Classi o "meticciato"?

Un commento di Aldo Bernardini all'articolo di Moreno Pasquinelli sul numero 50 di Aginform

Lo scritto di Moreno Pasquinelli sul n. 50 di Aginform ha suscitato talune perplessità in me e in diversi altri compagni e l’interlocuzione di Roberto Gabriele nel n. 51 è apparsa rivolta solamente a taluni aspetti di prospettiva, da discutersi anch’essi. Scontata la massima solidarietà con Moreno nella tenace, coraggiosa lotta antimperialista e per i duri costi anche personali sopportati insieme ad altri e scontata la necessità di affinare le analisi e qualche volta pure le categorie secondo le necessità e soprattutto le contraddizioni del presente, restano taluni punti fermi da riaffermare – pur se per ora schematicamente – per chi si vuole ancora comunista e più precisamente marxista e leninista, anzi – secondo il filone principale coltivato da Aginform – marxista-leninista nel senso dei grandi, veri rivoluzionari (realizzatori) del ‘900, Lenin, Stalin, Mao, Kim Il Sung e altri ancora (superando la diffidenza verso la formula m-l indotta dagli schematismi e dogmatismi di piccoli gruppi degli anni passati).

Nel testo di Moreno anzitutto non mi pare accettabile la banalizzazione della funzione dei comunisti, resi forze residuali o setta esoterica all’inseguimento di un ideale utopico. Anche se, forse con qualche contraddizione, secondo Moreno ad essi spetterebbe di “attuare uno sfondamento strategico nel ceto medio… strappare [a questo] le coscienze infelici”. Dunque, i comunisti avrebbero pur sempre una funzione attiva, di suscitatori (e il discorso sarà ripreso).

L’equiparazione sul piano storico, poi, e l’equiparata liquidazione di trotzkismo e impostazione staliniana, un’operazione anch’essa predicata da Moreno sulla base del carattere analogo della concezione delle alleanze (i fronti), al di là delle differenze circa la composizione sociale delle stesse, appare schematica e antistorica. Non è possibile mettere sullo stesso piano – e prescindo qui dalla mia valutazione di Trotzky e soprattutto dei trotzkisti come elemento, per esprimermi bonariamente, di grave disturbo nell’edificazione rivoluzionaria del socialismo in molti paesi, al di là di meriti e degli intenti di lotta sul piano sociale di singoli trotzkisti – non è possibile, dicevo, equiparare un’esperienza di mera e aspra negazione e critica, non priva talora di intuizioni, e la realizzazione staliniana, che ha creato un mondo reale basato almeno su un inizio di costruzione di una nuova società: la Costituzione del 1936, non mero pezzo di carta ma fondamento e sanzione giuridica di trasformazioni a favore del proletariato, ne è testimonianza innegabile. E l’esistenza di quel mondo reale nuovo, nel quadro di una continua titanica guerra sferrata dal capitalismo circostante, ha suscitato o favorito altre rivoluzioni, la decolonizzazione, le conquiste dei lavoratori nell’Occidente.

I comunisti non possono oggi prescindere dal riferimento a questa immane impresa storica e dall’analisi scientifica, in base ai principi di classe, del (parziale, ma ingente) fallimento e sconfitta subiti e da una relazione con le forze che a quell’esperienza si rifanno (i comunisti dell’Est e in particolare russi o sovietici).

E’ per questo che Aginform è impegnato nel “recupero” della grande figura di Stalin contro la falsificazione operata dal revisionismo e dall’attuale pensiero unico.

La rappresentazione delle classi nel mondo del capitalismo imperialistico, offertaci da Moreno, è sociologica, non strutturale, e sostanzialmente non nuova, perché di sempre è il tentativo di negare i due poli fondamentali della società in forza dell’esistenza di strati intermedi: ciò sfocia necessariamente in una prospettazione idealistica. Se non si intende male, il punto di forza “rivoluzionario” sarebbe oggi da rinvenirsi nel ceto medio, nella parte “onesta” e “sana” di questo, nelle “coscienze infelici” che aspirano a un mondo diverso e migliore. I “comunisti” dovrebbero operare su quegli strati e nel senso detto.

Ma chi sono i comunisti? Certo, i tanti, isolati o in piccoli gruppi, che hanno persistito, dopo la frantumazione seguita alla “catastrofe geopolitica” (Putin) della scomparsa dell’Unione Sovietica, nel perseguimento dell’ideale dell’uguaglianza (economico-sociale), ricollegandosi ad elementi della tradizione otto-novecentesca: ma in forme diverse, a volte contrastanti, contraddittorie e spezzettate. Ma possono a lungo sopravvivere i “comunisti”, per i quali la dimensione collettiva è essenziale, anzi costitutiva, senza l’organizzazione? Ancora: possono essere le “anime belle” e sofferenti del ceto medio il principale riferimento soggettivo di una tale azione? Non ovviamente nel senso della mobilitazione, del coinvolgimento di tali strati o “parti sane” di essi, ma per la definizione (forse, ricostruzione) di una visione comunista? No, certamente. E’ indispensabile invece ripercorrere (aggiornare) l’ analisi strutturale e, se la stella polare è la meta dell’uguaglianza economico-sociale, la leva è il riconoscimento della fondamentale polarizzazione della società, al di là delle apparenze e dei “modernismi”. Perché sta lì la radice del “male sociale” che affligge la società a livello interno e poi internazionale. Non nel peccato originale o in qualche stella maligna o in una divinità malevola, per i marxisti- leninisti. Si tratta del dominio di pochi (relativamente) sulle condizioni primarie della vita, anzi della primaria attività umana che è il lavoro, delle grandi masse: chi dipende da altri (privati), non nel puro senso gerarchico o funzionale nel suo lavoro, ma per il suo lavoro, cioè per la stessa possibilità o meno di lavorare, e quindi per la sua vita, chi non ne possiede e controlla i fattori condizionanti, e cioè i mezzi di produzione (oggi estesi a quelli di comunicazione), è proletario, anche se lo sviluppo sociale abbia portato, ma sempre sulla base dello sfruttamento delle masse anche a livello internazionale, alla formazione di una “aristocrazia” (operaia in senso ampio), impersonata oggi nella piccola borghesia. Primo ed essenziale presupposto per l’eguaglianza economico-sociale, e che di questa per i marxisti-leninisti è l’essenziale definizione (Stalin), è “l’abolizione, uguale per tutti, della proprietà privata dei mezzi di produzione” (e oggi anche di comunicazione). Il punto di riferimento oggettivo dei comunisti non può non continuare ad essere la situazione dei proletari in quanto tali: di questi fa parte (strutturalmente) anche la piccola borghesia (ceto medio almeno in gran parte) che soggettivamente però, per la falsa coscienza indotta dal sistema dominante, se ne ritiene estranea, cadendo in visioni idealistiche (e tali sono anche quelle delle “coscienze infelici”, se non riconoscono la causa strutturale, oggettiva di tale infelicità: in una situazione in cui la piccola borghesia – pur tendendo all’ideologia dei dominanti, ma in realtà a rimorchio degli interessi di questi – si impoverisce e proletarizza). Solo prospettandosi e perseguendosi soluzioni a partire dalla condizione proletaria si può (tentare di) superare l’attuale situazione sociale. Compito dei comunisti è non nascondere, bensì stimolare questa coscienza.

L’idea, puramente descrittiva, del “meticciato” sociale, di cui parla Moreno come elemento oggi dominante, spiega la difficoltà dell’azione, la confusione imperante, ma guai a fare di essa il perno fondamentale dell’ azione!

A fronte della collocazione rispetto ai mezzi di produzione (e comunicazione), la dicotomia strutturale risalta con evidenza. Gli strati cosiddetti intermedi si svelano nel loro carattere fittizio: pur se trovano radice nelle differenze di reddito e di gerarchia, essenziali per la sopravvivenza economica e sociale del sistema, e nei dati di falsa coscienza, caratteristici della piccola borghesia e che si propagano anche nel proletariato vero e proprio. Nella contraddizione fondamentale è la radice della lotta di classe, che – non va dimenticato – è anche quella condotta “dall’alto”, dai dominanti, anche con la guerra ideologica, il cui primo elemento è la negazione dell’esistenza delle classi e del loro conflitto, l’offuscamento dei dati essenziali della realtà sociale. Nella fase attuale, poi, tutta l’azione volta a comprimere i diritti dei lavoratori, con il precariato, con lo sforzo di rappresentare il lavoro nei servizi o immateriale come qualcosa di altro rispetto alla produzione. Ecco la necessità di analisi obiettiva della composizione odierna del proletariato, del significato che in questo può assumere tuttora il riferimento, nel contesto del più ampio proletariato, alla classe operaia non solo in quanto portatrice di compattezza (la fabbrica), resa oggi in parte problematica dalla progrediente frantumazione del lavoro, ma come creatrice della ricchezza sociale, prodotta socialmente ma appropriata privatamente: il che è vero anche per il lavoro immateriale. Il riferimento prioritario al ceto medio non porta avanti: anzi, significa cadere nella trappola ideologica dei dominanti. E non conduce a prefigurare l’obiettivo dell’uguaglianza economico-sociale, del superamento delle classi, esso perpetua l’ideologia piccolo-borghese e tutti i suoi equivoci. La coscienza da portare anche nel ceto medio è invece tutt’altra.

Nella questione della lotta antimperialista a livello planetario, come ci insegnano Lenin, Stalin, Mao e altri, vi è un intreccio dialettico fra lotta di classe e lotta per l’indipendenza nazionale dei popoli oppressi (oppressi e discriminati secondo il modello latamente coloniale). Come dice Mao, “solo con la liberazione nazionale il proletariato e gli altri lavoratori potranno raggiungere l’ emancipazione… Nelle guerre di liberazione nazionale, il patriottismo è quindi un’applicazione dell’internazionalismo” (Il ruolo del Partito comunista cinese nella guerra nazionale, ottobre 1938, Opere scelte, vol. II). Ma, quando parliamo di antimperialismo, dobbiamo avere chiaro che si tratta sempre dell’imperialismo definito da Lenin, quindi di uno “sviluppo” del capitalismo, e non di semplice dominio o egemonia politici. Pertanto si tratta sempre della necessità di superare la struttura capitalistica, sia pure in fasi e con modalità differenziate a seconda degli specifici livelli dello “sviluppo diseguale”. Per i popoli “coloniali” (e oggi, finita per ora l’Unione Sovietica, abbiamo una reviviscenza di ideologia razzista e colonialista nel mondo dei dominanti) risalta in prima linea il principio di indipendenza e di recupero della sovranità sulle risorse naturali. E’ questa la coscienza che devono portare i comunisti nelle masse, e quindi una coscienza di classe, che supera l’apparenza del “meticciato” e fra l’altro costituisce discrimine essenziale nei confronti di formazioni politiche che si ispirano al “socialismo reazionario” e che i comunisti possono trovare in convergenze fattuali ed obiettive sulla loro strada, ma alle quali devono sempre opporre l’ideale dell’eguaglianza economico-sociale.

Aldo Bernardini


Ritorna alla prima pagina