Comunisti iracheni

La linea di condotta

La resistenza irakena contro gli aggressori invasori occupanti ha impedito e impedisce il consolidamento dell’occupazione militare e incarna la continuità dello Stato irakeno, che non può considerarsi "debellato", come invece la Germania nel 1945. Pur operando dalla clandestinità e in attesa che si formi un fronte nazionale, è questa resistenza che esercita l’autodeterminazione irakena e impersona la legittimità. Essa risulta da gruppi diversi e anche da contributi esterni, ma è verosimile che un nucleo fondamentale sia stato preparato in precedenza soprattutto da quadri del Baath e dallo stesso Saddam Hussein, se ricordiamo dichiarazioni e proclami di questo prima dell’ingresso in clandestinità. La sua cattura, avvenuta in circostanze dubbie, ha fatto di Saddam Hussein un prigioniero di guerra, ma non ne ha potuto provocare formalmente la destituzione dalla carica di capo dello Stato. (Incidentalmente, va ricordato, di fronte al moralismo astratto e ipocrita dei Fassino, Bertinotti, ecc., che Saddam Hussein ha dato a suo tempo una lezione di vera moralità rifiutando l’esilio dorato che gli era stato offerto prima dell’aggressione, per consentire così un’invasione "pacifica" dell’Iraq).

Se questo è il quadro giuridico di base, è del tutto evidente che già solo per motivi di legalità internazionale qualunque democratico dovrebbe appoggiare la resistenza. Ovvio che la lotta contro l’invasione è poi lotta contro l’imperialismo, e questo costituisce motivo fondamentale per i leninisti: a prescindere in principio da qualunque pretestuosa indagine su fini, qualità, caratteri dei gruppi che ne fanno parte o la realizzano.

Tanto più ormai che, come leggiamo nella dichiarazione del Partito comunista di Iraq (quadri), i comunisti irakeni, distaccandosi dal gruppo di dirigenti collaborazionisti che essi qualificano come traditori, e come del resto conferma uno dei loro esponenti, Ahmed Karim in un’intervista del 27 ottobre 2003, partecipano alla resistenza e rigettano anche l’intervento ONU (cioè, in nome ONU). Questo intervento costituisce il rifugio di tutti i revisionisti e riformisti, anche di coloro che chiedono il ritiro delle truppe di invasione o comunque di quelle italiane. A parte l’irrealismo della proposta (gli Stati Uniti non accetterebbero mai una presenza in nome ONU se non collaterale e di copertura), l’art. 78 della Carta N.U. vieta forme di amministrazione fiduciaria (e dunque in ogni caso internazionale) su uno Stato membro quale è l’Iraq. Un’amministrazione (occupazione) c.d. ONU ripeterebbe, in presenza della resistenza irakena, i caratteri di illiceità e precarietà dell’attuale occupazione da parte della coalizione e qualunque processo istituzionale ed elettorale instaurato in Iraq nel quadro c.d. ONU avrebbe carattere "fantoccio". Non si tratterebbe, nonostante le conclamazioni contrarie, di autodeterminazione irakena, che resterebbe incarnata nella resistenza: l’amministrazione c.d. ONU avrebbe il compito di combattere e porre fine alla resistenza, e ciò sarebbe assolutamente contrario al diritto internazionale. E’ semplicemente assurda la posizione espressa ad esempio dal DS di destra Umberto Ranieri ("Repubblica", 17 febbraio 2004) per cui il ritiro dei militari potrebbe creare "un vuoto nel quale a prevalere sarebbero i terroristi e i nostalgici di Saddam": a parte la perla dei "terroristi" (Ranieri non si riferisce certo al terrorismo di Stato americano!), nessuno, e certamente non l’ONU, ha il diritto di escludere una forza come il Baath dalla vita politica irakena. Quando si fanno affermazioni del genere, in realtà si approva l’aggressione e se ne accettano i reali motivi e i "risultati". Naturalmente, è poi del tutto inutile ricordare ciò che il quadro ONU ha rappresentato di nefasto per l’Iraq (embargo e tutto il resto).

Di conseguenza, vanno rigettate le posizioni che invocano il ritiro delle truppe di (attuale) occupazione per consentire l’ingresso dell’ONU (che è poi la posizione del PdCI, di RC, dei Verdi, della Sinistra DS …) e quindi un ruolo di questa "maggiore" o "centrale" ai fini, come si dice, del passaggio della sovranità al popolo irakeno: nulla deve "passare", la sovranità è nella resistenza. Alla luce di queste considerazioni, l’ipotesi di "resistenza pacifista", agitata da "Liberazione" del 10 febbraio in un colloquio con il "comunista" collaborazionista Latif Al Saadi, mostra tutto il suo ridicolo, ma anche il carattere di diserzione dalla lotta antimperialista, anzi di collaborazione con l’imperialismo, quale ogni revisionismo in definitiva comporta. Tutto ciò non è certo smentito dalla grottesca posizione espressa da Fausto Bertinotti ("Liberazione", 18 febbraio 2004) che appoggia la resistenza palestinese (ma non se ne era distanziato a seguito di attacchi definiti "terroristici"?) in quanto ne condivide gli obiettivi, ma sostiene che: "con la resistenza irakena questo non è possibile. Come ci hanno insegnato gli zapatisti, si impugna il fucile per poi deporlo il prima possibile, altrimenti non è il fucile ad essere una protesi del corpo ma è il corpo che diviene una protesi del fucile". Veramente suggestiva questa immagine della protesi! Ma perché gli irakeni non vorrebbero deporre questa protesi il prima possibile, e cioè con la liberazione dall’occupazione straniera, come i palestinesi da quella israeliana? Da che cosa Bertinotti desume una differenza? Si tratta di dichiarazioni estemporanee dettate dalle opportunità del momento. Ma di tutto fa giustizia la dichiarazione che pubblichiamo a fianco: essa è nettissima, tanto nei confronti dei collaborazionisti quanto di qualunque ipotesi di ingerenza ONU. Per questo siamo incondizionatamente a fianco della resistenza irakena.

Aldo Bernardini

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