La rivoluzione del 4 marzo

20 giugno 1789: il giuramento della pallacorda
da www.glistatigenerali.com

Molti hanno stentato a capire che le elezioni del 4 marzo, aldilà della percezione dei vincitori, hanno rappresentato in Italia una sorta di rivoluzione, un punto di non ritorno dalla palude in cui stagnava la politica italiana.

Il terremoto era in parte annunciato, ma si trattava di voti e di percentuali che nascondevano il dato principale, che era di sostanza: la maggioranza dei votanti (oltre al 27% di astenuti) ha deciso di uscire dalla vecchia politica fatta di manovre, inciuci e interessi consolidati e di esprimere domande da cui non era e non è possibile derogare.

Vero è che le promesse possono anche non essere mantenute, ma i rosigoni del PD fanno male a pensare che in futuro ci potranno essere recuperi a loro favore. Non hanno capito che il voto del 4 marzo ha espresso contro il renzismo una rabbia molto profonda e solo l'imbecillità del senatore di Rignano può dar credito a ipotesi ottimistiche sugli effetti dell'Aventino in versione dem. In ballo ci sono infatti proprio le questioni su cui il PD renziano è andato a sbattere: il salario di cittadinanza, il jobs act, la legge Fornero, la riforma della scuola, i livelli di tassazione, i rapporti con l'UE, il carattere degli accordi internazionali e dei loro effetti 'automatici'. Questi sono gli argomenti all'ordine del giorno per il nuovo governo. Eluderli significherebbe non ritornare indietro, ma approfondire la crisi.

Siamo dunque in una situazione di non ritorno? Per certi versi sì, nel senso che la pressione che viene da milioni di persone che hanno votato Lega e Cinque Stelle ha lacerato il quadro in cui a tenere il banco erano i soliti noti, dai dem a Berlusconi. Sarà molto difficile far rientrare nei ranghi queste persone.

Certo, dentro la 'rivoluzione' del 4 marzo non si intravedono i bolscevichi intenti a preparare un ottobre e quindi da un punto di vista politico e di prospettiva bisognerà capire difficoltà e passaggi di una fase in cui non sarà facile orientarsi. Se parliamo del 4 marzo come di una rivoluzione bisogna perciò che ci intendiamo bene. L'atteggiamento 'rivoluzionario' degli elettori esprime certamente rabbia per lo stato di cose presente, ma mantiene una sostanziale ambiguità sociale e di classe, che solo una direzione politica salda potrebbe portare a un approdo giusto e soprattutto alla necessaria diversificazione e chiarificazione interna.

Inutile ribadire che un'operazione di questo genere non può essere tentata né dalle malandate truppe renziane o post-renziane, né da una sinistra che ha abbondantemente dimostrato di essere liquefatta. Di LeU si prevede la scomparsa in tempi brevi dal momento che i fondatori del PD si sono mescolati con i peggiori avventurieri della politica e la base 'buona' non ha consistenza ed ha anche preso il volo, come si è visto, verso i Cinque Stelle. Quanto alla sinistra 'alternativa', è riuscita a dimezzare persino il misero risultato elettorale di Ingroia del 2013.

Dal punto di vista politico, i simboli e i discorsi della 'sinistra' non hanno nessuna presa e sono diventati autistici, sia che a parlare sia Renzi o Bersani o Rizzo con la sua falce e martello. Dovremo allora morire leghisti o cinque stelle? La questione non è questa. E' capire, finalmente, che bisogna uscire dalla palude di questa 'sinistra', variamente rappresentata, che non è in grado di affrontare la fase storica che stiamo attraversando. Da tempo andiamo dicendo che bisogna uscire dalla logica donchisciottesca e sgomberare il terreno dalle macerie accumulate finora. Un compito né facile, né immediato. Smettiamo di parlare di 'sinistra dei valori' o di sinistra 'alternativa'. Questi sono discorsi che di fronte alla 'rivoluzione' del 4 marzo non hanno nessuna presa. Cerchiamo semmai di capire come dal marzo si possa arrivare all'ottobre.

Aginform
23 aprile 2018