No global: siamo al capolinea

A giudicare dalle mancate mobilitazioni contro l’arrivo di Bush a Roma e dal fiasco di quelle in occasione del convegno FAO sull’agricoltura, sembrerebbe che il movimento no global sia arrivato al capolinea. In realtà a terminare il ciclo non è tanto il movimento in sè, quanto l’estrapolazione ideologica che giovani e meno giovani in cerca della terza via hanno tentato di appiccicarvi sopra. Scambiare il cosiddetto movimento no global per il movimento dei movimenti e paragonarlo al movimento operaio del XIX e XX secolo, non è stata solo un’operazione azzardata sul piano delle previsioni, ma anche una profonda operazione revisionista nel solco di quelle correnti anticomuniste che lavorano dalla rivoluzione d’ottobre in poi per demolire il ‘movimento reale’ che abolisce lo stato di cose presente.

Ma il movimento no global non è dunque un movimento reale? Certamente sì, ma si tratta di definire che tipo di movimento è. I fatti e non le diatribe ideologiche dimostrano che in questi due anni è andata crescendo una opposizione al metodo di gestione del governo unipolare del G8 che è fatta di tante cose, di ecologismo, di tendenze antiliberiste, di pacifismo, di cristianesimo di base, di correnti neoriformiste che si staccano dalla socialdemocrazia tradizionale, di anarchismo giovanile e infine di neotrotskismo in cerca di riciclaggio.

Tutto ciò non è certamente riconducibile ad un sommovimento strutturale che possa mettere in discussione lo stato di cose presente, perchè ne mancano i presupposti e la direzione strategica. I presupposti dovrebbero essere costituiti da una crisi del sistema politico, istituzionale ed economico che sia in grado di mettere in moto forze determinanti per il suo cambiamento. Inoltre occorrerebbe che in un contesto rivoluzionario esistesse una direzione strategica che indirizzasse lo scontro in una prospettiva di potere. Niente di tutto questo dunque. Ci rimangono solo i piagnistei degli improvvisati leaders dei no global e le botte prese da Agnoletto al ristorante del quartiere ebraico di Roma che hanno avuto come conseguenza l’apertura di un dialogo tra sinistra e sostenitori dello stato imperialista e razzista di Israele. Le sceneggiate sono dunque quelle a cui siamo abituati dal ’68 in poi dove movimenti di protesta, giovanili, libertari che si oppongono a scelte aberranti dell’imperialismo e del capitalismo vengono egemonizzati, per la loro caratteristica, da ideologie che riproducono discorsi strategici, questi sì, già superati dalla storia. E’ vero anche che la riproposizione di queste teorie è dovuta alle caratteristiche delle società occidentali e alla debole presa del pensiero comunista.

Dunque non siamo, come comunisti, contro i movimenti, ma contro i cattivi maestri che, peraltro, non hanno neppure la dignità dell’autocritica ma, spesso, spaventati dalle loro audace letterarie, passano dall’altra parte, come la lunga teoria del pentimento politico dimostra. Basti leggere l’ultima intervista di Adriano Sofri.

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