tentativo cam bierebbe in modo drastico gli equilibri planetari e il mondo in quanto tale.

Domenico Losurdo

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