I cent'anni del 'Che fare?'

L’unico compagno, a quanto ci risulta, che ha commemorato il centenario della pubblicazione dello scritto di Lenin, 'Che fare?', è stato Domenico Losurdo nell’ultimo numero dell’Ernesto. Non si è trattato di una celebrazione rituale (che sarebbe stato un pessimo servigio al grande dirigente bolscevico) ma di una forte e argomentata ‘rivendicazione di modernità’ di quella celebre opera. Su un versante opposto, i comunisti rifondati, ricordiamolo ancora, al loro Congresso hanno ‘fatto i conti’ con il leninismo suscitando l’entusiasmo di Ingrao che li ha pubblicamente lodati per il ‘coraggio’ dell’esplicita abiura. Ma che bel coraggio! Questi comunisti critici ci fanno venire in mente Erostrato, cittadino della Grecia antica, il quale, per raggiungere notorietà ed accreditarsi come eroe, incendiò il tempio di Artemide.

Il 'Che fare?' non è il tempio di Artemide ovviamente, ma ciononostante neanch’esso merita di essere dato alle fiamme. Non lo merita perché, accanto ad indicazioni contingenti che valevano per il periodo storico del momento (l’esistenza di una selvaggia sanguinaria autocrazia in uno sterminato paese che non aveva mai conosciuto neanche un simulacro di democrazia politica) ne contiene altre, di indicazioni, che, passate indenni al vaglio della storia, hanno assunto il carattere di verità universali, e che per questo riescono a mantenere intatta la loro attualità. Ma anche la figura (eroica) del ‘rivoluzionario di professione’ delineata dal 'Che fare?' "costretto a nascondere la propria identità ai nove decimi degli iscritti all’organizzazione" una simile figura - dicevamo - era indispensabile a tenere unito un partito rivoluzionario in un clima di stretta clandestinità. E così pure il richiamo al ‘centralismo’ che provocò accuse a Lenin di praticare la ‘dittatura nel partito’ rappresentava l’unica risposta realistica e dunque concreta agli Ingrao russi dell’epoca i quali, ammaliati dalle regole di vita interna della socialdemocrazia tedesca, avanzavano, nelle ‘tenebre dell’autocrazia’, la ridicola rivendicazione del ‘principio di una larga democrazia’ (ciò che avrebbe consentito alla polizia di operare vaste retate e devastare tutta la rete cospirativa).

Ma veniamo all’oggi. Senza teoria rivoluzionaria può un movimento rivoluzionario essere condotto alla vittoria? La risposta a questa domanda cruciale posta per la prima volta da Lenin fin dal 1902, dovrebbe essere data (in senso negativo) più agevolmente (molto, molto più agevolmente) nella nostra epoca, a un secolo di distanza dalla sua formulazione, quando concrete rivoluzioni armate guidate da concreti partiti comunisti hanno "sconvolto il mondo". Se studiamo (riflettiamo a fondo su) le due principali rivoluzioni, quella russa e quella cinese (la seconda incomparabilmente più lunga, e quindi più ricca e complessa della prima), è la storia stessa di quegli eventi, della loro straordinaria mutevolezza e tortuosità, che dà ragione all’autore del 'Che fare?' E nel momento in cui le rivoluzioni fanno procedere gli avvenimenti "con la velocità della locomotiva" soltanto i partiti comunisti hanno dato prova di saper tenere dietro alla storia. Le Tesi di aprile, la firma della pace di Brest-Litovsk, il passaggio dal comunismo di guerra alla Nuova politica economica, e successivamente da quest’ultima all’industrializzazione e collettivizzazione dell’agricoltura attraverso i Piani quinquennali (ciò che creò le basi della vittoria sul nazismo); o ancora, la straordinaria scelta tattica del fronte unito antigiapponese che indusse il Partito comunista cinese (all’indomani stesso della controrivoluzione del 1927) ad allearsi al Kuomintang di Chang Kai Shek (boia e sterminatore di comunisti), per poi, una volta sconfitte le armate nipponiche, rompere tempestivamente quest’alleanza per marciare alla conquista del potere politico in tutta la Cina e scaraventare a mare la banda criminale del ‘generalissimo’ Chang: non si compendia forse, in queste scelte tattiche dei bolscevichi e dei comunisti cinesi, scelte operate sui campi di battaglia, l’audacia, la spregiudicatezza, il senso della storia nonché la capacità di trascinare dietro di sé tutti gli strati rivoluzionari della città e della campagna?

Lenin definì "infantile" la malattia "estremista" del comunismo agli albori della prima rivoluzione proletaria vittoriosa, cioè nel 1920. A giudicare dalla storia degli ‘estremismi’ via via manifestatisi ed organizzatisi successivamente (a partire dal più celebre di tutti, il trotskismo) sarebbe forse più aderente alla realtà paragonare quella malattia politica al morbo di Alzheimer piuttosto che alla scarlattina. Pensate: i comunisti critici della nostra epoca intendono rifondare il comunismo,ma, per farlo, devono negare la storia delle rivoluzioni proletarie ed i grandiosi insegnamenti (positivi e negativi) che dal loro studio - per motivi eminentemente pratici - dovremmo derivare: far tesoro dei successi conseguiti e imparare dagli errori passati per evitare di commetterne in futuro. Come si possono educare le giovani generazioni al disprezzo della nostra storia e della Teoria che da quella storia (vale a dire da una prassi rivoluzionaria secolare) ha tratto alimento e si è enormemente arricchita? Il 'Che fare?' fu, in sostanza, una requisitoria contro il ‘culto della spontaneità’ e rileggendolo oggi scopriamo la sbalorditiva attualità di quella requisitoria e le radici ideologiche comuni ai movimentisti del 1902 e ai rifondatori del 2002. Quel libro di Lenin fu anche, per usare l’espressione di un filosofo contemporaneo - Gadamer - un elogio della teoria. Naturalmente, cambiano le epoche, le condizioni storiche, i linguaggi, le culture ecc. ecc. Ma in un movimento comunista che intende conquistare il potere per espropriare gli espropriatori e fondare una nuova società, le divergenze ideologiche tra opportunisti e rivoluzionari - che hanno profonde radici nella società classista - sono, in ultima analisi, sempre le stesse. Si presentano con modi, forme, linguaggi nuovi, ma sono sempre riconducibili (fintantoché la società borghese non sarà superata) a due - sostanzialmente - visioni contrapposte e inconciliabili, una opportunista e una rivoluzionaria. In questo secolo trascorso dal 'Che fare?' ad oggi il capitalismo ha consolidato il suo dominio e, come dice Gagliano in questa stessa pagina, ‘le quote di vita e di decisione collettiva recluse in un simile itinerario (la globalizzazione ndr) fondano il carattere della proprietà privata su una immensa espropriazione, consegnando alle catene del salario ogni tipo di subordinazione nel processo produttivo generale. La base di massa della rivoluzione si è enormemente estesa’. Non c’è più analfabetismo di massa, strati sociali sempre più vasti e colti sono stati sospinti ad odiare il capitalismo tanto quanto lo odiano i comunisti. E certo non si può pretendere che tutti abbiano una visione marxista di questa società e di come cambiarla. E’ ipotizzabile che un processo rivoluzionario anticapitalista veda la presenza di più soggetti politici interessati al rovesciamento dell’orrenda società borghese. Potrebbe non essere un unico intellettuale collettivo a dirigere una rivoluzione ma, forse più realisticamente -date le condizioni storiche profondamente mutate delle classi subalterne - un insieme di più soggetti (un collettivo di intellettuali - per usare un’espressione speculare). Questo si può capire (del resto in tutte le rivoluzioni i comunisti hanno sempre trovato dei compagni di strada disposti a seguirli). Pensiamo alle assisi di Porto Alegre o di Firenze, cioè ad un inedito movimento mondiale unito dall’odio e dal disprezzo dello stato di cose presenti, ma che esprime al contempo un forte pluralismo di idee, culture, ‘anime’. Che è certamente una ricchezza, una grande opportunità per il movimento di progresso contro la barbarie del dominio borghese. Questo non deve indurci però a camuffarci nel grande movimento, quasi a vergognarci di essere comunisti (sì, d’accordo, senza vergognarsi ma anche senza nessuna fierezza, poiché c’è poco da essere fieri dopo il crollo di quel famoso Muro). Si dice che i no-global costituiscono un movimento autocentrato (?) ma non autoreferenziale (?), si dice che il grande prestigio di cui gode Rifondazione comunista in questo movimento è dovuto al fatto che c’è un’identificazione totale sui contenuti, che questo prestigio è dovuto al fatto che non si è posto il problema dell’egemonia. A chi chiede, magari timidamente e con una certa cautela: "ma allora qual è il ruolo che in questo movimento dovrebbe svolgere un partito comunista?", si risponde con tono altezzoso che i comunisti non devono mettere il cappello sui movimenti, che non serve isolarsi in un nocciolo identitario eccetera. Insomma, camuffiamoci! Del nostro bagaglio storico e teorico non ce ne frega niente. Lenin diceva che la sottomissione ai movimenti altro non era che un testimonium paupertatis, un certificato di povertà, uno scaricare sul movimento la propria incapacità a battersi per affermare una posizione comunista, per spingere in avanti le contraddizioni. Egli affermò anche che ‘quanto più grande è la spinta spontanea della masse, quanto più il movimento si estende (…) tanto più aumenta il bisogno di coscienza nell’attività teorica’. I comunisti rifondatori, ribaltando questo punto di vista, sostengono che se c’è il movimento è inutile che ci mettiamo a fare i comunisti, perché c’è un’identificazione totale sui contenuti. Come si vede, si tratta di due visioni inconciliabili. Ecco perché i movimentisti del 2002 intendono, entusiasmando Ingrao, ‘fare i conti’ con il leninismo e dare alle fiamme il 'Che fare'.

Amedeo Curatoli

Ritorna alla prima pagina