Libro su Stalin di Ludo Martens in traduzione italiana

Dall'introduzione di Adriana Chiaia

Adriana Chiaia nella sua prefazione al libro ci ricorda tre questioni che ci sembrano dirimenti.

La risposta a certi critici

Nell’individuare nel revisionismo moderno la causa della temporanea sconfitta del socialismo, come fa anche l’autore del libro che presentiamo, non si intende affatto - come ci viene attribuito - affermare che la svolta impressa ad ogni aspetto della vita dell’URSS da Chruscev e dalla sua cricca revisionista rappresenti il subitaneo passaggio dal “paradiso all’inferno”. Si intende invece indicare, nella presa del potere dopo la morte di Stalin da parte della componente revisionista del PCUS, la vittoria di quest’ultima. Vittoria resa irreversibile anche dalla mancata reazione e mobilitazione della sinistra del PCUS. Il sistema socialista era talmente forte che dovettero trascorrere più di trent’anni perché, attraverso le riforme frettolosamente varate da Chruscev (che per questo perse il potere), attraverso il periodo di stagnazione economica e di paralisi politica sotto Breznev, attraverso l’inganno della perestrojka gorbacioviana, attraverso la conquista delle principali leve del potere da parte di Eltsin (l’uomo prescelto dagli Stati Uniti per portare a termine il lavoro), si arrivasse alla catastrofe finale con lo scioglimento del PCUS, la dissoluzione dell’URSS, la nascita della Comunità degli Stati Indipendenti e la completa restaurazione del capitalismo.

Sono dunque pretestuosi gli argomenti dei nostri critici. Sono piuttosto essi stessi che dovrebbero rivedere la loro analisi del processo che ha portato agli esiti rovinosi che nemmeno loro mettono in discussione. Essi, rifiutando l’interpretazione della realtà mediante la categoria del revisionismo (che addirittura banalizzano ponendolo alla stregua del “burocratismo”, chiave interpretativa di ogni male da parte dei trockijsti), fanno invece risalire le cause dell’attuale catastrofica situazione dell’ex URSS all’arretratezza atavica della società russa, agli errori, ai limiti della transizione al socialismo, “incompiuta”, secondo alcuni di loro o addirittura mai realizzata, secondo altri. Essi stabiliscono cioè una continuità, tra il prima e il dopo XX Congresso, invece di individuare in esso un punto di rottura della linea politica difesa dalla Direzione del Partito sotto la guida di Lenin e di Stalin attraverso aspre lotte, linea politica che ha permesso lo straordinario sviluppo dell’Unione Sovietica nel campo economico, politico e culturale e la sua vittoria sul nazismo. Nella loro concezione evoluzionistica, essi negano di fatto l’esistenza della lotta di classe durante il socialismo, lo scontro tra le due vie, tra le due opposte concezioni, teoria che ha trovato la sua forma più compiuta nell’elaborazione di Mao Zedong, grazie anche alla lezione dell’esperienza dell’Unione Sovietica.

La sconfitta del revisionismo

La storia ha decretato la sconfitta del revisionismo moderno. Ha decretato la sconfitta dei revisionisti (cioè della nuova borghesia) installatisi al potere nei paesi ex socialisti, nei quali si è dimostrata l’impossibilità di restaurare il capitalismo per via pacifica, senza provocare il disastro politico, economico e sociale in cui sono sprofondate le loro popolazioni. Ha decretato la sconfitta dei revisionisti alla guida dei partiti comunisti nei paesi capitalisti. Malgrado il loro peso numerico e la loro influenza nella società, si è dimostrata l’impossibilità del passaggio al socialismo “per via parlamentare e pacifica” e non solo, con l’accentuarsi della crisi economica generale del capitalismo che ha esaurito la fase dello sviluppo produttivo delle imprese (il boom economico del dopoguerra), si sono chiuse le strade riformiste per l’ottenimento di concessioni economiche e sociali per i lavoratori. Per questi ultimi si è verificata, al contrario, la perdita delle principali conquiste strappate alla borghesia capitalista.

La nostra epoca quindi ha sancito non la sconfitta del comunismo, come viene proclamato ai quattro venti, ma il fallimento definitivo del revisionismo moderno.

Concetto basilare, sostenuto da Ludo Martens nella sua introduzione e ribadito nel suo libro, dove si dimostra come le posizioni delle forze revisioniste, che hanno preso il potere in Unione Sovietica dopo la morte di Stalin, vengano da lontano, discendano da quelle del vecchio revisionismo dei Bernstein e dei Kautsky e siano le stesse sostenute dalle correnti socialdemocratiche e mensceviche che hanno avversato le idee e la pratica politica di Lenin, prima e durante la Rivoluzione d’Ottobre. Sono le stesse idee che, dopo la vittoria di questa, sotto le varie forme dell’opposizione di destra (buchariniani, zinov’evisti) e di pseudo-sinistra (trockijsti, socialisti-rivoluzionari) hanno reiteratamente tentato di deviare dalla giusta strada le scelte politiche del Partito Bolscevico, l’esercizio del potere proletario nella Repubblica socialista sovietica, e la costruzione del socialismo negli anni Venti e Trenta

Un invito ai lettori più giovani

Qui ci sembra opportuno aprire una parentesi rivolta ai nostri lettori, specialmente ai più giovani, per invitarli a non respingere con un senso di fastidio quelle che possono sembrar loro noiose diatribe tra personaggi del passato. Il loro rifiuto deriva dal disinteresse e spesso dal disgusto che essi giustamente provano nei confronti del “teatrino della politica”, sul palcoscenico del quale si agitano, in polemica tra loro, i soliti personaggi, mossi da interessi personali, di parte o da esigenze elettorali. Personaggi e polemiche che appaiono anni luce distanti dai bisogni, sentimenti e aspirazioni della stragrande maggioranza della popolazione. Questa estraneità nei confronti della “politica” è la conseguenza del fatto che, negli Stati ad ordinamento democratico borghese, le ferree leggi insite nella natura (nel modo di produzione) del sistema capitalista nazionale ed internazionale pongono limiti e vincoli invalicabili all’agire delle forze politiche, sia governative che parlamentari, comprese quelle delegate a rappresentare gli interessi dei lavoratori e delle masse popolari. La componente parlamentare di “sinistra” nei paesi capitalisti è quindi stretta nella morsa tra l’opportunistica collaborazione e la sterile opposizione nei confronti dei cosiddetti “poteri forti”.

Profondamente diversa è l’importanza delle lotte ideologiche, dei contrasti e degli scontri politici di cui ci stiamo occupando. Si tratta del confronto di teorie che si materializzano nel movimento rivoluzionario delle masse e che ne condizionano il cammino. In un contesto rivoluzionario e di esercizio del potere proletario è determinante che prevalga una teoria o l’altra, che si imbocchi l’una o l’altra via.

I due capitoli del libro che presentiamo, dedicati all’industrializzazione e alla collettivizzazione in Unione Sovietica negli anni Trenta fanno comprendere il senso di questi contrasti, innervati nella realtà di classe e nello scontro tra le classi. I nostri giovani lettori capiranno allora che quelle che consideravano vane diatribe tra personaggi in gara per il potere sono in realtà lo specchio, sul piano teorico, dei diversi e spesso opposti interessi delle classi di cui gli individui (soprattutto interni alla direzione del Partito e dello Stato) sono, consapevolmente o no, i rappresentanti e che il prevalere dell’una o dell’altra posizione politica, dell’una o dell’altra concezione del mondo è di interesse vitale per l’una o l’altra classe.

Per questo motivo li invitiamo ad una lettura particolarmente attenta dei suddetti capitoli. Essi riguardano l’arco di tempo successivo alla ricostruzione, il periodo dell’attuazione del primo piano quinquennale, della realizzazione delle grandi infrastrutture, base indispensabile dello sviluppo industriale, del ritmo accelerato impresso allo sviluppo dell’industria e del primo movimento di massa dei contadini verso l’agricoltura collettiva.

Nel suo discorso per il XII anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, Stalin disse:

«L’anno trascorso ha dimostrato che, malgrado il blocco finanziario, ammesso o nascosto, dell’URSS, noi non ci siamo consegnati alla mercé dei capitalisti, e che noi abbiamo risolto con successo, con le nostre proprie forze, i problemi dell’accumulazione, gettato le basi dell’industria pesante. È ciò che ormai non possono negare anche i nemici giurati della classe operaia.»

Ed ecco come descrive questa svolta decisiva dell’economia sovietica l’insigne economista di Cambridge Maurice Dobb:

«La situazione che l’economia sovietica aveva raggiunto era caratteristica di una di quelle fasi cruciali del processo storico nelle quali, qualora si voglia andare avanti, rapidamente o no, lungo una determinata linea di sviluppo, bisogna farlo nell’impeto di uno slancio iniziale; in questi momenti le forze d’inerzia che si sono accumulate e cristallizzate nel corso di un’intera epoca storica devono essere superate dall’urto di questo improvviso movimento; altrimenti esse ritarderanno e devieranno il corso del movimento stesso per molti decenni. In quel momento il processo di escavazione deve lasciare il passo a un assalto improvviso e subitaneo.» Il 1929 segnava infatti la fine del periodo 1926-1929 nel quale si erano dovute superare le principali difficoltà relative all’accumulazione in un paese che non poteva evidentemente contare sullo sfruttamento delle colonie, fonte principale dell’accumulazione primaria dei paesi capitalisti, né su prestiti a lungo termine da parte di questi o del sistema bancario mondiale. Inoltre quegli anni, come già detto, erano stati segnati da aspre lotte di classe nella società e dal loro riflesso all’interno del Partito, che aveva dovuto combattere contro le posizioni capitolarde del blocco trockijsta-zinov’evista e le posizioni opportunistiche della destra buchariniana. Il sostegno determinante al Partito era venuto dalla classe operaia. Dai lavoratori d’assalto: gli udarniki e gli stachanovisti, i quali, nell’agricoltura e nell’industria, si erano impegnati nell’emulazione socialista e che, con il loro slancio e il loro entusiasmo, avevano sostenuto il titanico sforzo.

Abbiamo ritenuto importante richiamare l’attenzione dei nostri lettori sul contenuto di questi capitoli, per la completezza e la complessità del vasto affresco, con le sue luci e le sue ombre, attraverso cui l’autore dipinge l’epica impresa della trasformazione di un paese arretrato, la cui economia era essenzialmente basata su un’agricoltura frammentata e primitiva, su un’industria sottosviluppata, priva di tecnologie moderne, di un paese ricco di risorse energetiche, ma privo di capitali e infrastrutture per poterle sfruttare, in un paese industrialmente avanzato. In questi capitoli è puntualmente descritta quella che chiamiamo fase di transizione di una società socialista, cioè del passaggio dalla società capitalista alla società comunista. In essi, con il metodo marxista del materialismo dialettico, si illustra l’essenza di questa fase, non lineare e pacifica, ma segnata da dure lotte di classe nella società e all’interno del Partito, da aspre contrapposizioni tra inconciliabili concezioni teoriche e politiche. Dalla lettura di queste pagine si ricava un resoconto puntuale e non agiografico della realtà. Si mettono in rilievo, da un lato, la partecipazione entusiasta della classe operaia e dei contadini poveri, ma anche le contraddizioni al suo interno: i volontarismi, gli eccessi, i ritardi, gli errori e le relative rettifiche, lo spontaneismo delle masse e il ruolo di direzione del Partito. E, dal lato opposto dello schieramento di classe, si evidenziano i sabotaggi, i delitti, la corruzione, il formalismo e l’inefficienza. Ci viene offerta cioè la descrizione “sul campo” di una fase in cui sono presenti sia i “germi di comunismo”, come li chiamava Lenin, che le tare della vecchia società capitalista. Nel quadro delle contraddizioni tra i nuovi e i vecchi rapporti di produzione, viene messa in risalto l’accanita resistenza della borghesia che non vuole morire e che - con le armi, gli intrighi, puntando sull’ignoranza, sulla forza delle abitudini, sui pregiudizi e sulle superstizioni delle masse più arretrate - cerca di soffocare lo sviluppo economico, sociale e morale della nuova società che nasce, ancora imperfetta, ma che prelude alla società comunista.

Nei capitoli dedicati al “genocidio della collettivizzazione” e a “l’olocausto degli Ucraini”, Ludo Martens affronta due temi, che furono e sono il cavallo di battaglia della propaganda della borghesia imperialista e di quella revisionista per descrivere gli “orrori” del comunismo ed in particolare del “terrore” staliniano. Con un paziente e puntuale lavoro di ricerca delle fonti e delle testimonianze, l’autore smonta le operazioni di intossicazione dell’informazione e ne svela i meccanismi perversi. Una tra tutte, a mo’ di esempio, la montatura riguardante la carestia degli anni 1931-32 per mezzo della quale Stalin (c’è sempre una personalizzazione in queste accuse) avrebbe volontariamente sterminato gli Ucraini. Si legga (alle pp. 141-143) l’ignobile vicenda di un falso reportage di un falso giornalista e dell’uso truffaldino delle immagini della carestia del 1921-22.

Già allora quella sciagura, che aveva colpito la giovane Repubblica sovietica russa, era stata addebitata al “fallimento” del socialismo, come ricorda Lenin: «... Poi abbiamo avuto la carestia. E questa per i contadini è stata la prova più dura. È ben naturale che allora tutti all’estero gridassero: “Eccoli, i risultati dell’economia socialista!”. Ed è del tutto naturale che essi tacessero che la carestia, in realtà, era un orribile risultato della guerra civile.»

È del tutto naturale che il nemico ci attacchi, ma non possiamo esimerci dall’alzare la nostra voce per ristabilire la verità. Puntigliosamente e scientificamente l’autore dimostra la falsità delle cifre sparate dai detrattori professionali del socialismo, del genere di Robert Conquest, denuncia le origini naziste della propaganda anticomunista maccartista (nel secondo dopoguerra, gli USA raccolsero il testimone della propaganda nazista), ridimensiona il numero dei kulaki fucilati in seguito alle condanne per atti di terrorismo nelle campagne e dei morti in conseguenza della deportazione nei campi di lavoro. Per quanto riguarda il “genocidio” degli Ucraini, dimostra come i dati statistici possano essere manipolati, applicando lo stesso metodo alle variazioni della popolazione in una provincia del Canada (p. 148). Infine rivela la vera origine della carestia del biennio 1931-1932, dovuta a cause naturali (siccità) e a nuove difficoltà nel processo di collettivizzazione. Carestia che peraltro fu affrontata con grande efficienza e con un sollecito aiuto alle popolazioni colpite, da parte del governo sovietico che disponeva di ben altre risorse rispetto al 1921.

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