Americanismo,
imperialismo, fascismo

Da sempre l’ideologia dominante in Occidente condanna come convergenti l’«estremismo» di destra e l’«estremismo» di sinistra. Convinta di aver costruito il migliore dei mondi possibili, la borghesia ritiene che a contestarlo può essere solo la follia: per diversi che siano i sintomi, essi rinviano pur sempre alla medesima malattia (il disadattamento rispetto alla modernità), da cui risulterebbero affetti sia il comunismo che il fascismo. Purtroppo, sul solco di questa tradizione finisce col collocarsi anche Herbert Steeg. Egli si impegna a dimostrare la somiglianzà tra le mie posizioni e quelle della NPD, e cerca di dare una parvenza di credibilità a questo gioco delle presunte analogie e assonanze mediante strampalate ricerche su Internet di sapore vagamente poliziesco. Ma dai miei nemici (il fascismo vecchio e nuovo) io non mi faccio dettare la linea politica né positivamente né negativamente. D’altro canto, proprio perché ritengo che bisogna entrare nel merito delle questioni, non perderò tempo a sottolineare il carattere esplicitamente filo-americano e filo-israeliano delle posizioni del mio critico. La ragione potrebbe ben essere dalla parte di Bush, Sharon e... Steeg; cercherò invece di dimostrare perché tutti e tre hanno torto.

1. E’ proprio vero che l’anti-americanismo è espressione di un’ideologia torbida e tendenzialmente razzista? Uno storico statunitense dei giorni nostri ha così descritto il clima di esaltazione espansionistica che si viene a creare nel suo paese tra la fine dell’Ottocento e gli. inizi del Novecento, sull’onda della trionfale vittoria sulla Spagna: «A questo impulso prepotente sono stati dati nomi diversi: gingoismo, nazionalismo, imperialismo, sciovinismo e persino fascismo e nazismo. [Theodore] Roosevelt preferiva usare il nome semplice e per lui bello di americanismo» (Edmund Morris, The Rise of Theodore Roosevelt, Ballantine Books, New York, 1980, p. 461). Più tardi, il Ku Klux Klan scatena i pogrom e i linciaggi contro i neri (e i bianchi «traditori»), agitando la bandiera del «puro americanismo» ovvero dell’«americanismo al cento per cento». Infine, in occasione della guerra fredda il maccartismo spia, licenzia, incarcera, perseguita non solo i comunisti ma anche tutti coloro che sono sospettati di coltivare idee un-american e comunque difformi dall’americanismo autentico.

E, dunque, basta una rapida analisi storica per comprendere che è compito di ogni democratico criticare 1'«americanismo». Ma - ci assicura Steeg - negli Stati Uniti ci sono innumerevoli «persone simpatiche»: in base a questa obiezione, coloro che criticano il pangermanesimo ovvero il panslavismo o la slavofilia partono dal presupposto che tutti i germanici ovvero tutti gli slavi sono «unsympatisch»! Trovo lodevole l’impegno del mio simpatico contestatore a scovare e denunciare ogni forma sia pur vaga di razzismo, ma egli darebbe prova di maggior rigore logico se rivolgesse la sua polemica contro gli «Anti-Deutschen». Al contrario dei termini «pangermanesimo», «panslavismo» e «americanismo», che stanno a designare dei movimenti politici e ideologici ben determinati, il termine «Deutschen» indica un popolo, e prendere di mira un popolo nel suo complesso è un atteggiamento che può ben sconfinare nel razzismo.

2. Se il pangermanesimo e il panslavismo hanno cessato di dispiegare una reale efficacia storica, l’americanismo è ormai divenuto la dottrina ufficiale degli Stati Uniti che, in quanto popolo eletto da Dio, si arrogano il diritto di intervenire militarmente in ogni angolo del mondo. Questa pretesa di Washington, che suscita riserve e preoccupazioni anche in Europa, gode invece dell’appoggio entusiastico di Israele. E’ difficile negare che tra i due paesi si è costituto un asse privilegiato. E’ vero o no che, nella sua politica di occupazione e colonizzazione della Palestina, Israele può contare sull’appoggio politico, diplomatico e militare degli Stati Uniti? E’ vero o no che, nel muovere all’assalto delle città irakene ribelli, l’esercito americano può contare, come riferisce la stampa internazionale, non solo sull’esperienza ma sull’assistenza tecnica accumulata da Israele in decenni di assedio, di bombardamenti e di rastrellamenti delle città e dei campi profughi palestinesi? E chi ha consentito a Israele di procurarsi un formidabile armamento nucleare? E, anche a voler fare astrazione dal Medio Oriente, è vero o no che Israele è uno dei pochissimi paesi a rifiutarsi di condannare all’ONU l’embargo genocida che Washington impone al popolo cubano? E a minare l’autorità delle Nazioni Unite non sono in primo luogo Israele e Stati Uniti?

Piuttosto che porsi interrogativi fastidiosi, Steeg preferisce mettere in guardia contro il ritorno dell’infausto motivo dell’«imperialismo ebraico-americano». Ancora una volta, questo è l’atteggiamento di Bush e Sharon, ovviamente interessati a coniugare il terrore ideologico col terrore militare: prima di essere eventualmente bombardati, i nemici degli Stati Uniti e di Israele sono intanto scomunicati in quanto anti-americani, anti-semiti e fascistoidi. Ma tale modo di argomentare rimuove la storia reale, rimuove il fascino che il modello americano ha suscitato sulla reazione internazionale e sul fascismo. Per quanto riguarda la Germania, nel 1919 Moeller van den Bruck, uno dei profeti del Terzo Reich, celebra l'«Amerikanismus» ovvero l’«Amerikanertum», questo «grande» e «giovane principio» che, rettamente inteso, porta a prendere posizione per i «popoli giovani» e le «razze giovani» (Das Rechi der jungen Voelker, München, pp. XI e 39-40). Qualche anno dopo, con lo sguardo rivolto all’espansione nel Far West, è Hitler in persona a rendere omaggio alla «inaudita forza interiore» della repubblica nord-americana (Mein Kampf, München, 1939, p. 153). Ancora nel 1937, avendo presente soprattutto il sud dove infuria il Ku Klux Klan, Arthur Rosenberg esprime la sua ammirazione per gli Stati Uniti, questo «splendido paese del futuro»: »: esso ha avuto il merito di formulare la felice «nuova idea di uno Stato razziale», idea che adesso si tratta di mettere in pratica, «con forza giovanile», mediante espulsione e deportazione di «negri e gialli» (Alfred Rosenberg, Der Mythus des 20. Jahrhunderts, München 1937, p. 673).

3. A Steeg, che ama il gioco delle analogie, non sfuggirà il fatto che oggi è Rumsfeld a celebrare la «giovane Europa», felicemente coinvolta nel!’avventura bellica, in contrapposizione alla vecchia Europa, stanca e pacifista. Io intendo, invece, richiamare l’attenzione su un altro punto. Nell'elaborare l’ideologia Herrenvolk e nell’ereditare e radicalizzare la tradizione coloniale, il nazismo non poteva non guardare con simpatia alla schiavizzazione e oppressione dei neri e all’espropriazione, deportazione e annientamento degli indiani. E da queste pratiche il nazismo prendeva spunto ed ispirazione per rilanciare la persecuzione contro gli ebrei: non erano estranei anche loro alla razza bianca e all’Occidente autentico? Storicamente, non provenivano forse dal Medio Oriente, una regione contigua all’Africa e alla barbarie? E, dunque, senza una critica impietosa del colonialismo vecchio e nuovo non si possono fare realmente i conti con la teoria e la pratica del Terzo Reich, non si possono fare i conti sino in fondo neppure con l’infamia dell’antisemitismo.

Steeg preferisce invece prendersela con le vittime del colonialismo, col Terzo Mondo! E, nel far ciò, egli ritiene persino di potersi richiamare a Marx: non è stato lui a spiegare che il paese più industrializzato ci rivela l’immagine del futuro? Non c’è dubbio che a promuovere l’espansione coloniale sono stati i paesi più industrializzati: dobbiamo giustificare, in nome del progresso, le pratiche infami di cui essi si sono resi e si rendono responsabili? Peraltro, nei paesi assoggettati il colonialismo e l’imperialismo non promuovono affatto l’industrializzazione. Alla vigilia delle guerre dell’oppio, nel 1820, la Cina contribuiva per il 32, 4% alla formazione del prodotto interno lordo mondiale; nel 1952 la percentuale era al 5, 2%: l’incontro con l’Occidente industrializzato aveva significato un gigantesco processo di deindustrializzazione e di arretramento economico e sociale. Su scala più ridotta ciò vale anche per l’Iraq, che prima del 1991 era uno dei paesi più sviluppati del mondo arabo: l’aggressione colonialista e imperialista è una delle fonti della formazione del Terzo Mondo. Se anche sembra suscitare qualche eco simpatetica persino nelle nostre file, la riabilitazione oggi in atto del colonialismo è una paurosa regressione teorica e politica. Nell'Imperialismo Lenin riferisce che nelle Filippine la resistenza contro l’occupazione militare americana ama agitare un detto di Lincoln: «Quando il bianco si governa da se stesso, si ha l’autogoverno; ma quando governa a un tempo se stesso e altri, non vi è più autogoverno: vi è dispotismo» (Opere scelte, p. 657). Con la sua ironia sulla resistenza irakena, di fatto Steeg prende posizione a favore del dispotismo. Egli per un verso tuona contro coloro che criticano la teoria sciovinistica e reazionaria dell'«americanismo»; per un altro verso non riesce a far tesoro delle migliori tradizioni democratiche della storia statunitense. Steeg si richiama a Marx, ma forse lo confonde con Kipling, il teorico del «fardello dell’uomo bianco» e occidentale. Conduce Marx persino nelle vicinanze di Guglielmo II, che chiamava la Germania a partecipare all’espansione coloniale in nome della «liberazione degli schiavi»; è vero, oggi gli ideologi della guerra contro il mondo islamico preferiscono parlare di «liberazione della donna», ma non mi sembra una grande differenza! Agisce comunque una tradizione alle spalle di Steeg: in occasione della prima guerra mondiale, i settori più sciovinisti della socialdemocrazia tedesca pretendevano di esportare in Russia la democrazia e lo sviluppo economico-sociale, grazie all’esercito guglielmino. Sicché - commentava ironicamente Rosa Luxemburg - «Hindenburg diventava l’esecutore del testamento di Marx e Engels». Non cambia nulla se al posto di Hindenburg mettiamo Bush e Sharon ovvero i loro generali!

4. Fra le varie definizioni di imperialismo fornite da Lenin la più calzante e la più attuale è quella che lo caratterizza come la pretesa di «poche nazioni elette» di fondare il proprio «benessere» e il proprio primato sul saccheggio e sul dominio del resto dell’umanità (Opere complete, vol. XXVI, p. 403); esse si considerano come «nazioni modello» e attribuiscono a se stesse «il privilegio esclusivo di formazione dello Stato» (Opere scelte, p. 524). Oggi, avvalendosi anche del sostegno politico e ideologico di Israele, a considerarsi investiti di una missione divina di dimensioni planetarie sono solo gli Stati Uniti, che riservano esclusivamente a sé gli attributi della sovranità statale. Gli altri paesi non possono essere considerati Stati nel senso stretto del termine, tanto è vero che, in base alla dottrina Bush, possono essere bombardati, invasi, soffocati economicamente mediante l’embargo; e tutto ciò per decisione sovrana di Washington, indipendentemente dai confini statali e nazionali, dal diritto internazionale e dalle risoluzioni dell’ONU. Ma se anche sono intervenuti profondi mutamenti nella situazione internazionale, resta il fatto che la definizione leniniana appena vista di imperialismo ci consente di collegare il fattore economico col fattore ideologico e politico: il successo conseguito nello sviluppo economico ed industriale stimola o rende più enfatica l’idea di una superiorità naturale ed eterna rispetto ai paesi rimasti indietro e al resto del mondo in generale, stimola e rende più enfatica l’idea di una elezione divina; e queste idee, una volta che abbiano avvelenato l’opinione pubblica, rendono più difficile la resistenza alla politica imperialistica di dominio, di aggressione e di guerra.

Si potrebbe dire che l’imperialismo è un «processo politico-economico»; sto usando le parole di Steeg, il quale però, stranamente e contraddittoriamente, critica la mia presa di posizione contro la «visione economica» (puramente economica) dell’imperialismo. E’ giusto lasciare al mio critico il tempo necessario per chiarirsi le idee. Per quanto mi riguarda, io su questo punto non ho dubbi. L’economicismo è fonte di disastri. L’avvento del nazismo al potere non comportava il mutamento della struttura capitalistica della Germania, sicché il dogmatismo era incline a mettere sullo stesso piano le diverse espressioni politiche della realtà economica e della borghesia tedesca. Ma, a partire almeno dal 1933, divenne chiara per tutti i comunisti e antifascisti la tragica novità che era intervenuta: Hitler è la guerra! Negli Stati Uniti e in Israele il sistema capitalistico si presenta stabile e vitale, ed è ovviamente in questo terreno che affondano le loro radici l’ideologia e la pratica dell’imperialismo. Ma, ancora una volta, sarebbe una follia mettere sullo stesso piano di Bush e di Sharon quei gruppi che, pur senza superare l’orizzonte borghese, cercano comunque di resistere coraggiosamente, in condizioni assai difficili, all’ondata sciovinistica e guerrafondaia che sta travolgendo i due paesi e che minaccia la pace nel mondo.

Domenico Losurdo


"Popoli oppressi unitevi"?, Leggi lo scritto polemico di Steeg contro Losurdo

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