Intervista a Ilan Pappe

"La pulizia etnica continua e Israele vuol farvela accettare»

"i dirigenti israeliani concepiscono il proprio Stato in termini etnici, razziali e dunque sono razzisti a tutti gli effetti"

   

Emanuela Irace


Ilan Pappe è sbarcato in Italia senza troppi clamori. Ospite dello Iemasvo, nella sede dell'Isiao di Roma [vedi il programma qui], per una conferenza su Israele-Palestina. Titolo: «Una terra due Popoli». Dopo aver denunciato nei mesi scorsi l'impossibilità di lavorare serenamente in un ambiente ostile, quello dell'Università di Haifa, Pappe si è trasferito in Gran Bretagna, dove insegna presso l'Università di Exeter. Storico del dissenso, «revisionista». Nato nel '54 in Israele da genitori ebrei fuggiti dalla Germania negli anni '30, ha pubblicato una mezza dozzina di testi. Tra i più recenti «The ethnic cleansing of Palestine» (La pulizia etnica dela Palestina), non ancora tradotto in italiano. Al centro dell'analisi del grande storico, la politica sionista di deportazioni ed espulsioni coatte dei palestinesi durante e dopo la guerra del 1948, quando circa 400 villaggi vennero spopolati, cancellati e distrutti nei successivi cinque anni.

Professor Pappe, lei scrive di pulizia etnica come momento costitutivo, nel 1948, dello Stato d'Israele. In questo modo infrange il topos dell'esodo volontario dei Palestinesi.

Nel '47-48, i Palestinesi vennero espulsi, anche se la storiografia ufficiale parla di pressioni dei leader arabi che li avrebbero convinti a scappare. L'idea di trovare un rifugio per la comunità giudaica, perseguitata in Europa e annientata dal Nazismo, si scontrò con una popolazione autoctona che era in fase di ridefinizione. Un progetto coloniale che praticò l'epurazione etnica, affrontando in anticipo il problema demografico: l'esistenza di 600.000 ebrei contro un milione di palestinesi. Prima che gli arabi, nel febbraio del '48, decidessero di opporsi militarmente, gli israeliani avevano già sloggiato più di 300.000 autoctoni.

Come si concretizzò la pulizia etnica e perché tutti tacquero?

Avvenne nell'arco di otto mesi e solo nell'ottobre del '48 i palestinesi cominciarono davvero a difendersi. La riposta dei sionisti furono i massacri nella provincia di Galilea, la confisca delle case, dei conti bancari, della terra. Gli israeliani cancellarono un popolo e la sua cultura. Nessuno denunciò perché era da poco finita la Guerra. Le Nazioni Unite non potevano ammettere che una loro risoluzione (la 181 sulla partizione della Palestina, ndr) si concludesse con una pulizia etnica. La Croce Rossa era già stata accusata di non aver riportato con obiettività quel che succedeva nei campi di concentramento nazisti e i principali media non volevano scontrarsi con gli ebrei.

Sensi di colpa e «diplomazia», nell'azione dei Governi, con quali conseguenze?

Durante l'Olocausto i paesi che oggi condannano Israele, o erano conniventi o sono rimasti in silenzio. Per questi motivi la Comunità Internazionale ha abdicato al suo diritto di giudicarci. Le si addossa una colpa a cui non può più rimediare. Perdendo così, ancora oggi, il diritto di criticare il Governo di Israele. La conseguenza è che quando nacque lo Stato, nessuno gli rimproverò la pulizia etnica su cui si era fondato, un crimine contro l'umanità messo in pratica da chi la pianificò e attuò. Da quel momento, la pulizia etnica divenne un'ideologia, un paramento infrastrutturale dello Stato. Discorso tuttora valido, perché il primo obiettivo resta demografico: ottenere la maggior quantità di territorio col minor numero di arabi.

Con quali forme e mezzi continua la pulizia etnica?

Con sistemi più «puliti e presentabili». Da un mese il ministro della giustizia sta cercando di legittimare gli insediamenti illegali dei coloni lasciando intatti gli avamposti. Sappiamo che l'Alta Corte di Giustizia sta decidendo se autorizzare il Governo a ridurre le scorte di carburante, togliendo energia elettrica a Gaza, dove vivono un milione di Palestinesi che si troverebbero a non poter più bere acqua, perché la falda acquifera è inquinata dai liquami e solo con un sistema di depurazione a elettricità è possibile berla. Ma di esempi per annientare i palestinesi ce ne sono a dozzine, a cominciare dal muro, accettato da Usa e Ue.

Cosa chiede Israele agli alleati?

Che il proprio modello sia accettato come tale. Durante la Guerra del 1967, 300 mila palestinesi furono espulsi dalla Cisgiordania, in questi ultimi sette anni, la pulizia etnica è diventata «costruzione del muro» che respinge i palestinesi verso il deserto, al di fuori dell'area assegnata della Grande Gerusalemme. Il problema è che i dirigenti israeliani concepiscono il proprio Stato in termini etnici, razziali e dunque sono razzisti a tutti gli effetti. E questo è percepito dai palestinesi ed è il più grande ostacolo che si pone sulla via di una pace tra Palestina e Israele. Il cosiddetto «processo di pace» si riduce a quale parte della Palestina debba essere nuovamente annessa a Israele e quale eventualmente, piccolissima, possa essere data alla popolazione palestinese.

Cosa si può fare per invertire questo processo?

Anzitutto cambiare il nostro linguaggio. Non si tratta di uno scontro tra ebrei e palestinesi. È colonialismo. Ed è incredibile che nel XXI secolo possa ancora essere accettata una politica coloniale. Bisogna imporre a Israele le stesse misure impiegate contro lo Stato razzista del Sudafrica, negli anni '60 e '70. Oggi esistono movimenti di opinione di giovani ebrei, in Europa e negli Usa, che denunciano la politica colonialista e criticano Israele in quanto stato colonialista e razzista, non in quanto stato fondato da ebrei.

La legislazione francese e di altri paesi europei pone restrizioni al diritto di esprimere opinioni «revisioniste» verso Israele ma non prende posizione per la disapplicazione sistematica delle Risoluzioni Onu.

Ho avuto un'esperienza di questo genere circa due anni fa. La mia conferenza venne interrotta da un gruppo di estremisti, ebrei come me, che mi impedirono di andare avanti. Arrivò la polizia, per proteggermi non per accusarmi. Quanto al silenzio, è molto più comodo per la gente pensare in maniera convenzionale. Bisogna avere molta energia e originalità per agire in modo differente. La Risoluzione 194, per esempio, stabilisce che i profughi palestinesi hanno diritto di ritornare nella loro terra. Ma è più facile non fare niente e continuare a pensare con le stesse identiche formule.

Sono le stesse ragioni per cui la sinistra italiana continua a proporre il modello «due popoli due stati»?

Sicuramente la sinistra italiana non è coraggiosa. Ma dovrà cambiare per forza, perché la situazione sul terreno sta diventando catastrofica. Se Israele invade Gaza, come è nell'attuale ordine delle cose, uccideranno un sacco di palestinesi e tuttavia non cambieranno la realtà. Gaza è una grande prigione, e succederà come avviene nelle rivolte carcerarie: l'esercito farà «ordine e pulizia», con botte e uccisioni. Sarà un massacro ma, quando se ne andranno, la situazione sarà sempre la stessa.

Che risultati potrebbe dare invece la soluzione dei due popoli all'interno di un unico stato?

È necessario che le popolazioni si accettino, che gli ebrei riconoscano i loro fratelli e vicini arabi e viceversa. Dopo aver riconosciuto la storia per quella che è e dopo essersi assunti ciascuno le proprie responsabilità. Riconoscimento, responsabilità e accettazione. Seguendo questa strada si potrà avere uno stato unico, dove conti il principio, «un uomo, un voto» e dove i cittadini, pur non amandosi, possano convivere. È un progetto raggiungibile se si continuerà nella critica e impedimento dei crimini che continuano a essere commessi da Israele e se si porterà avanti la campagna di disinvestimento come avvenne per il Sud Africa.

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