La dialettica della rivoluzione in Russia e in Cina:
un’analisi comparata

di Domenico Losurdo

1. Rivoluzione e patto sociale: un confronto tra Russia e Cina

A quali condizioni una rivoluzione giunge al successo? Come ha chiarito Lenin, a determinarlo è l’intreccio tra l’insofferenza ormai incontenibile delle classi subalterne e la sempre più evidente incapacità delle classi dominanti a dirigere. Con l’insorgere di una grande crisi che mette in discussione l’ordinamento e persino l’identità di una nazione, il partito rivoluzionario giunge al potere proponendosi come nuovo gruppo dirigente sulla base di una sorta di patto che stipula con la nazione nel suo complesso. Questo patto assume di volta in volta una configurazione diversa. Nell’ottobre del 1917, esso si fonda sulla promessa e sul progetto dei bolscevichi di assicurare ai contadini la terra e ad un popolo dissanguato ed esausto il pane e la pace; una pace fondata, all’interno, sull’uguaglianza tra le diverse nazionalità che costituiscono l’immenso paese.

Questo patto subisce una prima grave crisi con la collettivizzazione dell’agricoltura. Più ancora che gli errori politici soggettivi, a giocare in questo caso un ruolo particolarmente rilevante sono le contraddizioni oggettive. In una situazione ancora profondamente caratterizzata dalle devastazioni provocate dal conflitto imperialista e dalla guerra civile, l’accaparramento dei beni alimentari da parte dei contadini (e soprattutto dei contadini relativamente più agiati) rende ancora più acuto il problema della carestia e dell’inedia nelle città. In un certo senso il patto, sulla base del quale la rivoluzione era giunta al potere, doveva essere lacerato per un verso o per l’altro. Pane agli operai o terra ai contadini? Erano oggettivamente entrati in contraddizione due elementi costitutivi del patto, tanto più che all’orizzonte si profilava sempre più minacciosa l’ombra della guerra: era necessario prepararsi con un adeguato processo di industrializzazione a fronteggiare l’aggressione, se non si voleva mettere in crisi anche il terzo elemento costitutivo del patto, che impegnava il gruppo dirigente bolscevico sì ad astenersi da avventure imperialiste ma anche, implicitamente, in caso di guerra imposta dall’esterno, a dare una prova migliore di quella fornita a suo tempo dalla Russia zarista. E’ probabile che la situazione oggettiva non offrisse un ampio ventaglio di scelte (persino storici fieramente anticomunisti riconoscono che i pericoli di guerra rendevano urgente l’industrializzazione delle campagne(1)). Resta il fatto che la collettivizzazione, che gode nelle campagne del sostegno di una base sociale assai debole e che quindi risulta fondamentalmente imposta dall’alto e dall’esterno, incrina il rapporto tra gruppo dirigente bolscevico e popolazione agricola nel suo complesso, nonché il rapporto tra russi e minoranze nazionali non russe (che costituiscono il grosso della popolazione agricola).

Con l’aggressione nazista si assiste ad una radicale riformulazione del patto sociale. E’ la Grande patriottica che, con un impegno corale e distribuendo in modo equilibrato i pesi e i terribili sacrifici imposti dall’invasione, si propone di difendere l’indipendenza del paese e di salvare tutte le nazionalità che lo costituiscono dalla schiavizzazione cui il Terzo Reich e la razza dei signori volevano consegnarle. Almeno per qualche tempo, ha fine la persecuzione religiosa, con il miglioramento dei rapporti con le campagne e le minoranze nazionali che, di fatto, sono il bersaglio privilegiato della crociata chiamata ad imporre l’ateismo di Stato.

Con la disfatta del Terzo Reich, questa politica di unità nazionale è sbrigativamente abbandonata. Si profila così la crisi del nuovo patto sociale, ulteriormente messo a dura prova dai persistenti sacrifici imposti dalla guerra fredda e da una corsa al riarmo sempre più frenetica. Ma il momento definitivo di crisi è introdotto da Krusciov. La demonizzazione acritica di Stalin, funzionale ad un regolamento dei conti interno al PCUS e al movimento comunista internazionale, colpendo e idealmente liquidando il protagonista non solo della Grande guerra patriottica ma anche del patto sociale da essa tenuto a battesimo, provoca une vera e propria crisi d’identità, scavando un gigantesco vuoto storico. I cittadini dell’Unione Sovietica hanno ora alle spalle una duplice, radicale frattura, quella col regime abbattuto dalla rivoluzione d’Ottobre e quella col regime instauratosi dopo la vittoria o qualche anno dopo la vittoria della rivoluzione. Librandosi in questo vuoto, Krusciov agita un nuovo patto del tutto irrealistico, in base al quale l’Unione Sovietica avrebbe superato, per quanto riguarda lo sviluppo delle forze produttive, gli Stati Uniti e avrebbe addirittura conseguito lo stadio del comunismo, col dileguare quindi delle classi, dello Stato ecc. L’intreccio tra il ridicolo, di cui via via si copre questo mirabolante programma, e il vuoto storico già analizzato non può non provocare effetti disastrosi.

In conclusione, possiamo dire che i momenti di crisi della rivoluzione coincidono, coi momenti di crisi del patto sociale (ripudio della Nep prima e abbandono poi della piattaforma patriottica che aveva presieduto alla resistenza contro l’aggressione hitleriana), mentre l’alta marea della rivoluzione coincide con le fasi in cui la causa della rivoluzione si identifica, agli occhi di una larga opinione pubblica, con la causa della nazione. Ciò non vale solo per la Grande guerra patriottica. Già due decenni prima, la controrivoluzione, scatenata dai Bianchi sostenuti o aizzati dall’Intesa, viene sconfitta anche grazie all’appello dei bolscevichi (si distingue in tal senso Radek) al popolo russo a impegnarsi in una "lotta di liberazione nazionale contro l’invasione straniera" e contro potenze imperialiste decise a trasformare la Russia in una "colonia" dell’Occidente. E’ su questa base che alla Russia sovietica aderisce Brusilov: il brillante generale di origine nobiliare, l’unico o fra i pochi ad aver dato buona prova di sé nel corso della prima guerra mondiale, così motiva la sua scelta: "Il mio senso del dovere verso la nazione mi ha spesso costretto a disobbedire alle mie naturali inclinazioni sociali"(2) .

Qual è il patto sulla base del quale il Partito Comunista Cinese consegue la vittoria? Pur presente già nell’ambito di una rivoluzione scoppiata nel corso della lotta contro una guerra bollata come imperialista, la dimensione del patto nazionale gioca ovviamente un ruolo decisamente più rilevante in una rivoluzione come quella cinese, che si sviluppa in primo luogo come lotta di liberazione nazionale. Alla vigilia dell’avvento al potere, il 21 settembre 1949, Mao dichiarava solennemente: "La nostra non sarà più una nazione soggetta all’insulto e all’umiliazione. Ci siamo alzati in piedi […] L’era nella quale il popolo cinese era considerato incivile è ora terminata". Il patto era dunque basato sulla promessa di porre termine alla condizione semicoloniale e semifeudale della Cina. Nel suo discorso, Mao precisava ulteriormente: "Per oltre un secolo i nostri antenati non hanno smesso di sviluppare lotte ostinate contro gli oppressori interni e straneri"(3) . Procedendo a ritroso per il periodo di tempo qui indicato, ci imbattiamo nella prima guerra dell’oppio. Dunque, il PCC prometteva di chiudere la fase tragica che, nella storia della nazione cinese, si era aperta con la guerra dell’oppio. E’ una datazione successivamente più volte ribadita, e che diviene esplicita nell’iscrizione redatta da Mao per il Monumento agli eroi del popolo: "Gloria eterna agli eroi del popolo che fin dal 1840, nel corso di ripetute lotte, sono caduti per combattere i nemici interni ed esterni, per ottenere l’indipendenza nazionale, per la libertà e il benessere del popolo!"(4). Per oltre un secolo l’arretratezza semifeudale aveva reso possibile l’arroganza, l’interferenza, il saccheggio, il dominio delle grandi potenze capitalistiche, e ciò aveva a sua volta aggravato ulteriormente il sottosviluppo della Cina.

2. Alcune caratteristiche filosofiche della rivoluzione cinese

Si trattava ora di porre fine alla tragedia di oltre un secolo, un periodo assai lungo se commisurato ai costi economici e sociali, alle perdite territoriali, ai terribili sacrifici umani che esso aveva comportato, ma un periodo assai breve se commisurato alla storia plurimillenaria della nazione cinese. A caratterizzare la rivoluzione in Cina non è solo il fatto di svolgersi in un paese in condizioni semicoloniali (oltre che semifeudali), in evidente contrasto con la rivoluzione d’Ottobre sviluppatasi in un paese che, alla sua vigilia, è tra i protagonisti della gara imperialista per l’egemonia. Questa differenza è nota. Ce n’è un’altra, forse anche più importante e che di rado è menzionata. Al contrario di quella russa, la rivoluzione cinese si sviluppa sin dagli inizi all’insegna della longue durée.

La catastrofe inaudita della prima guerra mondiale stimola un clima di attesa messianica che influisce anche sulle letture della rivoluzione d’Ottobre. Si pensi ad un grande intellettuale come Bloch, che da essa si attende non solo la fine di ogni "economia del denaro" e, con essa, della "morale mercantile che consacra tutto quello che di più malvagio vi è nell’uomo", ma anche la "trasformazione del potere in amore"(5).

Almeno per quanto riguarda l’"economia del denaro", la visione cara al primo Bloch è ampiamente diffusa nella Russia sovietica. Negli anni ’40 un bolscevico descriverà in modo efficace il clima spirituale degli anni immediatamente successivi alla rivoluzione d’Ottobre: "Noi giovani comunisti eravamo tutti cresciuti nella convinzione che il denaro fosse stato tolto di mezzo una volta per tutte […] Se ricompariva il denaro, non sarebbero ricomparsi anche i ricchi? Non ci trovavamo su una china scivolosa che ci riportava al capitalismo?"(6)

Stava dunque per ritornare in vita il sistema politico-sociale che aveva provocato gli orrori della guerra? Questa attesa messianica porta per un verso a trasfigurare i contenuti dell’agognata società post-capitalistica, per un altro verso ad imprimere un’immaginaria e fantastica accelerazione al processo storico, sicché il presente sembra configurarsi quasi come la plenitudo temporum. E’ una tendenza che si manifesta persino in dirigenti politici di primo piano. Poche settimane dopo la fondazione dell’Internazionale comunista, Zinoviev così si esprime:

"Il movimento sta progredendo con una rapidità talmente vertiginosa, che si può affermare con certezza che entro un anno avremo già cominciato a dimenticare che c’è stata in Europa una lotta per il comunismo, perché fra un anno l’Europa intera sarà comunista. E la lotta si sarà estesa all’America, forse anche all’Asia e agli altri continenti".

Lo stesso Lenin, pur solitamente così sobrio e misurato, nel discorso conclusivo pronunciato al congresso di fondazione dell’Internazionale, dichiara: "La vittoria della rivoluzione proletaria in tutto il mondo è assicurata. Si approssima la fondazione della repubblica sovietica internazionale"(7).

Al tempo della rivoluzione cinese, è ancora in pieno svolgimento la catastrofe iniziata nel 1914, ma la sua percezione è stata già largamente metabolizzata. A stimolare la visione della longue durée provvede inoltre la consapevolezza che in Cina la rivoluzione non sarà immediatamente socialista ma avrà, per "un lungo periodo" di tempo - osserva Mao alla fine del 1947 - un contenuto in primo luogo antifeudale e anticoloniale, con la permanenza quindi, anche dopo la conquista del potere, di "un settore capitalista dell’economia"(8). Viene qui tratteggiato un percorso, nell’ambito del quale già la prima tappa sembra dover abbracciare alcuni decenni. Ben lungi dall’essere la plenitudo temporum, la rivoluzione è solo l’accelerazione drammatica di un processo di lunga durata. Assente nella rivoluzione cinese, la tradizione messianica ebraico-cristiana sembra invece aver giocato un ruolo, attraverso molteplici mediazioni, nelle attese enfatiche di immediata rigenerazione che talvolta accompagnano la rivoluzione russa. Divenuto commissario agli esteri, Trotsky esprime la speranza che presto sarebbe divenuto superfluo il ministero da lui diretto, in seguito al dileguare degli Stati e delle nazionalità. Il PCC, invece, dalla rivoluzione si attende la rinascita della nazione cinese e la ripresa del suo sviluppo su una base di eguaglianza con le altre, dopo il breve e sciagurato intervallo di un secolo di oppressione.

Certo, continua ad essere ben presente la prospettiva comunista della "pace perpetua", in seguito al rovesciamento dell’imperialismo e del capitalismo e all’"eliminazione delle classi e dello Stato". Ma a spianare la strada per la realizzazione di questo programma è una rivoluzione nazionale e anti-coloniale, da Mao chiamata al tempo stesso a far tesoro della lezione di Sun Zi, un teorico militare cinese del V secolo avanti Cristo!(9) Attenzione ai compiti immediati del presente e prospettiva di lunga durata si intrecciano strettamente, così come si intrecciano strettamente dimensione nazionale e dimensione internazionale.

Affondando le sue radici in un passato più che secolare (la resistenza al colonialismo occidentale), facendo tesoro dell’eredità culturale millenaria della nazione cinese e dispiegandosi in un lungo arco temporale, la rivoluzione nazionale in Cina intende contribuire al conseguimento di un obiettivo ambizioso e di lungo respiro, quello della realizzazione della pace perpetua su scala planetaria. Una domanda s’impone. Il dileguare del flagello della guerra nonché dello Stato (e dello Stato nazionale) comporta anche il dileguare delle identità nazionali? Non sembra esserci chiarezza su questo punto. Certo è però che la rivoluzione vuole sì essere un contributo all’unificazione del genere umano; epperò, per tutto un periodo storico il conseguimento di un tale obiettivo passa attraverso non già il dileguare delle identità nazionali bensì la loro rinascita dall’oppressione imperialista.

Intervenendo all’immediata vigilia della proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, Mao rifà la storia del suo paese. Rievoca in particolare la resistenza contro le potenze protagoniste delle guerre dell’oppio, la rivolta dei Taiping "contro i Ching servi dell’imperialismo", la guerra contro il Giappone del 1894-5, "la guerra contro l’aggressione delle forze coalizzate delle otto potenze" (in seguito alla rivolta dei Boxers), e, infine, "la Rivoluzione del 1911 contro i Ching, lacché dell’imperialismo". Tante lotte, altrettante sconfitte. Come spiegare il rovesciamento che, ad un certo punto, si verifica?

"Per molto tempo, durante questo movimento di resistenza, ossia per oltre settant’anni, dalla Guerra dell’oppio nel 1840 fino alla vigilia del Movimento del 4 maggio nel 1919, i cinesi non ebbero armi ideologiche per difendersi contro l’imperialismo. Le vecchie e immutabili armi ideologiche del feudalesimo furono sconfitte, dovettero cedere e vennero dichiarate fuori uso. In mancanza di meglio, i cinesi furono costretti ad armarsi con armi ideologiche e formule politiche quali la teoria dell’evoluzione, la teoria del diritto naturale e della repubblica borghese, tutte prese in prestito dall’arsenale del periodo rivoluzionario della borghesia in Occidente, patria dell’imperialismo […] ma tutte queste armi ideologiche, come quelle del feudalesimo, si dimostrarono molto deboli, e a loro volta dovettero cedere, furono ritirate e dichiarate fuori uso.

La rivoluzione russa del 1917 segna il risveglio dei cinesi, che apprendono qualcosa di nuovo: il marxismo-leninismo. In Cina nasce il Partito comunista, ed è un avvenimento che fa epoca […]

Da quando hanno appreso il marxismo-leninismo, i cinesi hanno cessato di essere passivi intellettualmente e hanno preso l’iniziativa. Da quel momento doveva concludersi il periodo della storia mondiale moderna in cui i cinesi e la cultura cinese erano guardati con disprezzo"(10).

Il marxismo-leninismo è la verità finalmente trovata, dopo lunga ricerca, l’arma ideologica capace di assicurare la vittoria della rivoluzione nazionale in Cina e condurre il paese alla soluzione del problema della fuoriuscita dal semifeudalesimo e dal semicolonialismo. Ed è una ricerca iniziata già con le guerre dell’oppio, prima ancora della formazione, nonché del marxismo-leninismo, già del marxismo in quanto tale: nel 1840 Marx era solo un giovane studente universitario. Non è il marxismo a provocare la rivoluzione in Cina, ma è la resistenza secolare del popolo cinese che, dopo lunga e faticosa ricerca, riesce a prendere piena coscienza di sé nell’ideologia che porta la rivoluzione alla vittoria. Assieme alla longue durée, emerge un’altra essenziale caratteristica filosofica del comunismo cinese, da Mao, nel 1958, così sintetizzata: "Le verità universali del marxismo devono essere integrate con le condizioni concrete dei diversi paesi e c’è unità tra internazionalismo e patriottismo"(11). L’universalismo ovvero l’internazionalismo astratto, che Gramsci rimprovera a Trotsky(12), non sembra aver mai messo piede nell’ambito del comunismo cinese.

3. Indipendenza nazionale e sviluppo economico

Il 1949 segna dunque il trionfo di una rivoluzione che, almeno nella sua prima fase, intende avere un contenuto anticoloniale e antifeudale. Ma che significa ciò in concreto? Per quanto riguarda il primo punto, si tenga presente che, a partire dalla guerra dell’oppio, la Cina ha dovuto subire l’amputazione di enormi territori. Al momento della rivoluzione del 1911, alcuni patrioti sperano ancora di poterli recuperare. E queste speranze sembrano trovare nuovo alimento sei anni dopo, grazie alla presa di posizione assunta, nella Russia sovietica appena nata, da Karakhan, facente funzione di commissario degli esteri, il quale si dichiara pronto a ripudiare i trattati imposti alla Cina dalla Russia zarista. Ma non è possibile ricacciare indietro un processo storico ormai di lunga durata: se ne rendono conto i bolscevichi e ne sono consapevoli i dirigenti del Partito Comunista Cinese. Si tratta, allora, di porre fine una volta per sempre allo smembramento del territorio nazionale. Pur disuguali, vengono riconosciuti i trattati sottoscritti sotto la minaccia delle cannoniere e degli eserciti di invasione; epperò non può più essere tollerata l’amputazione di territori che, in base a quegli stessi trattati, sono parte integrante della Cina. S’impone il recupero di Taiwan. E’ una politica caratterizzata sì da fermezza ma, al tempo stesso, da moderazione. Può essere significativo un confronto: nel 1961, i dirigenti indiani si affrettano a recuperare con la forza delle armi Goa, in quel momento ancora colonia portoghese; i dirigenti cinesi, invece, attendono pazientemente che scada il "contratto di affitto" per Honk Kong e Macao.

La difesa dell’indipendenza nazionale e dell’integrità territoriale comporta una serie di profonde trasformazioni anche sul piano interno. Già prima della conquista del potere, Mao richiama l’attenzione sul desiderio di Washington che la Cina si "riduca a vivere della farina americana", finendo così col "diventare una colonia americana"(13). I nuovi rapporti sociali sono chiamati in primo luogo a garantire lo sviluppo economico, che s’impone al fine di conferire concretezza al programma di rinascita nazionale. Già nel 1940, Mao aveva sottolineato:

"Per il suo carattere sociale, nella prima fase o nel primo passo, la rivoluzione di una colonia o semicolonia resta fondamentalmente una rivoluzione democratica borghese, e oggettivamente il suo obiettivo è quello di sgombrare il terreno allo sviluppo del capitalismo […] Perciò questa rivoluzione serve anche ad aprire una strada ancora più larga allo sviluppo del socialismo"(14).

Sedici anni dopo, Mao invita a non dimenticare che, nonostante l’avvento del partito comunista al potere, il quadro della Cina è ancora contrassegnato in primo luogo dal sottosviluppo:

"Bisogna che tutti i quadri e il popolo tutto si ricordino continuamente che la Cina è sì un grande paese socialista, ma anche e al tempo stesso è un paese povero ed economicamente arretrato. Si tratta di un’enorme contraddizione. Se vogliamo che il nostro paese divenga ricco e potente, allora occorrono alcuni decenni di sforzi ostinati"(15).

In questo momento sembra individuare la contraddizione principale non già nel conflitto tra borghesia e proletariato, come farà soprattutto negli anni della Rivoluzione Culturale, ma nella sfasatura tra socialismo e arretratezza. Ma allora quale atteggiamento bisogna assumere nei confronti della borghesia nazionale?

"Quanto poi alla nostra politica nelle città, a prima vista dà un po’ l’impressione di essere di destra: infatti abbiamo conservato i capitalisti e gli abbiamo concesso anche un interesse fisso per sette anni. E dopo sette anni come ci regoleremo? Quando arriverà il momento vedremo il da farsi. La cosa migliore è lasciare aperto il discorso e dargli ancora un po’ di interessi. Sborsando un po’ di denaro ci compriamo questa classe [...] Comprandoci questa classe l’abbiamo privata del suo capitale politico così che non ha nulla da dire [...] Questo capitale politico dobbiamo espropriarlo fino in fondo e continuare a farlo finché gliene sarà rimasta anche una sola briciola. Ecco perché non si può dire neanche che la nostra politica nella città è di destra"(16).

Si tratta dunque di distinguere tra espropriazione economica e espropriazione politica della borghesia. Solo quest’ultima dev’essere condotta sino in fondo, mentre la prima, se non è contenuta in limiti ben precisi, rischia di compromettere lo sviluppo economico chiamato a garantire l’integrità territoriale e la rinascita del paese e, dunque, il rispetto del patto sociale in base al quale i comunisti hanno conquistato il potere. Nell’estate del 1958, Mao ribadisce il suo punto di vista di fronte all’ambasciatore, piuttosto diffidente, dell’unione Sovietica: "In Cina ci sono ancora capitalisti, ma lo Stato è sotto la direzione del partito comunista"(17).

4. La crisi del patto sociale del 1949

Garantire l’integrità territoriale, evitando l’ulteriore smembramento del paese e mettendo fine al processo iniziato con le guerre dell’oppio, significa in primo luogo recuperare Taiwan, nel frattempo caduta sotto la protezione di Washington. Come prima tappa si tratta di riprendere il controllo di Quemoy e Matsu, due isole che - sottolinea Churchill in una lettera a Eisenhower del 15 febbraio 1955 - sono "al largo della costa", "sono giuridicamente parte della Cina", la quale persegue "un ovvio obiettivo nazionale e militare, e cioè sbarazzarsi di una testa di ponte che si presta meravigliosamente per un’invasione della Cina continentale" (da parte dell’esercito di Chiang Kai-shek, installatosi a Taiwan e armato e appoggiato dagli USA) (18). Queste considerazioni non impediscono al presidente americano di brandire l’arma atomica, almeno in due occasioni, nel 1954 e nel 1958 (19).

La minaccia non può non essere presa terribilmente sul serio. D’altro canto, ad essere sotto bersaglio non è solo la Repubblica Popolare Cinese. Nelle sue memorie, l’ex-presidente del Consiglio francese, Bidault, riferisce che alla vigilia di Dien Bien Phu Dulles gli avrebbe proposto: "E se vi dessimo due bombe atomiche?" (da utilizzare, s’intende, immediatamente, contro il Vietnam) (20).

Consapevole della netta superiorità degli Stati Uniti, l’Unione Sovietica si limita a garantire alla Cina una copertura che non va al di là del territorio continentale: il grande paese asiatico è costretto a rinunciare all’obiettivo considerato "ovvio" e legittimo anche da Churchill. Emergono le prime frizioni fra i due grandi paesi socialisti. Ma, ad aggravare la situazione, provvede la proposta di Krusciov della formazione di una flotta congiunta cino-sovietica, che di fatto avrebbe privato la Cina di una forza navale autonoma. Parlando con Yudin, ambasciatore sovietico a Pechino, latore della proposta, Mao ricorre a toni per lui decisamente insoliti: "Non sono riuscito a dormire ieri, dopo che ci siamo lasciati, e non ho mangiato nulla" (21). Tra Cina e URSS c’è, in questo momento, una comprensibile difformità di interessi. La prima non intende in alcun modo subire la perdita di Taiwan e l’ulteriore smembramento territoriale cui mira Washington; la seconda è interessata in primo luogo ad un disgelo dei rapporti con gli Stati Uniti, al fine anche di alleggerire il peso terribile rappresentato dalla guerra fredda e dalla corsa al riarmo. Stando almeno ad una dichiarazione di Mao, del 1964, la dirigenza sovietica guarda con fastidio all’ostinazione di cui la Cina darebbe prova nel perseguire il disegno del recupero di Taiwan(22). In questi anni, approfittando dell’isolamento internazionale della Cina, l’India rifiuta di negoziare un regolamento pacifico delle questioni di frontiera tra i due paesi e crede di poter imporre con la forza delle armi la sua volontà(23). Interessata ad allargare le sue alleanze e incline a considerare ovvio il suo diritto alla direzione dell’intero "campo socialista", Krusciov assume di fatto una posizione filo-indiana.

La contraddizione oggettiva che sussiste tra URSS e Cina è aggravata dall’arroganza che Mao rimprovera alla dirigenza sovietica, come risulta anche dal già citato colloquio con l’ambasciatore Yudin: "Voi, e in particolare Stalin, avete a lungo diffidato dei cinesi, considerandoli come un secondo Tito. Voi dite che gli europei disprezzano i russi; io penso che certi russi disprezzano i cinesi". Per questo atteggiamento "altero e arrogante" si distingue in particolare Mikoyan (all’epoca vice-presidente del Consiglio dei ministri) il quale, nei confronti dei cinesi, stabilisce "una relazione padre/figlio o gatto/topo"(24). Tali sospetti trovano piena conferma nel 1960, col ritiro dei tecnici sovietici dalla Cina, ciò che infligge un colpo terribile all’economia di un paese già in profonda crisi.

Collocato tra il 1958 (anno della seconda crisi di Taiwan) e il 1960, l’inizio della rottura tra PCUS e PCC coincide con la prima grave crisi del patto sociale che aveva stimolato e suggellato la fondazione della Repubblica Popolare Cinese. A partire dalla progressiva presa di coscienza del fatto che si può fare scarso affidamento sull’Unione Sovietica ai fini della realizzazione del programma politico di completamento del processo di riunificazione nazionale (col recupero di Taiwan) e di accelerato sviluppo economico, Mao avverte sempre più forte lo stimolo a bruciare le tappe. Nel 1954 egli aveva parlato di "tre piani quinquennali", che avrebbero provveduto a "gettare le basi" dell’industrializzazione, e aveva aggiunto: "Secondo me, per costruire un grande paese socialista, probabilmente ci vorranno cinquant’anni, ossia dieci piani quinquennali"(25). In modo analogo si era espresso nel 1955: "Se vogliamo costruire uno Stato socialista altamente industrializzato e potente ci vorranno alcuni decenni, diciamo cinquant’anni, ossia tutta la seconda metà del secolo"(26). E l’anno dopo: sì, manca ancora un’autentica industria automobilistica nazionale. Bisognerà pur svilupparla, ma senza farsi prendere dalla precipitazione: "Siamo patriottici, ma non abbiamo fretta"(27). Ma già nell’estate 1957 interviene una novità. Mao si propone di "raggiungere e superare gli Stati Uniti sul piano economico in otto o dieci piani quinquennali"(28).

Nel frattempo, i piani quinquennali previsti tendono a passare da dieci a otto, e in questo periodo di tempo si tratta non di raggiungere il livello medio di sviluppo dei paesi capitalistici avanzati bensì di "raggiungere o superare" il paese capitalistico più avanzato di tutti. Man mano che si approfondisce la crisi con l’URSS i tempi programmati per lo sviluppo economico conoscono un’accelerazione. Nel 1958, nel suo rapporto al VIII Congresso del PCC, Liu Shao-chi rilancia una parola d’ordine attribuita a Mao: "Raggiungere l’Inghilterra in quindici anni"(29). Il timore di un isolamento internazionale spinge a bruciare le tappe. A produrre il miracolo sono chiamate le "armate del lavoro", che si mobilitano nel corso del Grande Balzo in avanti, con i piccoli altiforni di villaggio installati sull’onda dell’entusiasmo di massa. La Risoluzione di Wuhan del 1958 dichiara: "Un fabbrica è un campo militare. Di fronte alle macchine l’operaio è disciplinato come il soldato"(30). Questa militarizzazione dell’economia, tanto più accentuata per il fatto che incombe realmente un grave pericolo di guerra, stimola un forte senso comunitario, un radicale egualitarismo, un cameratismo di guerra avvertiti e celebrati come l’inizio del comunismo (una dialettica analoga si era sviluppata nella Russia sovietica durante la fase del "comunismo di guerra").

Le speranze di realizzazione del patto sociale (e degli obiettivi di modernizzazione e di completamento dell’unità nazionale) sono ora riposte nella ripresa della rivoluzione mondiale, stimolata dall’inaudita trasformazione rivoluzionaria dei rapporti sociali interni della Cina. Le speranze sembrano ben fondate. In questi anni è sempre più impetuosa l’ondata anticolonialista: l’imperialismo non riesce a contenerla; nonostante tutto, sul piano strategico esso si rivela una "tigre di carta". Nel Terzo Mondo, i capisaldi delle grandi potenze coloniali cadono l’uno dopo l’altro. In gravi difficoltà è anche il neocolonialismo, come dimostra ad esempio la rivoluzione cubana. Nel complesso, la metropoli capitalista sta smarrendo il controllo della campagna; anzi, è in pieno svolgimento un processo che porta la campagna ad accerchiare la città. La dinamica che aveva assicurato il trionfo della rivoluzione cinese e che contrassegnava l’avanzata impetuosa dei movimenti di liberazione nazionale stava assumendo ormai una dimensione planetaria. Sempre più si andava restringendo, secondo Lin Piao (1965), il cerchio attorno alla cittadella capitalista e imperialista. E questa stessa cittadella era tutt’altro che compatta al suo interno, come rivelava l’avventura di Suez, che aveva visto il colonialismo classico di Francia e Inghilterra scontrarsi col neocolonialismo USA. Le "contraddizioni tra i paesi imperialisti" si rivelano così di decisiva importanza: "Nell’analisi dei problemi internazionali, noi siamo sempre dell’avviso che la contraddizione più forte è quella tra paesi imperialisti in lite tra loro per disputarsi le colonie. Essi si servono delle contraddizioni che hanno con noi per coprire quelle esistenti al loro interno"(31). Mao giungeva così ad una conclusione, forse anche suggerita, in misura non trascurabile, da un whishful thinking: "il mondo occidentale si spaccherà inevitabilmente"; "la cosiddetta unità dell’Occidente è un discorso vuoto"(32).

Ma, intanto, il capitalismo mondiale continuava ad essere presente anche all’interno della Cina. Come avrebbero reagito i residui delle vecchie classi dominanti ad una crisi internazionale di grandi proporzioni? "Oggi a prima vista queste persone sembrano rigare abbastanza diritto, non hanno ancora provocato disordini. Ma se cadesse una bomba atomica su Pechino come si comporterebbero? Non si ribellerebbero? La cosa è molto problematica"(33). E’ a tutti questi problemi che risponde la Rivoluzione Culturale. Mentre sul piano interno, stimolando l’entusiasmo di massa, avrebbe promosso l’impetuoso sviluppo delle forze produttive, sul piano internazionale l’onnipervasiva trasformazione rivoluzionaria dei rapporti economico-sociali e della sovrastruttura politica e ideologica avrebbe conferito ulteriore impulso e ulteriore radicalità alla gigantesca sollevazione in atto non solo nel Terzo Mondo propriamente detto, ma anche nel Terzo Mondo presente nel cuore stesso della metropoli imperialistica. Nell’estate del 1963, nell’esprimere il suo appoggio alla lotta degli afro-americani, Mao sottolinea "l’acutizzarsi delle contraddizioni di classe e nazionali interne agli Stati Uniti"(34). Pochi anni dopo, questa lotta sembra conoscere una decisa radicalizzazione in senso anticapitalista e antimperialista, in connessione con la diffusione in tutto il mondo capitalista di un movimento di rivolta che talvolta guarda con simpatia o con ammirazione alla Cina della Rivoluzione Culturale. In questo contesto appaiono giustificate anche le speranze più enfatiche. Con la vittoria della rivoluzione a livello planetario, sembra a portata di mano il conseguimento dei due obiettivi costitutivi del patto sociale del 1949: il recupero del ritardo della Cina rispetto all’Occidente e la definitiva liberazione dalla pressione dell’imperialismo.

Ma questa strategia fallisce. Come la Russia scaturita dall’Ottobre è chiamata ad un certo punto a fare i conti con la mancata rivoluzione in Occidente, così la Cina è costretta a fare i conti con la mancata rivoluzione nel Terzo Mondo e la mancata disfatta dell’imperialismo. E come nell’URSS si consuma la rottura Stalin-Trotsky, così in Cina si consuma la rottura Mao-Lin Piao.

5. Deng Xiaoping e la riformulazione del patto sociale del 1949

Dileguata è ormai l’illusione di poter promuovere lo sviluppo delle forze produttive facendo leva sul permanente entusiasmo rivoluzionario di massa. Nel maggio 1974, nel corso di un colloquio con l’ex-primo ministro inglese Edward Heath, Mao traccia un bilancio amaro con forti accenti autocritici. Rispondendo all’osservazione del suo interlocutore, secondo cui commettere errori è destino di tutti i grandi statisti, il presidente del PCC dichiara: "I miei errori sono più seri. Ottocento milioni di uomini hanno bisogno di mangiare e, per di più, l’industria cinese è sottosviluppata. Non posso vantarmi molto riguardo alla Cina. Il vostro paese è sviluppato e il nostro è sottosviluppato"(35). L’Inghilterra, che all’inizio del Grande Balzo in avanti Mao aveva sperato di raggiungere in quindici anni, continuava a mantenere intatto il suo vantaggio.

Non c’è dubbio: era caduto in crisi uno dei due elementi costitutivi del patto sociale del 1949. Quanto all’altro, la sua crisi era divenuta evidente ancora prima: gli scontri sull’Ussuri del 1968 avevano dimostrato che la Cina era esposta militarmente su due fronti; poteva persino verificarsi una riedizione della situazione del 1900, allorché una coalizione di otto potenze (compresi gli Stati Uniti e la Russia) aveva organizzato, contro il grande paese asiatico, una crociata per la difesa della "civiltà"; in ultima analisi, sussisteva il pericolo che si riaprisse quel periodo di umiliazione, oppressione e smembramento territoriale che il PCC aveva promesso di chiudere una volta per sempre.

Più tardi, nell’incontrare Gorbaciov il 16 maggio 1989 a Pechino, Deng s’interroga sulle ragioni della rottura precedentemente avvenuta tra i due paesi e i due partiti. A gettare un’ombra di sospetto erano stati già l’atteggiamento assunto dall’URSS a Yalta assieme alle altre grandi potenze, gli "accordi segreti di divisione tra loro delle sfere d’influenza, con gran danno per la Cina". Nel complesso, decisivo era stato il peso della questione nazionale:

"Io non ritengo che ciò sia avvenuto a causa delle dispute ideologiche; non pensiamo più che fosse giusta ogni cosa detta allora. Il problema principale era che i cinesi non erano trattati da eguali e si sentivano umiliati. Tuttavia, non abbiamo mai dimenticato che, nel periodo del nostro primo piano quinquennale l’Unione Sovietica ci aiutò per gettare le basi dell’industria"(36).

In realtà, da queste "dispute ideologiche" qualcosa di interessante è pur scaturito: l’insostenibilità della pretesa da parte di un paese o partito-guida di subordinare alla propria politica estera (e ai propri legittimi interessi nazionali) la linea politica (e i legittimi interessi nazionali) degli altri paesi, partiti e movimenti "fratelli": è una pretesa dalla quale la Cina, in virtù dell’attenzione costantemente accordata alla questione nazionale, è risultata nel complesso ben più immunizzata che non l’Unione Sovietica. E’ cioè emerso con chiarezza il carattere complesso e tortuoso del percorso internazionalista.

Dopo la crisi insorta negli anni che vanno dal grande Balzo in avanti alla Rivoluzione Culturale, s’impone in Cina una svolta politica chiamata a riprendere e riconfermare il patto sociale del 1949. Di ciò, almeno per quanto riguarda l’obiettivo della difesa dell’integrità territoriale e della rinascita nazionale, si rende conto già Mao: sull’onda del disgelo con gli USA, la Cina riesce a isolare diplomaticamente i dirigenti di Taiwan e a fare un ingresso trionfale nell’ONU e nel suo Consiglio di Sicurezza. Deng Xiaoping comprende che la politica di apertura era necessaria anche al fine del conseguimento del secondo obiettivo del patto sociale del 1949. Nel far ciò si ricollega ad un dibattito con una lunga storia alle spalle. Alla vigilia della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, nell’ambito dell’ampio fronte unito protagonista della vittoria si erano alzate voci che avevano invitato a cercare una politica di intesa con Washington. Ad esse aveva risposto Mao: "E’ vero che gli Stati Uniti hanno la scienza e la tecnica: ma sfortunatamente esse sono nelle mani dei capitalisti, non nelle mani del popolo, e vengono usate per sfruttare e opprimere il popolo in patria e, all’estero, per perpetrare aggressioni e massacri"(37).

Ma quella che nel 1949 era solo una possibile opzione, diventa sempre più una scelta obbligata man mano che la crisi prima e la dissoluzione poi del "campo socialista" e dell’Unione Sovietica determina una situazione caratterizzata dal godimento, da parte dell’Occidente guidato dagli USA, di un monopolio scientifico e tecnologico senza precedenti nella storia. A determinare la tragedia della Cina nell’Otto e Novecento era stato, assieme e in un rapporto di intreccio con l’aggressione colonialista e imperialista, il mancato appuntamento con la rivoluzione industriale. Questa catastrofe non doveva più verificarsi.

Si comprende così la polemica da Deng Xiaoping sviluppata contro la Rivoluzione Culturale, cui viene rimproverato non solo il mancato sviluppo delle forze produttive ma anche uno slittamento populistico che la porta ad inseguire l’ideale di "un ascetismo universale e un rozzo egualitarismo", duramente criticato dal Manifesto del partito comunista(38). E invece, secondo Deng, "non ci può essere comunismo col pauperismo o socialismo col pauperismo"; è una contraddizione di termini parlare di "comunismo povero"(39). Il socialismo e il comunismo non hanno nulla a che fare con la distribuzione egualitaria della penuria e della miseria: in primo luogo "socialismo significa eliminazione della miseria" e sviluppo delle forze produttive(40).

Ovviamente, la critica alla Rivoluzione Culturale investe anche Mao, ma essa non comporta in alcun modo una frattura di tipo kruscioviano. Deng continua ad agitare la parola d’ordine cara a Mao, secondo cui "solo il socialismo può salvare la Cina"(41); epperò, la chiarisce o la reinterpreta con l’aggiunta in base alla quale "solo il socialismo può sviluppare la Cina" . Per il Mao del 1949 la verità finalmente trovata dell’arma ideologica capace di assicurare la rivoluzione anticoloniale e antifeudale cinese era il marxismo-leninismo; per Deng quest’arma è un marxismo-leninismo che si libera delle sue incrostazioni populistiche e pauperistiche.

Su questa base, ieri come oggi, il PCC sviluppa una politica di fronte unito e raccomanda il socialismo e il ruolo dirigente dei comunisti come la via maestra che conduce alla salvezza e alla rinascita della nazione cinese nel suo complesso: "Deviate dal socialismo e la Cine retrocederà inevitabilmente al semi-feudalesimo e al semi-colonialismo".(42)

6. Approdo nazionalista o "nuova rivoluzione"?

In più occasioni Deng Xiaoping definisce il nuovo corso da lui inaugurato, con l’impetuoso sviluppo economico che ne è derivato, come una "seconda rivoluzione" che dà nuovo slancio alla causa del socialismo: "il socialismo ha uno splendido futuro"(43) . Allo stesso modo argomenta il nuovo gruppo dirigente guidato da Jiang Zemin. Accolto spesso con scetticismo nella stessa Cina, in Occidente questo discorso non viene neppure preso in considerazione. A negargli qualsiasi credibilità e dignità è in primo luogo la sinistra: la restaurazione del capitalismo sembra essere sotto gli occhi di tutti.

Questa "evidenza" diventa forse più problematica se riflettiamo sul fatto che in modo non molto diverso fu a suo tempo e giudicata la NEP. Affidiamoci all’analisi di uno storico inglese contemporaneo. Se i disoccupati, il cui numero cresce sensibilmente, sono "ridotti alla fame", ben diversa è la situazione dei nuovi ricchi: "Coprivano mogli e amanti di pellicce e diamanti, viaggiavano in macchinone estere […], si vantavano ad alta voce nei bar degli alberghi delle enormi fortune sperperate giocando ai cavalli e d’azzardo, negli ippodromi e nei casinò da poco impiantati". Questa ostentazione, che avviene "sullo sfondo della fame e delle sofferenze impressionanti di quegli anni", suscita "un diffuso senso di amaro risentimento". Una crisi colpisce il partito comunista: "Nel 1921-1922 letteralmente decine di migliaia di operai bolscevichi strapparono la tessera disgustati dalla NEP: l’avevano ribattezzata Nuova Estorsione al Proletariato"(44).

Oggi il quadro storico risulta radicalmente diverso, e sarebbe superficiale abbandonarsi al gioco delle analogie. Ma non meno superficiale è l’"evidenza" della restaurazione del capitalismo": essa perde di vista il fatto che anche nella Cina di oggi c’è sfasatura tra quadro economico e quadro politico e dimentica la distinzione, fatta valere già da Mao, tra espropriazione economica e espropriazione politica della borghesia.

E, tuttavia, oggi in Occidente è pressoché incontestato il discorso in base al quale, declinata l’ideologia comunista, i dirigenti cinesi avrebbero abbracciato il nazionalismo. E’ un’argomentazione che si presenta semplice e concisa e che, però, nella sua semplicità e concisione, contiene almeno tre errori. In primo luogo ignora il peso che la questione nazionale ha sempre avuto nello sviluppo del comunismo cinese. In secondo luogo rimuove il nesso tra emancipazione nazionale e emancipazione sociale, che costituisce un elemento essenziale del marxismo e del leninismo; è proprio a partire da ciò che Mao può formulare la tesi già vista, secondo cui "c’è unità tra internazionalismo e patriottismo". A questa visione continua ad ispirarsi Deng Xiaoping: proprio sviluppando le forze produttive e la ricchezza sociale la Cina può fornire "un reale contributo all’umanità"; non solo libera dalla fame un quarto o quinto della popolazione mondiale ma incoraggia anche il resto del Terzo Mondo a scuotersi di dosso il peso della miseria e del sottosviluppo (45).

In terzo luogo, quell’argomentazione non definisce o definisce assai male la categoria di nazionalismo. Chi sono i nazionalisti? C’è differenza tra la difesa dell’indipendenza e dignità nazionale e un nazionalismo esaltato ed aggressivo? Nonostante le superficiali somiglianze o assonanze, siamo in presenza di due atteggiamenti radicalmente diversi: l’uno è universalizzabile mentre l’altro non lo è. Il riconoscimento e la difesa della dignità di una nazione sono perfettamente compatibili col riconoscimento e la difesa della dignità delle altre nazioni. E’ evidente, invece, che la categoria di "popolo di signori" (ovvero di "razza di signori") non è universalizzabile: intanto ci può essere un popolo di signori in quanto ci sono popoli servili e destinati al servaggio.

Analoghe considerazioni si possono fare per la categoria di popolo eletto cara a Bush jr., il quale non ha esitato a proclamare un nuovo dogma: "La nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo"(46). Non si tratta di una voce isolata. Ascoltiamo Clinton: l’America "deve continuare a guidare il mondo"; "la nostra missione è senza tempo". Sempre procedendo a ritroso, ci imbattiamo in Bush sr.: "Io vedo l’America come leader, come l’unica nazione con un ruolo speciale nel mondo". Infine, diamo la parola a Kissinger: "la leadership mondiale è inerente al potere e ai valori americani"(47)! E’ evidente che non è universalizzabile l’idea di popolo eletto, investito una missione unica e al quale compete il compito eterno di guidare il mondo. Anzi, questa idea è gravida di conflitti esplosivi. Per rendersene conto, basta accostare le dichiarazioni precedentemente citate ad una dichiarazione attribuita a Hitler: "Non ci possono essere due popoli eletti. Noi siamo il popolo di Dio"(48). Pur tra loro radicalmente diverse per tanti altri aspetti, le due ideologie qui messe a confronto hanno un tratto in comune: esprimono un’idea così enfatica ed esclusivistica di nazione da rendere impossibile qualsiasi universalizzazione. E in ciò risiede l’essenza del nazionalismo, ovvero dell’"egemonismo" costantemente criticato negli interventi dei dirigenti cinesi.

E questo rifiuto dell’egemonismo è costituivo del patto sociale cui fanno riferimento la Repubblica Popolare Cinese e il PCC ieri e oggi. Abbiamo visto la polemica di Mao, nel 1949, contro coloro che punta sulla scienza e la tecnologia statunitense per promuovere lo sviluppo della Cina. Agli inizi del nuovo corso, Deng dichiara: "Dobbiamo tener ferma la via socialista. Ora alcuni dicono apertamente che il socialismo è inferiore al capitalismo. Dobbiamo farla finita con questa controversia". Nonostante gli errori e gli zig-zag della sua storia, la Repubblica Popolare Cinese - osserva Deng nel 1979 - ha già sensibilmente ridotto le distanze rispetto ai paesi più avanzati. La rinuncia al socialismo e alla direzione del PCC comporterebbe una regressione paurosa, che non potrebbe mai essere tollerata dalla "stragrande maggioranza del popolo cinese"(49).

Si comprende allora su quale base si sviluppino il dibattito e la lotta politica all’interno non solo del fronte unito ma anche del PCC. Potremmo dire che, nell’ambito di una comune partecipazione ad una lotta di emancipazione, ad una corrente nazionale, che vede concluso il processo rivoluzionario col conseguimento degli obiettivi nazionali (modernizzazione, recupero dell’integrità territoriale e rinascita della Cina), si contrappone una corrente con obiettivi ben più ambiziosi, che rinviano alla storia e al patrimonio ideale del movimento comunista.

Se analizziamo la rivoluzione in Cina tenendo presente l’intero arco del suo svolgimento (non si dimentichi che il PCC comincia ad accumulare esperienze di gestione del potere oltre due decenni prima della conquista del potere su scala nazionale), vediamo che il Grande Balzo in avanti e la Rivoluzione Culturale rappresentano una rottura di breve periodo nell’ambito di un processo per un altro verso caratterizzato da sostanziale continuità. Alla luce di ciò, precipitosi e superficiali si rivelano i discorsi che parlano, con un giudizio di valore positivo o negativo, di "restaurazione del capitalismo". Conviene, invece, tener presente una preziosa indicazione metodologica di Gramsci. Questi formula la tesi secondo cui la rivoluzione borghese in Francia abbraccia un periodo che va dal 1789 al 1871, e cioè dal crollo dell’antico regime all’avvento della Terza Repubblica(50). Perché una rivoluzione possa considerarsi conclusa, non basta che la nuova classe abbia conquistato il potere o che l’abbia consolidato; è necessario anche che essa abbia trovato una forma politica relativamente stabile di gestione del potere. Tra il 1789 e il 1871 si succedono tumultuosamente le più diverse forme politiche (la monarchia costituzionale, esperimenti repubblicani di breve durata, la dittatura militare, l’Impero, il regime bonapartista ecc.) sino a che la borghesia francese trova nella repubblica parlamentare la forma politica normale e stabile dell’esercizio del suo potere e della sua egemonia. Per quanto riguarda la Cina, il nuovo scaturito dalla rivoluzione è ancora alla ricerca non solo della forma politica ma anche dei contenuti economico-sociali in cui dovrebbe trovare stabile espressione. Siamo in presenza di un processo di lunga durata e in pieno svolgimento; esso ha già conseguito risultati straordinari, ma i suoi ulteriori sviluppi e il suo esito sono del tutto imprevedibili.

Domenico Losurdo


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Note

1. Cfr. Tucker, 1990, pp. 50 e 98; Bullock, 1992, pp. 279-80.
2. Figes, 2000, pp. 840 e 837.
3. Mao Zedong, 1998, pp. 87-8.
4. Mao Zedong, 1979, p. 15.
5. Bloch, 1971, pp. 321-2; su ciò cfr. Losurdo, 1997 a, pp. 171-2.
6. In Figes, 2000, p. 926.
7. In Agosti, 1974-79, vol. I, 1, pp. 74-5.
8. Mao Zedong, 1969-75, vol. IV, p. 169.
9. Mao Zedong, 1969-75, vol. I, pp. 195 e 203.
10. Mao Zedong, 1969-75, vol. IV, pp. 469-470 e 472.
11. Mao Zedong, 1998, pp. 242-3.
12. Losurdo, 1997, p. 204.
13. Mao Zedong, 1969-75, vol. IV, p. 467.
14 Mao Zedong, 1969-75, vol. II, p. 360.
15. Mao Zedong, 1979, p. 579.
16. Mao Zedong, 1979, p. 475.
17. Mao Zedong, 1998, p. 251.
18. Boyle, 1990, p. 193.
19. Clark, 1996.
20. Fontaine, 1968, vol. II, p. 118.
21. Mao Zedong, 1998, p. 250.
22. Mao Zedong, 1998, p. 394.
23. Maxwell, 1973.
24. Mao Zedong, 1998, p. 251.
25. Mao Zedong, 1979, p. 168.
26. Mao Zedong, 1979, p. 177.
27. Mao Zedong, 1979, p. 393.
28. Mao Zedong, 1979, p. 659.
29. Guillermaz, 1970, vol. II, p. 229.
30. Guillermaz, 1970, vol. II, p. 232.
31. Mao Zedong, 1979, pp. 191 e 482.
32. Mao Zedong, 1998, p. 280.
33. Mao Zedong, 1979, p. 482.
34. Mao Zedong, 1998, p. 378.
35. Mao Zedong, 1998, p. 457.
36. Deng Xiaoping, 1994, pp. 286-7.
37. Mao Zedong, 1969-75, vol. IV, p. 451.
38. Marx-Engels, 1955, p. 489.
39. Deng Xiaoping, 1994, p. 174.
40. Deng Xiaoping, 1994, p. 122.
41. Deng Xiaoping, 1994, p. 302.
42. Deng Xiaoping, 1995, p. 176.
43. Deng Xiaoping, 1994, pp. 119 e 311.
44. Figes, 2000, p. 926.
45. Deng Xiaoping, 1994, pp. 222-3.
46. Cohen, 2000.
47. Losurdo, 1999, p. 34.
48. Rauschning, ed; fr., p. 321.
49. Deng Xiaoping, 1995, pp. 175-6
50. Cfr. Losurdo, 1997, pp. 137 sgg.

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