I TRE ASPETTI "SOGGETTIVI" DELL'UNITARIETA' DEI TEATRI DI CRISI AFGHANO E PALESTINESE.
LA COSIDDETTA NUOVA "YALTA", IL SOSTEGNO SIONISTA ALL'ESTREMISMO ISLAMICO E L'OMBRA DI ISRAELE NEGLI ATTACCHI DELL'11 SETTEMBRE

di Claudio Moffa, novembre 2001

Premessa: attacco alla Somalia?

Quali saranno i prossimi sviluppi della "guerra infinita" di Bush? Un attacco alla Somalia? Una "soluzione finale" per l'Irak, con l'obbiettivo di eliminare Saddam Hussein? E come si inseriscono i guerreggiamenti sul confine indo-pakistano nella crisi in atto? Mentre scriviamo la situazione è ancora fluida, ma nonostante questo, o forse proprio per questo, è indubbio che unilateralismi interpretativi e separatezze artificiose fra i diversi scacchieri di crisi rischiano di falsare l'analisi della fase imperialistica post-11 settembre. Primo esempio: se il prossimo boccone fosse la Somalia, un paese già distrutto da anni di guerra civile, geograficamente semidesertico, e per questi motivi assolutamente insignificante dal punto di vista della cosiddetta lotta al terrorismo (1), sarebbe facile ridurre la nuova svolta al solo fattore petrolio - le ricerche nei fondali prospicienti la costa fra Marka e Kisimayo, la collocazione del paese sullo stretto di Bab El Mandeb - nel quadro del più generale problema dei prezzi del greggio, non a caso tornato al livello minimo dall'ottobre del 1999 due settimane dopo gli attentati (2). Senonché, questa interpretazione unilaterale dovrebbe fare i conti con uno scenario più complesso: per esempio, il fatto che gli interessi dell' "Occidente" variano a seconda che si parli di Unione Europea o di Stati Uniti, di operatori del mercato o di governi (3); che la volontà tutta politica e geostrategica di Israele o di settori filoisraeliani negli USA e in Europa di strangolare l'Irak, può arrivare all' "uso" dello stesso fattore petrolio (dunque, in questo caso, un "sub"-fattore), a fini di distruzione dell'odiato regime di Saddam Hussein, o magari solo di incrinatura, in funzione antipalestinese, dei legami fra gli USA di Bush e il colosso saudita, destinato a contare meno a Washington nel caso di una maggiore presenza americana nel petrolio della regione asiatico-caspica (4).

Secondo esempio: in caso di attacco all'Irak, non solo il rischio almeno nell'immediato è un rialzo del prezzo del greggio (5), ma sarebbe comunque veramente assurdo non cogliere la diretta saldatura quanto meno, nel "nuovo" conflitto, fra l'affare Bin Laden e l'annosa questione israelo-palestinese-irachena, un linkage chiarissimo, operante almeno fin dal 2 agosto del 1990, data di quell'invasione del Kuwait da parte di Bagdad che preluse come noto alla guerra "alleata" - col plauso esplicito di Israele e delle sue comunità in Europa e negli USA - il 17 gennaio 1991.

Terzo esempio: fermo restando che la crisi del capitalismo USA è sicuramente fattore importante della "guerra infinita" di Bush, con o senza i suoi derivati di "keynesismo militare", sarebbe di nuovo riduttivo e schematico ricondurre direttamente a tale crisi il conflitto fra India e Pakistan: nel quale giocano geopolitiche locali di lunga data - la questione del Kashmir - conflitti culturali e etno-religiosi evidenti - i rapporti "di frontiera" fra islamismo e induismo - e dove, di nuovo, riappare con nettezza - sol che si abbia la volontà e il coraggio di approfondire l'analisi - una presenza forte di Israele: presenza quanto meno di fatto, essendo Tel Aviv il principale fornitore di armi dell'India, collaboratore con New Dehli anche in campo nucleare (6), e alleato prediletto degli integralisti induisti del BJP se non altro in ragione del comune contenzioso con l'Islam (7). Presenza inoltre, ben ipotizzabile anche come attiva, e per il semplice motivo che la nuova crisi, riemersa improvvisamente non a caso a conclusione della prima fase della guerra contro l'Afghanistan, e a ridosso delle voci che darebbero Bin Laden fuggiasco guarda caso proprio in Pakistan, sta favorendo con ogni evidenza Israele e la sua politica del fatto compiuto in Palestina. La nuova guerra vorrebbe dire infatti un nuovo colpo ad un altro bastione islamico, e soprattutto, l'ennesimo depistaggio dei riflettori della diplomazia internazionale - quella USA compresa - dallo scacchiere degli "accordi" di Oslo ad altro scenario, secondo un' "aspettativa" dei sionisti (in realtà una cosciente e vincente strategia!) di lunga e consolidata tradizione almeno dal 1973 ad oggi. Che sia la Somalia o magari - per restare in campo africano - la Nigeria settentrionale della sharia islamica; che sia l'Irak o lo Yemen, l'Argentina del tragico attentato alla comunità ebraica locale, o il Kashmir o qualsiasi altro teatro di crisi in qualsiasi angolo del pianeta, è evidente anche ai ciechi che ogni situazione di disordine, instabilità e crisi - quale che ne sia l'origine, anche la più lontana possibile dall'attore israeliano - giova all' "ordine" sionista nei Territori occupati, imposto al popolo palestinese in violazione di ogni regola di diritto internazionale e di rispetto dei diritti umani e civili.

Il triplice linkage fra "guerra infinita" e guerra israelo-palestinese

La nostra tesi perciò - con riferimento a quanto dibattuto o non dibattuto, fatto o non fatto dall'11 settembre ad oggi - è la seguente: esiste una connessione profonda, e comunque assai più diretta di quanto appaia, fra la guerra afghana e i suoi derivati in atto o a venire, e la irrisolta crisi israelo-palestinese, connessione mal colta e talvolta quasi negata da larga parte del movimento contro la guerra in Italia: è fuorviante, insomma, ridurre l'aggressione all'Afghanistan ad un solo fattore, fosse anche quello "strutturale" e "surdeterminante", della crisi economica, mentre occorre al contrario assumere la complessità della nuova fase imperialista e soprattutto cogliere la presenza attiva al suo interno della componente "sovrastrutturale" (8) sionistico-israeliana. In altri termini guerra al "terrorismo islamico" e eventuali derivati, e guerra israelo-palestinese costituiscono un fenomeno unico e inscindibile, e non solo perché immersi in una determinata "fase" economica del ciclo capitalistico, ma - sul piano più precisamente politico - per lo meno per tre ordini di motivi: innanzitutto, le due crisi sono collegate per l'uso diplomatico- geostrategico che ne fanno i diversi attori in campo, dagli USA alla Russia, ai paesi arabi moderati, all'Europa, allo stesso Israele. In secondo luogo, sono collegate per le evidenti, e talvolta pienamente provate, convergenze e connivenze fra estremismo islamico e estremismo israeliano. Infine, esse risultano con sempre più alta dose di probabilità, legate anche e soprattutto nell' evento originario la nuova guerra, gli attentati dell'11 settembre, la cui paternità Bin Laden continua a negare anche dopo il quinto video, e dei quali tutti sia pure a denti stretti, hanno ammesso l' "ambiguità" e la co-regia "interna" agli Stati Uniti e all'Occidente. Ragioniamo dunque a tutto campo e in modo diffuso su questi tre aspetti, cominciando da una breve riflessione del "prima" e "dopo" gli attentati dal punto di vista di Israele.

Primo "linkage". L'uso israeliano della "lotta al terrorismo" e la cosiddetta nuova Yalta.

I primi dieci giorni di settembre erano stati i peggiori per Israele dal '48 a questa parte: a Durban la conferenza sul razzismo, nonostante l'ottimismo di facciata di Peres e degli occidentali, aveva evidenziato l'isolamento internazionale dello stato sionista, prefigurando - soprattutto per quel che riguarda i rapporti solidali fra africani e arabi - un clima abbastanza simile a quello istauratosi all'indomani della guerra del Kippur del '73; dentro i confini del paese, regnavano insicurezza e paura generalizzate per le azioni non solo più suicide, ma anche classicamente militari (vedi l'attacco al Ministero della Difesa del Fronte democratico palestinese) contro civili e soldati; Sharon - ultimo erede di uno stato che su Norimberga aveva costruito la propria legittimità giuridica internazionale -- era stato incriminato in Belgio per crimini contro l'umanità; ormai tutti pensavano che il mandante del massacro di Sabra e Shatila non sarebbe durato a lungo, e su Repubblica un osservatore acuto come Sandro Viola ne evidenziava il fallimento totale di fronte alla nuova Intifada. Con ogni probabilità Sharon era sul punto di andarsene, col plauso di Colin Powell, il "filoarabo" della Casa Bianca.

Il 12 settembre il panorama era completamente cambiato: per l'ennesima volta dal 1973 (guerra Irak-Iran, Jugoslavia e derivati fino all'attuale crisi macedone, guerra Etiopia-Eritrea, etc), i riflettori internazionali si erano spostati dal teatro israelo-palestinese a quello del più grave evento internazionale (il più grave, beninteso, nella percezione degli occidentali) dopo la seconda guerra mondiale; Sharon era di nuovo ben saldo in sella, e poteva rinfacciare spavaldamente agli USA cosa volesse dire avere il "nemico in casa"; con parole chiarissime, il premier israeliano aveva anche additato il debole Arafat come il "Bin Laden" di Israele; l'ottimismo riprendeva quota in Israele (9); e nel clima di isteria postattentati (comprensibile! Migliaia di morti in un paio d'ore!), i soliti "esperti israeliani" e i soliti rapporti dei servizi segreti additavano l'Irak di Saddam Hussein come il primo fra i corresponsabili - dopo il quasi innocuo Afghanistan - dell'orrore dell'11 settembre. Obbiettivo evidente, riprendere - Bush junior duce - la marcia su Bagdad interrotta nella primavera del 1991 dal generale Schwarkopf su ordine di Bush senior; creare dunque nuovi equilibri mediorientali favorevoli a Israele, e ripartire dalle ceneri di una auspicata (ed ancora possibile) guerra al nemico arabo per "rilanciare" pro domo propria il negoziato di Oslo, sconfiggendo definitivamente la nuova Intifada palestinese. Mi fermo qui: ce n'è abbastanza, credo, per capire l' "uso" immediato - e senza per ora entrare nel merito della paternità degli attentati - dell'11 settembre da parte di Israele, per quel che riguarda sia la fin qui solo tentata (vedi la "pista" antrace) estensione del conflitto all'Irak, sia l'utile ma forzatissimo paragone fra i "kamikaze" artigianali in Palestina e quelli ipertecnologizzati di New York, quale proposto in dichiarazioni ufficiali di Tel Aviv già il 12 settembre (10) .

Ma è solo Israele a stabilire un linkage concretamente operante fra "guerra infinita" e Intifada? Niente affatto: anche tutti gli altri grandi protagonisti internazionali della crisi hanno collegato direttamente e quasi senza ambiguità - nell'elaborazione e attuazione concreta della loro iniziativa politico-diplomatico-militare - l'avvio afghano della "guerra infinita" alla crisi israelo-palestinese. A parte la coincidenza fra gli attentati e il già previsto discorso di Colin Powell alle Nazioni Unite, a favore dello "Stato palestinese" - coincidenza affatto strana, e di cui diremo più avanti - è la stessa "Grande Alleanza" contro il terrorismo che poggia le sue basi su uno "scambio" fra Bin Laden e Sharon. Certo, alcuni documenti sono solo ufficiosi, e magari imputabili - a voler essere iperrigorosi - di scarsa attendibilità, come quella lettera di autorevolissima fonte diplomatica pubblicata su Liberazione il 18 ottobre 2001 nella quale si indicavano i due obbiettivi di fondo della cosiddetta nuova "Yalta": e cioè non solo la sconfitta del "terrorismo islamico", ma anche, appunto, il "ridimensionamento di Israele" (sic) (11). Ma, a parte questa documentazione, a render chiaro il linkage ci sono comunque le numerose dichiarazioni dei vari protagonisti della trama politico-militare-diplomatica: in effetti il coinvolgimento sia pure solo passivo dei paesi arabi "moderati" e persino del Sudan nella guerra contro l'Afghanistan è stato reso possibile da un "do ut des" collegante i due teatri di crisi. Così, fra le accese proteste di Israele, gli Stati Uniti hanno dato via libera all'ingresso della Siria nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU. L'Arabia saudita e l'Egitto hanno ripetutamente dichiarato di non accettare l'equiparazione avanzata da Sharon fra Bin Laden e Hamas. Maurizio Molinari su La Stampa del 18 ottobre scriveva del resto che "la linea del segretario di stato Colin Powell" consisteva nell'"evitare azioni o dichiarazioni che possano contrapporre apertamente gli stati Uniti ai gruppi dell'Intifada Al Aqsa nei Territori al fine di evitare che Osama Bin Laden si impossessi della causa palestinese nella sua guerra contro gli Stati uniti per allontanare i paesi arabi dalla coalizione contro il terrorismo". Insomma, già a questo primo livello, "soggettivo" "sovrastrutturale" politico-diplomatico geostrategico, la connessione fra la vecchia "questione israeliana" e la nuova "guerra al terrorismo" è evidente. Perché espungerla dalle analisi, dai convegni, dai dibattiti, se fra l'altro la ricaduta ovvia di una simile errata scelta finisce anche per danneggiare il movimento di solidarietà con i palestinesi e con gli irakeni, facendo il gioco di Israele?

Il secondo linkage: le prove del sostegno di Israele all'estremismo islamico

Nel convegno sulla guerra di Napoli del 20 ottobre scorso organizzato dall'editore Manes, si è dibattuto sia pure in modo frettoloso sulla questione della nuova cosiddetta "Yalta" di cui sulla già citata Liberazione. Alcuni interventi snobbavano come impossibile una simile ipotesi -- che beninteso, voleva solo significare, con un termine sicuramente improprio, una inversione di tendenza nei rapporti russo-cino-americani quali si erano delineati conflittualmente dopo la guerra del '99 - rifiutandosi di cogliere la novità della svolta dell'11 settembre. Fra questi, Andrea Catone. Mi ha meravigliato perciò leggere dello stesso Catone su l'ultimo Ernesto un articolo dal titolo, "Nuova Yalta, o nuova Malta?", in cui la sua tesi appariva, nel giro di poche settimane, esattamente rovesciata (12). Non solo la Russia di Putin "convergeva" verso gli Stati Uniti - come il sottoscritto sosteneva appunto a Napoli - ma addirittura - sulla scia di quanto scritto in una lettera a Putin da Ziuganov - svendeva in toto la sua sovranità nazionale nello stile sciagurato di Gorbaciov. Da paese ancora (il 20 ottobre) minacciato e prossimo obbiettivo degli USA nella marcia di avanzamento verso Est post-guerra jugoslava del 1999, a vassallo dell'imperialismo americano: questo il mutamento di giudizio che emergeva dall'articolo dell'Ernesto. Personalmente continuo a ritenere anche oggi che la situazione sia più complessa, e che ad esempio la Russia, se ha permesso la presenza diretta americana in territori asiatico-centrali della vecchia Urss, nondimeno sta ottenendo delle non indifferenti contropartite, dalla rinnovata presenza in Afghanistan attraverso i settori tagiki dell'Alleanza del Nord, alla probabile vanificazione dell'oleodotto via-Kabul a vantaggio di quello passante per le regioni sotto suo controllo, alla incancrenita questione cecena. Questo non vuol dire che il rischio di una subalternità non ci sia, magari contrastabile dai comunisti russi.

Ma occorrerebbe capire un aspetto di fondo della convergenza russa nella precarissima "grande alleanza" di Bush: e cioè che l'obbiettivo del "ridimensionamento di Israele" non è nel caso di Mosca solo espressione di "filoarabismo", attinente cioè la politica estera di Mosca nello scacchiere mediorientale, ma è inerente alla sua stessa sopravvivenza di stato unitario, ed è dunque questione di politica inanzitutto interna. Perché? Perché e in che senso Putin ha dichiarato dopo l'11 settembre che gli attacchi alle Torri gemelle hanno la "stessa" matrice del terrorismo ceceno?

Le risposte a queste domande conducono dritto al secondo linkage rilevabile fra la guerra al terrorismo islamico e la guerra fra Israele e palestinesi, quasi mai (oserei anzi dire "mai") rilevato dalla stampa di sinistra, di destra e di centro dopo l'11 settembre: e cioè, esistono da una parte indizi sia pure in quanto tali precari, di convergenze operative fra il Mossad e Bin Laden, e dall'altra prove provate del sostegno israeliano e sionista all'estremismo islamico: in Cecenia, appunto, in Bosnia e Kossovo.

Gli indizi riguardano certe affermazioni di fonti differenti sulla biografia politica del finanziere saudita e sulla storia di Al Qaeda: come ad esempio quella del senatore Larouche, per il quale "Osama bin Laden è una creazione dei servizi segreti statunitensi, britannici e israeliani" (13); o quella riportata da il manifesto, dell'ex collaboratore di 'Carlos' Anis Naccache, che ha ricordato che la "scuola" per terroristi islamici operante negli anni Ottanta in Marocco, era organizzata e gestita non solo dalla Cia ma anche dal Mossad (14); o come, perché no, a proposito di estremismo islamico in genere, la candida dichiarazione alla Camera dell'ex ministro degli interni Mancino, il 28 luglio 1993, che le indagini sugli attentati di quell'anno in Italia, attribuiti dal procuratore Vigna ad una "lobby finanziaria", e rivendicati telefonicamente da un presunto gruppo islamista, avevano portato a scoprire in realtà che "grazie ad una intercettazione … la rivendicazione islamica proveniva da un cellulare di proprietà di un cittadino israeliano" (15).

Indizi. Ma dagli indizi si passa ai fatti accertati: in Kosovo e Macedonia, la guerriglia dell'UCK è notoriamente finanziata da George Soros; in Bosnia, l'alleanza di Israele con i musulmani locali è di vecchia data, come scrivevano fra i tanti Janiki Cingoli su il Giorno del 13 febbraio 1993, e Massimo Nava su il Corriere della Sera del 5 marzo dello stesso anno (16). In Cecenia, ancora il Corriere della Sera del 15 settembre 1999 riferiva che "il burrattinaio (della guerriglia islamica, ndr) additato unanimente dall'opposizione e da numerosi giornali era Boris Berezovsky, finanziere ebreo, anima nera del Cremlino, cassiere della famiglia Eltsin" . Illazioni? In realtà, il rapporto fra la guerriglia islamica e il presidente della Sinagoga di Mosca (Berezovsky, appunto: il quale ha cittadinanza anche israeliana) veniva dimostrato nell'articolo dalla trascrizione di alcune sue telefonate con il capo ceceno Udugov. "In una conversazione del 21 giugno - scriveva il quotidiano milanese - Udugov chiede a Berezosvky: "Hai dato disposizioni in riferimento al fax che ti ho mandato?". "Quale fax?". "Quello che avevamo concordato, nei limiti di 7/800… alcune centinaia". Per il giornale (Moskovskij Komsolets, ndr) i due parlano di centinaia di migliaia di dollari" (…)

"Altra chiamata il 31 luglio, una settimana prima dell'attacco ceceno. Udugov si riferisce a un fax ricevuto e dice: "quella cifra …lì c'è scritto 150. Tu questo vuoi dire?" Gli risponde Berezovsky: Esattamente. E' quello che ora posso fare. Di più non potrò fare nulla, te l'ho già detto". "Ma io pensavo … quel fax che ti avevo mandato, ti chiedevo 7/800". "Ho fatto quel che ho potuto". (…) Un altro giornale, Tribuna, pubblica la testimonianza di un ex portavoce' di Eltsin, Pavel Voshanov, il quale afferma di sapere con certezza che nel '97 (lui non era più al Cremlino da tempo) il capo di un servizio segreto informò Eltsin che Berezovsky aveva consegnato direttamente a Basaev una valigia piena di valuta estera: " e si può dire con certezza che non si trattava di un riscatto per russi rapiti" "(17) .

Il terzo sempre più probabile linkage: gli attentati dell'11 settembre.

Abbiamo già scritto della situazione di Israele prima e dopo gli attentati. Quello dell'11 settembre è stato perciò un mero "uso" ex-post del tragico evento da parte di Israele, un'inaspettata ancora di salvezza per uno Sharon sull'orlo delle dimissioni (e ancora di più, per un progetto politico più ampio, che non corrisponde certo solo agli interessi "personali" del premier israeliano)? Oppure si può da queste considerazioni, in base al classico discorso del "cui prodest", dedurre che in quell'attentato c'è stato anche lo zampino più o meno diretto, o più o meno indiretto, di Israele e del sionismo?

A esser rigorosi (una rigorosità del tutto assente nei confronti non solo di Bin Laden e "derivati", ma anche di altre ipotesi interpretative della guerra in atto), non c'è risposta certa all'interrogativo, e probabilmente nessuno mai l'avrà tenuto conto delle nebbie che avvolgono tuttora, a decenni e magari quasi a un secolo di distanza, tutti i grandi attentati della storia contemporanea: da Serajevo 1914 a Dallas 1963, dalla strage di Bologna all'attentato di Beirut che scatenò nel '75 la guerra civile in Libano. Tuttavia, alcune considerazioni vanno proposte e alcuni tasselli vanno telegraficamente ricordati:

1) La giusta opposizione alla guerra USA, si è svolta da parte della sinistra e dei pacifisti in modo sostanzialmente subalterno alla versione dei fatti predominante: c'è chi per pacifismo integrale ha combattuto e combatte qualsiasi reazione militare; chi ha cercato inizialmente di far passare l'idea (peraltro rivelatasi utopistica) di una reazione mirata - che evitasse cioè danni alla popolazione civile - e "sotto l'egida dell'ONU"; chi continua ad invitare alla "comprensione" del "terrorismo islamico" (che dunque si dà per effettivamente tale, esente cioè da infiltrazioni e connivenze di ben altra origine) in ragione della povertà e dello sfruttamento del Sud da parte del ricco Nord; chi insiste solo sugli indubbi fattori strutturali della guerra di Bush, magari ripescando quel "complesso militare-industriale" di vietnamita memoria che Michael Klare aveva ragione a teorizzare negli anni sessanta, in una fase storica cioè in cui l'imperialismo non era ancora pregno di speculazione e rentierismo parassitario come oggi (18). Al massimo, nel variegato fronte di opposizione alla guerra, possiamo trovare chi con giusto garantismo ricorda che a tuttoggi non esiste alcuna prova provata delle responsabilità del finanziere arabo negli attentati dell'11 settembre; che Bin Laden, dopo ben cinque video, continua nei fatti a negare di essere l'autore delle stragi; che nessuna organizzazione islamica (e anzi nessuno) ha rivendicato l'attacco: e che per tutti questi motivi - di fronte ad un nemico tuttora invisibile - sarebbe ingiusta alla radice, qualsiasi reazione "punitiva". Pochi però provano - almeno nella sinistra "che conta" - a fare il salto di qualità nella direzione di una "controinchiesta" sugli attentati dell'11 settembre, per verificare l'effettiva consistenza della pista (solo) "islamica". La sinistra ha perso ogni memoria di quell'atteggiamento critico che la portò nel lontano '69 a redigere il libro "La strage di stato" sulle bombe di Piazza Fontana. Beve tutto o quasi quel che gli si dice, e reagisce a ciò che sta accadendo in chiave o solo "etica" (l'etica è importantissima, ma debole se non sorretta da una buona analisi), o pigramente e scolasticamente "struttural-marxista" (cioè in ultima analisi, pseudomarxista)(19) .

2) Non basta. Occorre portare alla luce i tasselli nascosti dell'immane delitto compiuto dai terroristi dell'11 settembre, e indirizzare l'analisi - - come ci invita a fare giustamente Giulietto Chiesa sul quaderno speciale di Limes (20), e su Avvenimenti nuova serie - verso l'individuazione non tanto della "rete" islamica, ma della presumibile "cupola" criminale che ha ordito l'assassinio di migliaia di persone in un sol giorno, con o senza la collaborazione di Bin Laden: tenuto conto delle caratteristiche degli attentati, del tempo necessario alla sua incubazione e preparazione, del numero delle persone presumibilmente coinvolte (un centinaio di persone), dell'accertata capacità dei grandi servizi segreti del mondo (a cominciare dalla Cia e dal Mossad) di monitorare, se non addirittura di infiltrarsi in quale che sia organizzazione "eversiva" del pianeta, è evidente che gli attentati dell'11 settembre hanno goduto della copertura indiretta, se non dell'aiuto diretto di centrali occulte di potere, che molto probabilmente hanno ben poco a che fare - almeno immediatamente - con l'Islam e con i paesi della "lista nera" che si intenderebbe colpire. "Il terrorismo che ha abbattuto le Twin Towers non è affatto soltanto 'islamico'. E' 'anche' islamico e fanatico, ma è 'anche' il frutto di un calcolo più vasto che non è stato ancora scoperto … Solo un gruppo equivalente a un servizio segreto, dotato di tutte le sue competenze, poteva realizzare un'operazione di quella portata. Probabilmente siamo di fronte ad un gruppo potentissimo (condizione assoluta per poter mantenere la segretezza per un periodo di tempo così lungo) comprendente spezzoni autonomi, incontrollati, di più di un servizio segreto, che perseguivano un disegno comune e che, per tutti questi motivi, sono riusciti a rendere praticamente impotenti tutti i più importanti servizi segreti dell'Occidente. Là si doveva cercare e non si è cercato. Perché non si poteva andare a cercare proprio là dove si sarebbe dovuto. Nei grandi centri del potere finanziario internazionale, che hanno trascinato per i capelli il pianeta verso la catastrofe nell'ultimo quindicennio dissennato. Ipotesi mostruosa? Solo un'ingenuità imperdonabile può escluderla" (21).

3) Sono da ricordare a questo punto alcune stranezze, o comunque notizie (che a memoria futura e in ordine sparso riportiamo tutte, anche quelle meno significative), emerse dalle prime indagini sugli attentati: le scatole nere prive (in tutti i casi?) della registrazione delle voci; i nomi falsi di alcuni passeggeri, scoperti vivi e vegeti in vari angoli del mondo; la mancata descrizione dei terroristi da parte dei passeggeri che erano riusciti a telefonare ai loro cari (se fossero stati arabi, non sarebbero stati immediatamente e spontaneamente additati come tali, soprattutto dalla giornalista Barbara Olson?); le liste di passeggeri diverse, quella dell'FBI con i 15 nomi arabi, e quella delle compagnie senza; il fatto che nessun pilota abbia attivato l'allarme per avvertire del dirottamento, secondo una prassi allo stesso tempo nota (e in questo senso usuale) e di facile attuazione; la notizia secondo cui la gran parte dei terroristi non sarebbero stati messi al corrente dell'obbiettivo finale, e sarebbero invece stati convinti di partecipare ad un "normale" dirottamento aereo; l'ipotesi avanzata, sulla base della lista dei passeggeri e dei piloti fornita dalle compagnie aeree, dal quotidiano iraniano Kaihan: e cioè che non ci sarebbe stato alcun dirottamento, e che sarebbero stati i piloti stessi a indirizzare i velivoli sugli obbiettivi, piloti americani (22) i cui nomi avrebbero risposto a Charles Burlingame (ex veterano del Vietnam, volo 77, Pentagono), Jason Dahl (fratello di un caduto in Vietnam, volo 493, Pennsylvania), Joe Onotawski (ex veterano del Vietnam, volo 11, prima torre),Victor Saracini (ex veterano del Vietnam, volo 75, seconda torre).

E ancora, le collimanti dichiarazioni rese secondo il sito Larouche dal generale "Eiten Ben Eliahu, ex comandante dell'aviazione israeliana" il quale "si è detto convinto che i piloti erano americani e non stranieri"; la notizia che 4000 impiegati ebrei sarebbero stati invitati dal Servizio di Sicurezza israeliano (Shin Beth), proprio il giorno dell'attentato, a non recarsi al lavoro nel World Trade Center, il che spiegherebbe peraltro la netta differenza fra la cifra presunta delle vittime subito dopo l'attentato (20-25.000 persone), e quella più tardi attestata (fra le 3-4000 e le 6000 circa)(23); il fatto che nessuno, almeno per negare alla radice la notizia appena riportata (mai smentita da alcuna autorità ufficiale USA, ma solo da giornalisti solitamente "ben" orientati, che hanno immediatamente parlato di presunte "leggende metropolitane"), abbia mai pensato di fare la cosa più semplice per un'indagine sulla strage, e cioè un appello dei sopravvissuti da costruirsi attraverso gli organigramma delle ditte presenti delle Twin Towers; il dato di fatto che il grande-affittuario delle due Torri distrutte Larry Silverstein - un ricco finanziere ebreo, frequentatore di Rabin, Nethanyau e Barak e presidente dell'American Jewish Congress - aveva siglato il contratto d'affitto nell'aprile scorso (un contratto che perdeva validità proprio in caso di attacco terroristico) e che, grazie a questa clausola e alla parallela e separata assicurazione di rito, avrebbe guadagnato dall'abbattimento dei due grattacieli all'incirca 1,3 miliardi di dollari (24); le dichiarazioni dell'esperto di terrorismo russo ed ex presidente della Sottocommissione sulle attività dei servizi d'intelligence del Soviet Supremo tra il 1991 ed il 1993 Andrei Kosyakov, citato dall'agenzia filogovernativa russa Strana.ru, del 14 settembre scorso, per le quali "sei mesi fa i servizi israeliani effettuarono un'esercitazione che prevedeva l'impiego di oggetti aerei nell'esecuzione di azioni terroristiche"; la notizia diffusa dalla "Fox News Channels" per la quale "tra i sospetti arrestati dopo le stragi (ci sono) anche alcuni personaggi legati all'intelligence militare di Tel Aviv" (25), una cinquantina in tutto, fra cui tali Paul Kurtzberg, Oded Ellner, Omer Marmari, Sivan Kurzberg e Yaron Shmuel, cittadini israeliani colti dall'Fbi mentre osservavano al di là del fiume Hudson le Torri in fiamme …

Si potrebbe continuare. Ma vale la pena a questo punto riportare un altro commento di Larouche, in occasione di una riunione con alcuni deputati e politici italiani - i senatori Orlando e Folloni; l'on. Evangelisti, già deputato del parlamento, l'on. Tullio Grimaldi, l'on. Brunetti, l'avv. Rita Bruno, Antonio Loche - a metà ottobre scorso: " … Ciò che sappiamo, nei fatti, è che certi aspetti tecnici degli attacchi verificatisi l'11 settembre non potevano essere organizzati dal di fuori degli Stati Uniti. è un fenomeno che corrisponde in tutto e per tutto ad un colpo di stato militare. Chiunque abbia esperienza in questo settore lo riconosce subito all'analisi dei fatti … chi complotta deve essere sicuro che i sistemi di sicurezza vengano effettivamente disattivati, o del tutto smantellati. Si tratta di competenze che non riguardano tanto le strutture di polizia, quanto i servizi segreti civili e militari … Allora, quello che hanno fatto è questo: hanno appiccato il fuoco agli edifici di Lower Manhattan e al Pentagono, ammazzando della gente. C'era forse più d'una decina di migliaia di persone in quegli edifici e hanno fatto circa 6000 vittime. Hanno mirato al Pentagono e se avessero colpito qualche metro più in alto avrebbero eliminato lo Stato Maggiore al completo. Tutti i sistemi di sicurezza che avrebbero potuto impedire una cosa del genere erano stati disattivati. Sono state eseguite manovre di notevole complessità. Nessun governo arabo e nessuna organizzazione terroristica araba dispone dei mezzi per fare una cosa del genere. Poteva essere fatto soltanto dall'interno della struttura di comando degli Stati Uniti.

Sicuramente possono esservi stati dei complici stranieri, ma questo non è certo l'aspetto più significativo … Sappiamo inoltre qual era lo scopo dell'attacco: spingere gli Stati Uniti in una guerra da scontro di civiltà. Allora noi sappiamo anche chi persegue questa politica. Essa è coltivata in tre roccaforti: il comando militare di Israele, il governo Blair in Inghilterra, diversi ambienti finanziari statunitensi che fanno capo a Henry Kissinger, Zbignew Brzezinski e altri ancora. E' un punto di vista condiviso da gente nel governo USA. Da Wolfowitz, viceministro della Difesa. Da Armitage, il numero due al Dipartimento di Stato. Gente di questo genere. Ashcroft ovviamente fa parte del gruppo. Ciò vuol dire che sono stati loro a farlo? Non necessariamente. Un colpo di stato prende corpo come un accordo generale tra certa gente su una certa politica. Poi ci sono di quelli che dicono "ci pensiamo noi" (26)

Il previsto discorso di Colin Powell dell'11 settembre all'ONU.

La dichiarazione appena riferita non contiene solo o tanto dei "fatti", ma anche una loro interpretazione, che proprio perché tale, come tutte le interpretazioni, è discutibile: certo è però che, man mano che settimana dopo settimana il casus belli dell'11 settembre resta incredibilmente inindagato, che le menzogne della propaganda occidentale emergono con più certezza (vedi la sequela dei video di Bin Laden), che la "guerra infinita" si ingarbuglia ed espande a macchia d'olio fino a vanificare ogni spiegazione monocausale-strutturale di quanto accaduto, e che le libertà civili vengono colpite negli USA e in tutto l'Occidente da un'ondata illiberale senza precedenti di "maccartismo antislamico" (27) , il sano dubbio che ci sia qualcosa di vero nel teorema del "colpo di stato", o più in generale nelle tesi di Chiesa (o di Larouche), si fa sempre più forte.

Del resto, almeno un altro paio di considerazioni le rafforzano: la prima riguarda la già ricordata coincidenza fra il giorno prescelto per gli attentati e la data del previsto discorso di Colin Powell alle Nazioni Unite, nel corso del quale il segretario di stato USA avrebbe dovuto annunciare lo storico "sì" di Washington allo Stato palestinese. La seconda, la storia complessa delle relazioni fra USA e Israele, e più in particolare la nota dialettica fra americani "nazionali" e ebrei-americani sia nell'establishment, sia in particolare nei servizi segreti e nell'apparato militare nordamericani: il caso Pollard, la super spia infiltrata nel Pentagono, e accusata nel 1994 di aver passato importanti segreti militari ad Israele, è il segnale dell'ambiguità di fatto delle relazioni fra Israele e Stati Uniti, e della "doppia fedeltà" che spesso caratterizza gli ebrei americani. Una "doppia fedeltà" così dirompente da essere temuta dalla controparte: nel 1996 un dossier del Pentagono "metteva in guardia i contraenti contro i tentativi dello spionaggio israeliano di acquisire informazioni in riservate utilizzando i 'legami etnici', cioè gli ebrei che vivono in America" (28). Segnali importanti che inducono a ritenere che lo scenario delle connivenze interne dei terroristi dell'11 settembre, se non addirittura della "cupola" dei mandanti, possa ben passare anche attraverso questa cruciale dialettica che ha sempre caratterizzato la storia degli Stati Uniti, e che ancora oggi - nel conflitto palese fra il "falco" Rumsfeld, teorizzatore dell'attacco all'Irak, e la "colomba" "filoaraba" Colin Powell - continua a vivere e ad affiorare nelle cronache post-attentati.

Conclusioni. Il rischio di un "pacifismo a rate".

Abbiamo citato solo, in ordine sparso, alcuni tasselli da prendere in considerazione per capire qualcosa delle orribili stragi dell'11 settembre. Come abbiamo già detto, nulla per quel che riguarda questo terzo linkage fra "guerra al terrorismo" e questione israelo-palestinese, è sicuro: ma a parte che di tutte le "'piste" immaginabili per gli attacchi alle Torri gemelle e al Pentagono, quella che conduce a settori deviati dei servizi segreti israeliani e americani (con o senza il supporto di Bin Laden, che peraltro non controlla tutta la frammentata galassia del terrorismo islamico) è sicuramente la più interessante e tutto sommato, la più credibile, resta comunque forte e consistente il collegamento fra i due scacchieri di crisi per quel che riguarda i primi due aspetti da noi considerati: la presenza di fatto di entrambe le crisi in tutto il concerto diplomatico-militare internazionale post-11 settembre; e soprattutto, il sostegno del sionismo e di Israele all'estremismo islamico quale accertato in Bosnia, Cecenia e Kossovo.

Del resto questo linkage è ben comprensibile. Poniamoci dal punto di vista degli interessi di Israele, e seguiamo a grandi linee la sua strategia postbipolare sui due fronti classici che la caratterizzano da sempre: il binario arabo-palestinese, e quello americano (29). Nel 1991, la guerra contro l'Irak, voluta da un Congresso dominato dalla lobby filoisraeliana contro le debolissime resistenze di Bush senior, del suo ministro degli esteri Baker - e contro i tentativi europei di aggrapparsi al linkage proposto da Saddam Hussein dopo l'invasione del Kuwait, fra ritiro iracheno e ritiro israeliano (30) - era stata bloccata "a metà" dal no del presidente americano alla marcia del generale Schwarzkopf su Bagdad. Gli accordi di Olso nascevano pur nel "positivo" (per Israele) quadro postbellico, con questo "difetto" (sempre per Israele). E infatti, tutta la politica di Tel Aviv negli anni successivi è consistita nel tentativo costante di indurre gli Stati Uniti a colpire nuovamente l'Irak e a far fuori Saddam o con un colpo di mano interno, e/o con l'embargo e una estenuante guerra di logoramento. Come ho già cercato di dimostrare in un articolo per Giano, il "caso Lewinsky" può essere letto in questo quadro di ricatti e pressioni che il "piccolo" Israele ("piccolo" e "pedina" solo per certe pseudoanalisi dell' "imperialismo" diffuse anche nella sinistra estrema italiana) è stato comunque in grado di esercitare nei confronti della superpotenza americana, facendo leva proprio sulla ampia e potente comunità ebraica statunitense (31) . Scontro con l'amministrazione USA, scontro dentro l'Amministrazione Usa, scontro dentro il sionismo, fra una tendenza "moderata" che spingeva verso il ritiro definitivo di Israele dai Territori occupati (Clinton e signora), e una tendenza oltranzista, che era stata capace di dire no niente meno che alla Trilaterale (32) e appunto di provocare il rischio di impeachment per il presidente USA, con il quasi-plauso di Madeleine Albright.

Tanta forza e arroganza - resa ancora più baldanzosa dalla sostanziale vittoria nella guerra contro la Jugoslavia del '99 - è stata messa in crisi dalla nuova Intifada. Ripetiamo quel che abbiamo detto in precedenza: Sharon, la sua linea, le forze che lo sostenevano, erano allo sbando prima dell'11 settembre. Gli attentati hanno cambiato tutto (33). E gli attentati sono stati "usati" evidentemente da Israele - uno dei principali sostenitori dell'estremismo islamico, come abbiamo visto - per scatenare una repressione senza precedenti in Palestina, e per cercare di far fuori lo stesso Arafat. L'analisi dei fatti oggettivi, e dei comportamenti soggettivi dei protagonisti dello scontro internazionale in atto, dimostra insomma che Palestina e Irak sono teatri inscindibili dalla guerra contro l'Afghanistan e il "terrorismo islamico".

E' evidente a questo punto il rischio per il movimento per la pace: quello di imboccare la strada contorta di una sorta di "pacifismo a rate", inconcludente e perdente: ieri l'Afghanistan - tenuto ben scisso, contro l'evidenza dei fatti qui di seguito elencati, dall'Intifada "al aqsa" - oggi "un po'" di Palestina (almeno così sembra), domani magari l'India-Pakistan o la Somalia o l'Irak. Nelle iniziative di movimento, nelle analisi, occorrerebbe invece cercare di saldare i diversi scacchieri e livelli in un quadro il più possibile coerente ed unitario.

Claudio Moffa

NOTE

(1) “The U.S. government placed the Somali group al-Itihaad al-Islamiya on a list of "terrorist" organizations after the September 11 attacks, and closed down Somali money transfer company Barakaat because of alleged links to Bin Laden” (This Day, quotidiano nigeriano, 6 dicembre 2001).
(2) 21 dollari a barile per il Brent (il petrolio del Mare del Nord): Repubblica, 26 settembre 2001.
(3) Repubblica del 29 marzo 2000, ad esempio, registrava “una spaccatura nei Paesi occidentali tra addetti al mercato e governi. Così, mentre i broker restano scettici e attendono reazioni anche dai paesi produttori che non fanno parte dell'Opec, il presidente americano Bill Clinton si è felicitato perché ci saranno "sviluppi positivi" e un ribasso dei pezzi dei prodotti petroliferi e la crescita economica potrà continuare”.
(4) Leonardo Maisano, Il Sole 24 ore, 29 novembre 2001: “Una delle conseguenze considerate possibili, se non addirittura probabili, della tragedia di New York e di quanto ne è seguito è che gli Usa avviino un progressivo, limitato disimpegno energetico dal Golfo. Gli occhi sono puntati sul grande potenziale del Caspio e dell'Asia centrale e sulla Russia, alla luce della nuova intesa fra Mosca e Washington. Comincia il lento declino di quella relazione speciale, che nel petrolio ha le sue radici, fra Stati Uniti e Arabia Saudita?”
(5) Repubblica, 27 novembre 2001: “ Improvvisa fiammata del petrolio, con il future del Brent a 18,96 dollari al barile dopo che l'Iraq non sembra intenzionato ad aderire alla richiesta Usa di accettare una nuova ispezione dell'Onu di controllo sugli armamenti di Saddam Hussein”.
(6) Cfr. Il manifesto, 27 dicembre 2001, p. 4: “L'India cliente n. 1 di Israele”.
(7) Come da sito Internet del BJP, e da quotidiano israeliano Haaretz citato da Il manifesto di cui alla nota precedente: “Dietro la crescente amicizia tra India e Israele, che hanno stabilito relazioni diplomatiche nel 1991, sta il sentimento di un destino comune, di fronte alla crescente minaccia islamica”.
(8) “Sovrastrutturale” almeno secondo certa lettura dogmatica di Marx: perché il sostegno dei Soros, Berezovsky, etc a Israele, fa capire che la politica sionista gode di un immediato retroterra economico-materiale, sia pure nella forma – secondo la scolastica “marxista” – di capitale finanziario non-produttivo.
(9) “E' interessante notare la risposta degli israeliani a un'altra domanda del sondaggio sugli effetti della nuova crisi regionale. Il 55% sono ottimisti e ritengono che la guerra dichiarata da Bush contro il terrorismo possa portare ad una pace duratura in Medio Oriente” (Il Messaggero, 18 settembre 2001, p. 6).
(10) Olga Bisera, “Adesso l'Occidente può capire Israele”, intervista a Avi Pazner, Il Tempo, 13 settembre 2001, imperniata sull'utile (per Israele) comparazione fra i kamikaze delle Torri Gemelli, e quelli – “artigianali” – palestinesi.
(11) Liberazione, “Lettera firmata”, 18 ottobre 2001. Credo di non violare nessun segreto, nell'affermare di aver saputo da autorevolissima fonte del quotidiano che si tratta di una lettera di un diplomatico in Italia di una grande superpotenza occidentale.
(12) L'Ernesto, n. 5, 2001.
(13) Sito Internet di Larouche: www.solidaritaet.com/movisol/
(14) Stefano Chiarini, “Una scuola Cia-Mossad in Marocco per gli afghani”, il manifesto 23 settembre 2001. Si tratta di una “ipotesi” avanzata in un'intervista pubblicata dal Daily Star da Anis Naccache, un ex collaboratore di Carlos – un altro terrorista sui generis, che in tutta la sua attività non ha mai colpito direttamente Israele – “accreditata però dall'autorità e dall'esperienza di Naccache nel mondo oscuro e complesso della "guerra sporca" in Medioriente”. Naccache, arrestato nel 1980 a Parigi per l'attentato all'ex premier iraniano Shahpour Bakhtiar, sarebbe stato una sorta di infiltrato di Fatah e del suo leader Abu Jihad nel gruppo di Carlos con il compito di evitare, se possibile, atti irreparabili nei confronti dei sauditi e degli americani, e in questo quadro avrebbe anche salvato la vita all'ambasciatore americano a Beirut George Godley, e ad un addetto militare francese”.
(15) Corriere della Sera del 29 luglio 1993, a proposito delle bombe di Milano e Roma di quell'anno: “Bologna. Le esplosioni di Milano e Roma sono state rivendicate con una telefonata alla sede di Bologna dell'agenzia Ansa … Tra le tante rivendicazioni degli attentati ve ne è una partita dal telefonino di un israeliano che attribuiva le esplosioni al fondamentalismo islamico. Lo ha rivelato, intervenendo alla Camera, il ministro dell'interno Mancino, sottolineando che “grazie ad una intercettazione si è potuto accertare che la rivendicazione islamica proveniva da un cellulare dui proprietà di un cittadino israeliano”.. Quanto alle affermazioni del procuratore Pierluigi Vigna, vedi Il Messaggero, 25 maggio 1995, p. 5, “Una lobby finanziaria dietro le bombe del '93”
(16) Janiki Cingoli: “…Quale musulmano penserebbe di trovare rifugio tra gli ebrei, trovandosi in difficoltà? Eppure, è proprio ciò che è successo in questi giorni. Cento profughi musulmani provenienti dalla Bosnia Erzegovina, saranno infatti accolti in Israele. Una notizia che può sembrare strana, ma che invece è l'espressione di un intenso lavoro diplomatico del governo israeliano, durato mesi, e che si è sviluppato in sordina, mentre era ancora aperta la crisi degli espulsi …. Il significato del gesto israeliano è chiaro: è un'apertura verso il mondo arabo e musulmano …. Ed è un sommovimento profondo, che può avere conseguenze, oggi ancora non percepibili in tutta la loro dimensione, e che può provocare cambiamenti radicali e sconvolgenti in tutto l'assetto arabo e musulmano, a cominciare dalla stessa stabilità dei regimi oggi esistenti”. L'articolo di Cingoli, per diversi riferimenti, che appare fondato su fonti diplomatiche introdotte nei retroscena della crisi, risulta anticipare effettivamente gli scenari degli anni a venire. Quanto a Nava, scriveva: “Nello stesso giorno del massacro di Hebron (la strage di palestinesi in preghiera nella moschea, ndr), un aereo delle linee ungheresi portava in Israele la speranza che l'umanità possa sopravvivere all'odio, alla guerra, al fanatismo omicida … C'è il giornalista ebreo della televisione di Serajevo … e c'è l'ingegnere serbo con la moglie musulmana … Israele li accoglie senza distinzioni, allargando an che a questi musulmani la legge della diaspora che garantisce a tutti gli ebrei che ritornano”.
(17) Corriere della Sera, 15 luglio 1999.
(18) Così Andrea Catone in un breve saggio su L'Ernesto n. 4, 2001. Ma cfr. ad es. Elena Comelli “Globalizzazione a marcia indietro”, CorrierEconomia, 24 settembre 2001, p. 6: “La guerra succhia le energie e la ricchezza delle nazioni, danneggia il flusso dei commerci e dei capitali. L'aspettativa di rianimare l'economia americana partendo dal boom delle spese militari ha un respiro limitato”.
(19) Beve anche la 'certa' attribuzione degli attentati di Nairobi e Dar Es Salaam al solito Bin Laden. Eppure un autorevole commentatore come Arrigo Levi aveva dubitato di questa verità, in polemica con Furio Colombo (cfr. C. Moffa, “ 'Terrorismo islamico': le utili certezze di Clinton”, in Il calendario del Popolo, 624, ottobre 1998, in particolare p. 56).
(20) G. Chiesa, “Cerchiamo la cupola non la rete islamica”, ne La guerra del terrore, I Quaderni speciali di Limes, pp. 87-92.
(21) Giulietto Chiesa, Avvenimenti, 30 novembre 2001, p. 7
(22) Secondo il sito Internet di Larouche, anche il
(23) La fonte è ancora il quotidiano iraniano Kaihan, che cita fonti diplomatiche arabe negli USA. Ma è stata ripresa anche dalla NBC, e in Italia pubblicata – senza alcun commento – da diversi quotidiani fra cui Il tempo, il manifesto, Liberazione.
(24) Marco Magrini, “Il sogno infranto di due Torri gemelle”, il Sole 24 ore, 16 settembre 2001. L'articolo è venato di sottile ironia: Sommario: “Mr. Silverstein, ebreo e amico di Tel Aviv, aveva preso in affitto il W.T.C solo quattro mesi fa. Per sua fortuna aveva un paracadute”. Una scheda con le cifre degli affari del finanziere, ha come titolo “New York, New York”.
(25) L'Avvenire del 16 dicembre 2001: “”Spionaggio negli Stati Uniti, Israele sotto osservazione”. Secondo la TV americana, "gli inquirenti sospettano non che gli israeliani siano coinvolti nell'attentato dell'11 settembre, ma che abbiano raccolto informazioni in anticipo sull'imminente attentato, e non le abbiano comunicate (agli Usa)”; “le indagini sono risalite a strane attività di cittadini d'Israele: studenti della Università di Gerusalemme o della Accademia Bezazel (ebraica) che hanno cercato ripetuti contatti con personale del governo Usa, fino a "decine" di israeliani che avevano aperto negozietti di giocattoli in grandi magazzini americani. Parecchi di questi piccoli commercianti sono attualmente detenuti in base alla legge antiterrorismo varata dopo l'attacco alle Twin Towers”.
(26) Solidarietà, anno IX n. 4, dicembre 2001. Il sito riporta anche quanto scritto da Le monde e da Le Figaro a proposito di un rapporto della lettera di informazioni Reseau Voltaire del 27 settembre (n. 235-236), per la quale Osama Bin laden non sarebbe stato il mandante unico degli attacchi dell'11 settembre, ed anzi questi farebbero parte, di nuovo, di “un tentativo di colpo di stato gestito da ambienti militari estremistici negli USA” ordito da “circoli estremisti americani”: “dalle 10 del mattino fino a quasi le 8 di sera (dell'11 settembre) gli esponenti del governo USA non pensavano che si trattasse dell'opera di terroristi arabi, ma che si trattasse di una manifestazione di un colpo di stato militare condotto da estremisti con base negli USA, che erano capaci di provocare una guerra nucleare”.
(27) Cfr. “Il fermo di polizia scuote l'Inghilterra”, La stampa 12 novembre 2001; “ 'Le libertà civili valgono più della lotta al terrorismo': appassionato discorso della figlia di Bob Kennedy”, La Stampa 22 novembre 2001; “Caccia allo straniero”, il manifesto, 22 novembre 2001; “Vidal: 'I veleni dell'America' “, il manifesto 22 novembre;“Ministro sott'accusa: 'Ashcroft è un mullah”, Corriere della Sera, 25 novembre 2001; “In America il giornalismo si scopre 'voce di stato' “, l'Avvenire 25 novembre 2001.
(28) La Repubblica, 1 febbraio 1996, p. 13. Fra l'altro, anche il rapporto della National Security Agency del 24 settembre, nella misura in cui attribuisce agli Stati islamici o arabi “radicali” la volontà “di scindere sul piano politico l'antiamericanismo dall'antisionismo, per interessi di sicurezza interna a brve termine”, evidenzia la consistenza di questa dialettica (il rapporto è citato estesamente dal Corriere della sera del 25 settembre).
(29) Famosa è la citazione dell'ex capo del servizio di sicurezza del Dipartimento della Giustizia, John Dwight: “Gli israeliani passano la metà del tempo a occuparsi degli arabi, e l'altra metà degli Stati Uniti” (la Repubblica, 1 febbraio 1996, p. 13)
(30) C. Moffa, “Da un Bush all'altro”, La Stampa 18 settembre 2001.
(31) Claudio Moffa, “Dietro Clinton la lobby sionista”, Giano, n. 28, gennaio-aprile 1998, pp. 69-82
. (32) Rinvio di nuovo al mio articolo su Giano, n. 28 di cui alla nota precedente.
(33) Sotto accusa rischia di essere la stessa Intifada, vista la genericità del termine “terrorismo” della risoluzione dell'ONU del 30 settembre.

Ritorna alla prima pagina