Svolta e progetto

In risposta a Roberto Gabriele sui compiti dei comunisti oggi

di Moreno Pasquinelli

L’editoriale di Roberto Gabriele “Dalla testimonianza al progetto. Ci sono le condizioni per una svolta?”, pubblicato nel numero di luglio di AGINFORM, mi sollecita ad alcune riflessioni, nella speranza che esse, per quanto parziali, ci aiutino non solo ad identificare certi dirimenti nodi teorico-politici ma poi a sciolglierli; solo dopo, sciolti quei nodi, potremo intrecciare i fili di una efficace prassi rivoluzionaria e quindi effettuare l’auspicata svolta.

Che da ben prima del 1989 i comunisti, certamente in Occidente, sono precipitati in un ruolo di pura “testimonianza”, questo è sotto gli occhi di tutti. Che sia ormai indifferibile il compito di passare "dalla analisi al progetto" (ammesso noi si abbia un’analisi adeguata del capitalismo contemporaneo) pure.

D’accordo dunque, e davvero, sugli intenti di Roberto, tuttavia il suo intervento non ci consegna se non pochi e parziali pezzi di risposta. La situazione è identica da molti anni in qua: i comunisti più arguti indicano alcuni dei dirimenti problemi contro i quali il movimento comunista tutto è andato a sbattere, ma dalle soluzioni si tengono ancora molto lontani.

Roberto ad un certo punto, implicitamente ritenendo, per l’oggi almeno, superata la classica forma leninista di Partito (colla sua connessa geometria triangolare: avanguardia comunista - lasse operaia come forza motrice rivoluzionaria - alleanza anticapitalista aperta a tutti gli strati sociali oppressi), afferma la necessità di «… costruire un movimento che metta in discussione dalle radici il militarismo, la subalterneità agli americani, la centralizzazione di un’economia legata ai poteri economici forti di questa Europa».

Bene. Siamo d’accordo sulla sostanza. È infatti su queste basi che alcuni di noi sono impegnati nella costruzione di Legittima Difesa, un movimento politico che nelle nostre intenzioni, date le condizioni storiche, non vuole essere un partito ma un fronte sui generis, ovvero un soggetto politico che includa, oltre ai comunisti, tutte quelle soggettività e correnti che, per concezione del mondo e ideali, rifiutino il capitalismo realmente esistente e con esso l’imperialismo americano, il suo porsi, a suon di aggressioni e guerre, come sentinella dell’ordine monopolare, ovvero la sua tendenza a consolidarsi come impero unico mondiale.

Diciamo un fronte sui generis ad indicare la cesura con le vecchie concezioni comuniste, essenzialmente quella trotskysta e quella staliniana. Il trotskysmo limitando il perimetro del fronte ai soli “partiti operai”, lo stalinismo anche a quelli borghesi progressisti o antifascisti. Accomunava entrambi sia l’idea che il fronte fosse solo un passaggio tattico, sia il principio per cui la guida dovesse spettare (altrimenti niente fronte), ai comunisti (in quanto i soli e legittimi rappresentanti della classe operaia, identificata come costitutivamente rivoluzionaria) e per questo la condizione doveva essere la loro completa indipendenza da tutti gli altri alleati, fossero essi socialdemocratici o semplicemente antifascisti, contro i quali, nel perimetro del fronte, la lotta ideologica per la supremazia sarebbe continuata ininterrotta.

Questa architettura politica, oggigiorno evidentemente impraticabile, era la logica conseguenza di tutto l’impianto concettuale e teorico dei comunisti di tutte le risme.

Qual’era in estrema sintesi quest’impianto? 1. Il capitalismo, ad un certo punto, avrebbe cessato di crescere e di sviluppare le forze produttive, determinando l’ingresso in una fase di sconvolgimenti rivoluzionari; 1bis. la prima guerra mondiale con la rivoluzione russa erano il segno che si era entrati irreversibilmente in quella fase, lapidariamente definita come quella dell’agonia mortale o del declino del capitalismo oramai “parassitario e putrescente”; 2. Il socialismo avrebbe necessariamente rimpiazzato il capitalismo in quanto esso era il portato dello stesso sviluppo delle forze produttive; 2bis. La funzione dei comunisti era assimilabile dunque a quella della levatrice, dato che il periodo di incubazione era maturo: permettere al socialismo, già formato nel grembo del capitalismo, di venir alla luce; 2ter. Il distacco storico ci permette quindi di relativizzare quella che sembrava la distanza abissale tra bolscevichi e socialdemocratici: per i primi la levatrice era il partito alla testa della rivoluzione, per i secondi un partito che avesse conquistato la maggioranza elettorale e dunque le istituzioni parlamentari borghesi. 3. Per i bolscevichi la rivoluzione doveva portare alla dittatura del proletariato, la quale non solo doveva eliminare le basi sociali del capitalismo ma pure le sue sovrastrutture ideologiche, quindi gli stessi partiti coi quali ci si era alleati fino alla rivoluzione, siano essi stati “borghesi”, “piccolo-borghesi” o “operaio-borghesi”.

Non meniamo il cane per l’aia. Si ritiene che questo impianto concettuale (sommariamente ricapitolato, dato che a questi punti se ne aggiungono altri che qui, per economia di discorso, omettiamo) sia valido o si sia dimostrato fallace? Chi ritiene che sia ancora valido può trastullarsi con l’ideale del comunismo e magari sopravvivere come setta esoterica un altro centennio. Chi invece ritiene che questi assiomi siano stati smentiti dal corso storico ha allora il dovere di indicarne altri. Occorre partire col piede giusto. A me pare che il primo passo sia questo: che dobbiamo sbarazzarci di ogni concezione storicistica e provvidenzialistica, dell’illusione che la dialettica sociale proceda deterministicamente e meccanicamente dalla causa all’effetto, in base ad una catena evolutiva necessaria e unilineare. Lo sviluppo non è solo ineguale, è anche scombinato, così che una teoria rivoluzionaria non è il riflesso razionale che rende trasparente una realtà sostanzialmente ordinata: siamo davanti ad un caos entro il quale agiscono forze le più disparate e la politica serve a dare un ordine al disordine, un senso alla storia.

E’ certo un compito arduo, di lungo periodo, che va tuttavia intrapreso senza indugi e da cui dipende, questo è il punto, se sapremo passare “dalla testimonianza al progetto”. Ovvero: le “condizioni della svolta” che Roberto auspica dipendono dalla capacità dei comunisti di riformulare una teoria del capitalismo e della transizione al socialismo.

Rileggendo un testo scritto da Roberto nel non lontano 1994 dal titolo “Alcuni interrogativi per una discussione sul 1989”, siamo tenuti a credere che, almeno nella sostanza, egli sia d’accordo con noi. Citiamo: «Le ingiustizie, i crimini e le contraddizioni del sistema capitalistico rimangono inalterati. Adesso bisogna trovare la chiave rivoluzionaria reinterpretando le contraddizioni della nostra epoca e rimettendo a punto una teoria della rivoluzione sociale legata al carattere di queste contraddizioni».

Il primo compito che i comunisti hanno da affrontare in questo momento è dunque di carattere teorico. Se avessimo un partito ce la potremmo cavare indicando una Commissione ad hoc composta dai nostri migliori cervelli affinché produca quello che potremmo chiamare un Nuovo Manifesto dei comunisti. Abbiamo almeno alcuni cervelli? Se sì occorre spingerli a mettersi all’opera e se necessario “chiuderli in convento”, almeno fino a quando non ci consegneranno un canovaccio di questo Nuovo Manifesto comunista.



Nel mentre ci si attrezza alla rifondazione di una teoria rivoluzionaria è chiaro che non si può stare fermi nella prassi politica. Ciò che assieme stiamo facendo per la Resistenza irachena è prezioso, un buon viatico per domani, ma non basta. Non possiamo limitarci ad un’attività di appoggio alle Resistenze altrove. Occorre animare una Resistenza qui e ora, piantarla nel cuore dell’Occidente imperialista.

Per questo mi riaggancio alla prima parte del mio intervento, riguardo alla questione del Fronte.

Noi tendiamo a concepire il fronte non come una maledizione tattica, un mero strumento per strappare l’egemonia per far fuori gli alleati alla prima occasione propizia, ma come una necessità strategica imposta non tanto e solo dalla debolezza dei comunisti, quanto dalla concreta struttura sociale del capitalismo contemporaneo. Una struttura che non ci ha per niente consegnato, almeno qui da noi, una società polarizzata in due classi principali, segnata sia dalla pauperizzazione del proletariato che dalla scomparsa dei ceti medi ma, al contrario, da un colossale meticciato sociale, contraddistinto da un generale e prima sconosciuto benessere materiale nella forma di un consumismo di massa, dal declino dell’industria (e quindi dalla crescente riduzione del numero e del peso della classe operaia), dall’aumento del ceto medio o piccola-borghesia (conseguenza della proliferazione del terziario e di attività economiche legate alla distribuzione delle merci e di servizi alle imprese). Potremmo aggiungere a questi tre fattori la crescita abnorme, a causa del welfare state, dei settori amministrativi e burocratici e quindi impiegatizi; infine di una massa parassitaria di funzionari politici legati alla struttura parlamentare delle istituzioni imperialiste, ovvero della crescita abnorme di strati sociali legati a vario titolo ma a doppio filo con lo Stato imperialista.

Questo meticciato sociale - derivato dal concreto sviluppo delle moderne società imperialiste - non ha solo creato una profonda promiscuità interclassista e abbattuto le barriere che dividevano precedentemente le classi e le comunità politiche nelle quali esse si rappresentavano; ha sradicato le fondamenta sociali sulle quali un tempo si poteva pensare alla classe operaia industriale come avanguardia del gramsciano blocco anticapitalista - e quindi scippato ai comunisti la leva sulla quale pensavano di organizzare la rivoluzione e successivamente di edificare un regime di dittatura proletaria.

C’è di più: piaccia o meno, il “ceto medio” è oggigiorno largamente maggioritario, è esso che sforna le avanguardie politiche (in senso lato: coloro che si occupano di politica mentre la massa è passiva se non ostile alla politica); quanto accade al suo interno è infine il fattore primario che decide della stabilità politica del sistema o al contrario della sua crisi.

Noi facciamo di solito spallucce davanti ai discorsi dei politicanti per cui “tutto si decide al centro”, tuttavia, per quanto triste, le cose stanno, più o meno, proprio in questo modo.

Questo per dire che se davvero vogliamo costruire un nuovo movimento politico popolare, democratico e rivoluzionario, dobbiamo liberarci dall’idea a cui per decenni siamo stati affezionati, che l’accumulazione primitiva delle sue forze avverrà anzitutto tra gli strati più umili e marginali della società. Siamo dell’opinione che questa accumulazione di forze avverrà invece proprio in mezzo al “ceto medio” e, nonostante questo possa scandalizzare i dogmatici, per i comunisti si tratta proprio di attuare uno “sfondamento strategico” nel “ceto medio” ove, per “sfondamento strategico” non intendiamo una velleitaria conquista di un seguito di massa ai danni dei due poli capitalistici, ma strappare loro le “coscienze infelici”, tutti coloro che non hanno portato all’ammasso la speranza di un mondo che, per quanto non potrà essere comunista (considerata questa solo una bella ma del tutto utopistica idea), sia comunque migliore di questo orrore nel quale viviamo oggi; una società basata sulla centralità del bene comune e non incardinato attorno all’individualismo egoistico (padre di tutti i capitalismi) e piegato al culto del mercato. Quindi, aggiungiamo noi, dei principi universalistici di libertà e fratellanza, fruibili solo se alla base avremo una reale eguaglianza sociale.

Non solo, un movimento del tipo di quello di cui parla Roberto è necessario in questo paese, ne esistono, per certi versi le condizioni socali, culturali, psicologiche. Grandi crepe si sono aperte infatti nel blocco sociale dominante (quello bipolare). In due direzioni. Mentre ampi strati proletari si sono semplicemente staccati dai partiti che li rappresentavano, alimentando correnti sociali qualunquistiche e antipolitiche (grave errore leggere questo distacco come fosse incipientemente rivoluzionario!) - correnti che prima o poi daranno vita ad un movimento populista radicale di massa - ; dall’altra da alcuni anni abbiamo assistito al sorgere, nel mezzo del “ceto medio” di una nuova ondata di politicizzazione, di cui il “movimento no global” è stato solo un aspetto, anche se il più radicale. D’altra parte l’avvento del berlusconismo (e la sua crisi irreversibile apre uno spazio di rappresentanza di grande ampiezza) ha mostrato segni di una radicalizzazione reazionaria di questo stesso “ceto medio”.

Insomma, siamo davanti ad una tendenza, quella alla divaricante polarizzazione politica del “ceto medio”, che apre uno spazio inedito ad una forza anticapitalista e antimperialista, affinché essa ottenga quella massa critica senza la quale è impensabile una “andata verso il popolo”, ovvero verso quel poliforme e promiscuo proletariato che oggi è in letargo ma che dovrà essere trasformato nella forza motrice di una rivoluzione sociale.

Ci serve dunque, qui e ora, un movimento politico che sappia essere soggetto politico e culturale, capace di trovare nuovi linguaggi e nuove/antiche forme di comunicazione adeguate ad una società “postmoderna” come la nostra, ma anche nuove modalità di prassi politica, una prassi che deve rivalutare la forza contagiosa dell’esempio, ove quindi un fattore cruciale è la qualità dei suoi militanti, della loro capacità di rendere visibile e rivelabile il mondo radicalmente diverso per cui si battono.

Moreno Pasquinelli


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