Essere o non essere comunisti?

A proposito di uno scritto di Fausto Sorini: "Note per una discussione sul socialismo"

Finalmente, dopo tante incertezze, di cose dette e non dette, di cortine fumogene sulla storia dei comunisti, abbiamo a disposizione un testo, una sorta di summa storico interpretativa del movimento comunista che ci viene da un esponente della prima ora di quell’area che ora si raggruppa nella rivista l’Ernesto.

Lo scritto è opera di Fausto Sorini (*) ed ha il pregio di coprire passato, presente e futuro del movimento comunista, sicchè ci permette di capire come la pensa l’autore non su una singola questione, bensì su tutti gli aspetti del dibattito che coinvolge i comunisti. Certamente non possiamo automaticamente estendere i punti di vista di Sorini a tutto il suo gruppo però, avendo egli scritto il documento a nome della commissione del PRC di cui è responsabile, dobbiamo credere che si tratti di una posizione diffusa.

E’ utile ricordare che al momento in cui criticammo il “Centro sulla transizione” messo su dall’editore Manes e da Andrea Catone, e di cui Sorini fa parte, si disse, e si scrisse, che i giudizi espressi da alcuni di noi sull’iniziativa erano da considersi eccessivamente severi e settari.

Allora, alcuni compagni, me compreso, si sforzarono di spiegare che la nostra non era la logica di sparare a chi ci è più vicino per sentirci più rivoluzionari, ma semmai di individuare un filone culturale interpretativo di tipo ”italiano” della storia e della strategia comunista che, recuperando il ‘900, di fatto ne ripropone una versione che abitualmente definiamo tardo-togliattana e sicuramente di stampo socialdemocratico.

Naturalmente il punto di partenza del discorso è la Rivoluzione d’Ottobre e quindi Lenin. Qual ‘è l’aspetto principale della riflessione di Sorini sulla rivoluzione russa? In sostanza, dice Sorini, Lenin alla vigilia della sua morte si rese conto che la transizione al socialismo non poteva essere accelerata e quindi, con la NEP, egli imposta un’azione di lungo periodo in cui si intravede una modificazione sostanziale del percorso rivoluzionario in cui stato e ‘società civile’ convivono e dentro questa convivenza si dovrà realizzare l’egemonia dei comunisti.

Qui siamo certamente nel campo delle illazioni sull’opera di Lenin e non fa certo onore all’autore e alla pretesa scientifica del suo scritto impostare le cose in questo modo. Come si fa a dire che Lenin avesse individuato, alla vigilia della morte, una linea strategica che si basasse sulla convivenza tra pubblico e privato, nell’industria come nelle campagne, per marciare verso il socialismo? Quali elaborazioni globali sono state fatte dopo la Rivoluzione d’Ottobre da Lenin sulla transizione al socialismo che possano suffragare i giudizi del Sorini?

Il percorso della Rivoluzione d’Ottobre, di cui Lenin fu la guida, è un percorso assai articolato, il cui senso principale non è l’idea che una volta preso il Palazzo d’inverno si può tranquillamente scegliere il modo con cui si va verso il socialismo e il comunismo. La NEP, quindi, non è un asse strategico sulla via del socialismo, bensì un momento tattico della linea adottata da Lenin e dai bolscevichi di fronte alle circostanze e questa linea sarebbe stata modificata in rapporto alle contraddizioni interne e internazionali. Certo, la storia si può fare anche seguendo i propri desideri, ma poi è difficile da dimostrare.

Chi avesse letto anche solo il Bignami della rivoluzione russa avrebbe ricavato un’idea di Lenin certamente meno superficiale e un’immagine meno distorta della sua linea politica. Sicuramente Sorini non ama il Lenin rivoluzionario e non ha studiato molto, quindi, questioni essenziali che derivano dalla lettura delle Lettere da lontano, da azioni come lo scioglimento della Costituente, la repressione di Kronstadt e, di contro, la scelta della pace di Brest - episodi questi che ci svelano come Lenin impostasse la tattica in rapporto agli obiettivi di fase e ricordando a chiunque che la tattica senza un disegno strategico non apre nessuna prospettiva. Quindi basarsi sulla NEP per dimostrare che Lenin avesse fissato la nuova strategia della transizione è una deduzione arbitraria che maschera la vocazione buchariniana dell’autore, ma che ha poco a che fare con Lenin e molto più con la versione ‘italiana’ del suo pensiero.

In realtà, un approccio così azzardato su Lenin serve ad introdurre ben altre questioni che stanno a cuore a Sorini.

La prima, naturalmente, riguarda il dopo Lenin, cioè l’epoca di Stalin. Non avendo il coraggio di dire che superando la NEP i comunisti in Unione Sovietica hanno fatto un tragico errore e sono caduti in una feroce dittatura volontaristica, Sorini cerca di dimostrare con giri di parole la stessa cosa, anche se deve ammettere che le circostanze storiche hanno dato ragione a chi aveva capito che la rapida industrializzazione era in rapporto a ciò che stava accadendo nel mondo, tra cui la preparazione della seconda guerra mondiale.

Ecco quindi il primo dilemma, posto da Sorini: “Il prezzo umano(!) pagato fu elevatissimo, e ancora oggi si discute quanto la ferrea e autoritaria direzione staliniana (di cui tutti riconoscono gli eccessi), fosse per lo più un tributo pagato all’eccezionalità dei tempi; e quanto invece fosse l’espressione di processi degenerativi non obbligati, quindi in buona misura evitabili.”

Una prima domanda da fare riguarda i soggetti: chi discute della ferrea e autoritaria direzione staliniana? Chi sono i tutti che riconoscono gli eccessi? Mettendo i soggetti a queste affermazioni, si capirebbe con chi sta in compagnia Fausto Sorini.

Una seconda domanda riguarda le scelte fatte dal gruppo dirigente bolscevico “dopo un aspro dibattito che si protrasse fino al 1929”. Queste scelte erano giuste o sbagliate? Ipocritamente si dice che in fondo certe previsioni di Stalin erano giuste, ma si evita il giudizio sul socialismo in un solo paese, sulla necessità di una rapida industrializzazione del paese e della modernizzazione dell’agricoltura, sulla preparazione della difesa, sul controllo interno dell’immenso paese contro il sabotaggio e i residui delle classi sconfitte, sulla tenuta dello stesso fronte interno. Certamente sappiamo cosa pensa Sorini di tutto questo. Egli sostiene, deformando Lenin, che si poteva arrivare alla sconfitta di Hitler senza Stalin. Non gli viene il dubbio che, senza Stalin, l’URSS sarebbe stata spazzata via e con essa la stessa Rivoluzione d’Ottobre. E la vittoria sul nazismo non è un fatto militare, è la vittoria di una scelta che collega industrializzazione, riorganizzazione socialista delle campagne, crescita culturale e tecnica, organizzazione della difesa e del fronte interno, dentro la scelta del socialismo in un solo paese. Scelta che, come sappiamo, fu aspramente contrastata da Bucharin e dai sui compagni di avventura e che lo ha portato, per questo, di fronte al plotone di esecuzione.

Come può un socialdemocratico come Sorini capire e accettare dinamiche di tipo rivoluzionario che hanno però il pregio di essere confermate dalla storia?

Meglio insistere invece sull’ipotesi di una transizione al socialismo di tipo soft, come si direbbe oggi, e per questo Sorini lega nientedimeno che la NEP alla via italiana al socialismo e al concetto di democrazia popolare per dimostrare che, se non ci fosse stato Stalin, il socialismo nel mondo avrebbe avuto ben altri risultati e, per dimostrare questo, come tutti i socialdemocratici, scomoda anche il Gramsci delle ’casematte’.

Andiamo quindi per ordine. Si può paragonare la transizione al socialismo con la via italiana al socialismo del PCI? L’VIII congresso del PCI, che ha definito questa linea politica, non è stato altro che un tentativo di sciogliere i nodi che si andavano accumulando nel movimento comunista - compreso quello italiano, e, si badi bene, dopo il famigerato XX congresso del PCUS - orientando la bussola non verso il socialismo, bensì verso una politica di ‘riforme’. Avverte però il Sorini che la transizione, ivi compresa la via italiana al socialismo, presuppone la presa del potere. Come? La questione rimane indefinita perché altrimenti si porrebbero ben altri interrogativi. Dovremmo però farcelo spiegare.

A supporto della sua tesi, Sorini, come si è detto, scomoda Gramsci, quello delle ‘casematte’. Citare Gramsci a sproposito o utilizzarlo strumentalmente è stata ed è operazione che tutti i ‘rinnovatori’ del socialismo hanno tentato ma, a mio parere, arbitrariamente. Perchè Gramsci ha parlato di guerra di movimento e di guerra di posizione, analizzando la fase aperta dalla rivoluzione d’Ottobre, quindi di una strategia rivoluzionaria dove tattica e prospettiva sono legate. Quindi le casematte sono cosa diversa dalle conferenze sul socialismo e dal lavoro istituzionale, che per Sorini sono una vocazione, una professione che in altri campi equivale all’idraulico o al barbiere.

Altre tesi azzardate, avanzate dall’autore del saggio, riguardano il rapporto tra NEP, via italiana al socialismo e democrazie popolari. Esaltato dalla libidine della transizione soft al socialismo, il Sorini scavalca tutte le differenze storiche e quindi anche la dialettica storica per riproporre la solita minestra riscaldata.

Se avesse avuto la serietà di indagare veramente su questi nessi avrebbe scoperto che tra la via italiana al socialismo e la NEP manca un particolare di non poco conto, la presa del potere da parte dei comunisti. Quindi l’integrazione tra pubblico e privato nel primo caso avverrebbe in un sistema a gestione capitalistica, mentre nel secondo avviene dopo la presa del potere da parte dei comunisti e sotto il loro controllo. Mancando quindi le condizioni per questa seconda ipotesi, rimane il fatto che la via italiana al socialismo, così come è stata definita all’VIII congresso del PCI, non poteva essere altro che un modo per sfuggire alla questione centrale della trasformazione delle strutture capitalistiche e di potere per ripiegare su un riformismo interno a tali strutture; in altri termini alla socialdemocratizzazione della politica dei comunisti. Quella che era stata la tattica del PCI dopo Yalta e nelle condizioni dell’Europa occidentale nel dopoguerra viene assunta dopo l’VIII congresso come strategia per arrivare al socialismo. Da questo al Berlinguer dell’ombrello NATO ai DS la strada è stata tutta in discesa.

La questione delle democrazie popolari dell’est europeo, richiamata attraverso una lunga citazione di E.Varga per dimostrare che esiste una linea di continuità tra Bucharin e ciò che è avvenuto nell’est europeo dopo la seconda guerra mondiale, viene presentata da Sorini saltando a piè pari le vicende della guerra fredda e delle contraddizioni politiche e di classe da essa alimentate. Ancora una volta lo scontro con l’imperialismo e con le forze di riferimento interno alle democrazie popolari sembra frutto della malvagità degli stalinisti. Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia non hanno insegnato nulla a Sorini? E la fucilazione di Ceausescu come va interpretata?

Ma Sorini insiste, bisognava dar retta a Lenin della NEP e a coloro che ne hanno sostenuto l’eredità. Perché la conclusione di tutta la vicenda storica dell’esperienza di costruzione del socialismo nel ‘900 porta il Sorini a dire che vi è stata “una centralizzazione autoritaria della vita economica e politica e una militarizzazione del pensiero(sic)”; “una pianificazione rigidamente centralizzata e gerarchica e un dirigismo aziendale hanno sostanzialmente escluso i lavoratori dalla partecipazione responsabile alla gestione delle unità produttive e alla elaborazione democratica del piano”; e ancora “il limite fondamentale del socialismo reale rimanda a un modello politico-istituzionale autoritario che ha frenato lo sviluppo di una democrazia socialista, nella cornice dello stato di diritto, con solide radici nella società civile e … questo spiega, tra l’altro, la facilità con cui, venuto meno il protettorato (sic) politico-militare dell’URSS, i sistemi politici dell’est europeo sono crollati”.

Inutile dire che con queste affermazioni Fausto Sorini si accoda alla canea anticomunista che ha cercato di distruggere, con queste argomentazioni, la storia del movimento comunista in questi decenni.

Non è questo però che mi interessa sottolineare. Quello che è ancora più grave è che ci troviamo di fronte ad una posizione volgarmente socialdemocratica che è paragonabile a quella dei secondointernazionalisti all’epoca della Rivoluzione d’Ottobre, dove la rivoluzione contro il capitale veniva definita autoritaria e foriera di sbocchi perversi.

Sorini, come i secondointernazionalisti, rifugge dal fatto che la rivoluzione non è un pranzo di gala e che la lotta per il socialismo non sfugge a questa regola. Lo stomaco di costoro, abituato agli ambienti politicisti del ventre molle della cultura politica occidentale, non si adatta facilmente alle trasformazioni rivoluzionarie.

Ma Sorini ci sfida a trovare una spiegazione al crollo dell’URSS e dei paesi socialisti dell’Est europeo. A questo proposito, vorremmo che egli, nei suoi ragionamenti, prendesse in considerazione il XX congresso del PCUS e tutto ciò che ne è seguito e introducesse la categoria della controrivoluzione. Di questo non vi è cenno nei suoi ragionamenti, come se il 1956 non fosse lo spartiacque della storia del movimento comunista e si potesse affermare una continuità tra Stalin, Breznev e Eltsin. Questa continuità non esiste! Per chi sa interpretare in modo rivoluzionario la storia del movimento comunista appare evidente che con Kruscev coloro i quali rappresentavano la nomenklatura non rivoluzionaria del partito e dello stato sovietico hanno preso, morto Stalin, il sopravvento, modificando il corso degli eventi fino alla dissoluzione dell’URSS.

Con il XX congresso, la soggettività rivoluzionaria di Stalin e del partito che per tre decenni si era imposta come condizione per lo sviluppo del socialismo ha ceduto di fronte ai fautori della ‘stabilizzazione sociale’ e del blocco della transizione al socialismo.

Conoscendo un po’ di dialettica, non è difficile immaginare che ogni rivoluzione subisce il rischio della sconfitta, ma la sua esperienza viene consegnata alla storia perché se ne raccolga l’eredità e la si utilizzi per le tappe successive. Questo è il metodo dei comunisti e da questo bisogna partire nella valutazione dei risultati positivi e dei limiti soggettivi e oggettivi di una rivoluzione.

Questa lezione non interessa Sorini, il quale nella sua foga di individuare metastoricamente le nuove vie al socialismo ci propina una sua ipotesi neobuchariniana globale.

Cosa sostiene in proposito ? Egli ci dice che, dopo la brutta esperienza del socialismo reale, è possibile individuare un nuovo percorso verso il socialismo che sia più valido e, citando a piene mani Samir Amin, si inventa che Cina, India, Europa democratica, Russia e tanti altri paesi indipendenti intraprendano, sotto la guida dei comunisti, una lunga transizione al socialismo senza accelerazioni.

Ancora una volta i desideri ’pacifisti’ del socialdemocratico prevalgono sulla lettura degli avvenimenti, i quali ci dicono invece che la situazione è caratterizzata non da una nuova transizione multipolare dove finalmente pubblico e privato si misurano democraticamente nella via del socialismo, ma da una offensiva imperialista americana che tende a imporre, assieme ai suo alleati-vassalli un nuovo ordine internazionale emulo del quarto Reich. In questa prospettiva si sviluppano contraddizioni che investono la Russia, la Cina, l’India(?), i paesi arabi a partire dall’Iraq, l’Iran e in qualche misura la stessa Europa. Che c’entra la via buchariniana al socialismo con tutto questo?

Come sempre, i socialdemocratici mettono le braghe al mondo per evitare i nodi rivoluzionari. Quello che abbiamo di fronte non è uno scenario di transizione, ma uno scenario di guerra che pone, per i comunisti non camuffati, il compito prioritario di organizzarsi in questa prospettiva, rammentando che il Lenin della NEP, prima di orientarsi verso la competizione ‘pacifica’ tra economia socialista e imprese private, aveva elaborato, applicandola, la linea della trasformazione della guerra imperialista in rovesciamento dei governi che questa guerra avevano scatenato.

All’interno di questa prospettiva, i comunisti devono porsi il problema delle trasformazioni sociali e dei rapporti internazionali tra paesi che fuoriescano dalla logica imperialista. E’ in questo contesto, e solo in questo contesto, che va definita la questione delle alleanze.

Quali tempi e quali passaggi imporrà la vittoria sul quarto Reich? Proviamo a mettere al centro della discussione dei comunisti questo, a partire dal sostegno alla resistenza irachena, di cui così poco si parla nella sinistra imperialista italiana.

Sorini però, invece di fare questa considerazione, ci aspetta al varco della Cina per dirci, ma non vedete che il grande paese asiatico ha imboccato, e con grande successo, la via buchariniana al socialismo? non vedete che seguendo un altro percorso si aprono prospettive luminose per il socialismo nel mondo?

Sorini dovrebbe sapere, quando il suo gruppo non solo non aveva il coraggio di replicare convenientemente alla campagna anticomunista di Bertinotti, inclusa la Cina, che Aginform ha intrapreso un’opera di orientamento allo scopo di illuminare quel buco nero che rappresentava per la sinistra la questione cinese.

Detto questo però, lungi dal semplificare il discorso sulla transizione al socialismo, abbiamo cercato di spiegare, anche ai critici di ‘sinistra’, qual è il nostro parere sulla questione. Nel far questo debbo sottolineare che il solito paragone storico tra Russia del 1920 e Cina è fuori luogo e arbitrario. La Cina, per il suo sviluppo, ha potuto usufruire di una condizione particolare dovuta al carattere prevalente dello scontro USA-URSS e per certi versi i cinesi sono stati utilizzati dagli americani in questo contesto. Ciò ha facilitato ai cinesi uno sviluppo della linea di Deng Hsiao Ping e il raggiungimento dei grandi progetti di sviluppo. Questo non è un particolare di poco conto. E questo sviluppo si sarebbe infranto a piazza Tienanmen se i carri armati non fossero intervenuti. Come lo stesso sviluppo della Cina è garantito da quella ‘orrida’ centralizzazione del potere continuamente attaccata dalla sinistra anticomunista e dagli antistalinisti. Detto questo, rimangono da interpretare le prospettive aperte dal grandioso sviluppo cinese, dal ruolo internazionale assunto dalla Cina, rispetto anche alle prospettive di avanzata del socialismo nel mondo.

Per far questo, in luogo di generalizzazioni ’teoriche’ fasulle, dobbiamo sviluppare l’analisi concreta della situazione concreta. Partendo da questo dobbiamo considerare sia che l’enorme sviluppo economico cinese è diventato un fattore che condiziona positivamente le relazioni internazionali e quindi permette ad ogni paese che si vuole sottrarre ai lacci imposti dall’imperialismo di avere un riferimento alternativo, sia però che questa potenzialità si è andata definendo nel quadro di una dinamica interna al mercato capitalistico mondiale. Questo impone allo sviluppo cinese una configurazione ambivalente che crea elementi di preoccupazione sul suo futuro socialista. Ciò va detto senza mezzi termini, anche se la questione non può essere risolta con gli anatemi trotsko-bordighisti. Come comunisti dobbiamo saper vedere la linea di sviluppo del socialismo dentro e non all’esterno dei passaggi storici reali.

Roberto Gabriele


(*) Lo scritto di Sorini è reperibile presso il sito www. ricercateorica.org oppure presso www.resistenze.org

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