Palestina
Due popoli - due stati?

«Due popoli due stati». Da molti anni a questa parte è stata la parola d’ordine che sembrava mettere tutti d’accordo e sistemare ogni cosa. L’essenza del "processo di pace" che tutti, dalla destra alla sinistra, sembravano auspicare.

Se ne parla ancora e se ne parlerà, anche se nel frattempo il grande capo bianco che siede a Washington ha chiarito che lo "stato" palestinese, se mai ci sarà, avrà per modello le riserve indiane degli USA, ma con meno diritti per gli "indigeni" e comunque sarà provvisorio e dunque sempre revocabile - proprio come la attuale "autonomia" - e presieduto da capi indigeni assolutamente sicuri, controllati al cento per cento dalla CIA/Mossad.

Andando un po’ indietro nel tempo - cosa sempre utile in tempi di azzeramento della memoria - si può notare che la consegna dei "due popoli due stati" è stata sentita fin dall’inizio in modo assai diverso dai palestinesi da un lato e dalla "sinistra" dei paesi occidentali dall’altro.

Per i palestinesi si è trattato di un passo indietro, di una rinuncia pesante alla rivendicazione di un unico stato democratico e libero di Palestina in cui tutti avessero lo stesso diritto di cittadinanza, rivendicazione che non faceva altro che raccogliere l’eredità dei movimenti democratici dell’occidente, dell’illuminismo e della rivoluzione francese e della spinta decisiva alla liberazione dei popoli venuta dalla Rivoluzione d’Ottobre. Un passo indietro reso necessario, come argomentavano i suoi sostenitori, dalla cruda realtà dei rapporti di forza e per questo accettato alla fine, sia pure con molti dubbi, anche dalle componenti di sinistra della resistenza palestinese.

Per i "pacifisti" e i "progressisti" dei paesi imperialisti la percezione di questa pesante rinuncia è stata invece quasi del tutto assente: si raggiungeva finalmente la possibilità di mettere insieme una qualche parvenza di giustizia per i palestinesi con la legittimazione di Israele, ritenuta dai più necessaria e auspicabile mentre è proprio quello che, oggi più che mai, è necessario rifiutare. Lasciamo ad altri l’arduo compito di esplorare il legame, sotterraneo o palese, cercato o subíto, tra questo modo di sentire dei progressisti nostrani e quello, certo più pragmatico, dei dirigenti imperialisti americani, per i quali "raffreddare" in qualche modo la questione palestinese è utile tatticamente per non esporre oltre misura all’ira popolare i regimi arabi clienti e passare nei modi più convenienti al dominio militare diretto del Medio Oriente iniziato con la guerra del Golfo e da portare ora alle estreme conseguenze con l’invasione già in calendario dell’Iraq.

Già da questa duplicità di lettura si poteva vedere, fin da subito, tutto il marcio e la truffa dietro la retorica dei "due popoli - due stati". L’altra circostanza che doveva mettere in sospetto era la sincronia tra l’accettazione di quella prospettiva da parte palestinese e il processo controrivoluzionario mondiale determinato dal crollo sovietico.

Comunque sia, a mettere le cose in chiaro ci hanno pensato Sharon e Perez e prima di loro per dieci anni i negoziatori israeliani e palestinesi.

Dopo dieci anni di negoziati, Israele aveva lasciato alla "autonomia" palestinese (così autonoma da non poter scavare neanche un pozzo senza l’assenso delle autorità israeliane) il 18 per cento della Cisgiordania (che è a sua volta il 22 per cento della Palestina non occupata nel 1948) e il 60% della striscia di Gaza. La vita dei palestinesi era decisamente peggiorata anche rispetto al regime precedente di occupazione diretta. Gli insediamenti per soli ebrei (le colonie) con rifornimenti d’acqua sette volte più abbondanti dei villaggi contigui erano raddoppiati. Centinaia di chilometri di strade per soli ebrei (per collegare tra loro gli insediamenti senza passare per i villaggi-ghetto palestinesi) facevano chiaramente intendere dove si andava a parare. In Israele del resto è considerato normale discutere in pubblico sull’opportunità o meno di "trasferire" i palestinesi al di là del Giordano o altrove, insomma di "ripulire" l’area dalla loro presenza e si possono anche pubblicare tranquillamente appelli allo sterminio come dovere religioso.

L’elenco potrebbe continuare e sarebbe lungo. In ogni caso sono cose note e ben documentate per qualsiasi osservatore onesto, nonostante il fiume della propaganda di tutti i maggiori mezzi di comunicazione americani, europei e della neofita Russia dei Berezovsky e dei Gusinsky.

Non ci si può stupire dunque se anche i dirigenti palestinesi più disponibili al compromesso al ribasso con Israele e ad appoggiarsi agli americani (e tra questi Arafat) si siano trovati in difficoltà. Israele è passata subito all’incasso del riconoscimento senza vere contropartite da parte dell’OLP e di alcuni governi arabi, ma si è ben guardata da parte sua dall’adempiere a quella parte della risoluzione 242 dell’ONU che impone la restituzione dei territori occupati fin dal 1967, per non parlare della risoluzione 194 sul ritorno dei profughi. I dirigenti palestinesi sono stati ingannati dagli americani a cui si erano appoggiati. Alla fine, nonostante tutti i cedimenti, non hanno potuto accettare quella resa completa che Barak e Clinton gli chiedevano nel luglio 2000 e che la propaganda israeliana ancora adesso presenta come la "generosa offerta" che Arafat avrebbe colpevolmente rifiutato.

Cadute le illusioni di compromesso, alle masse palestinesi non è rimasta che la via della lotta. La lotta di un popolo praticamente disarmato contro un esercito abituato ormai da tempo a reprimere gli "indigeni" con i metodi del colonialismo più brutale. Sappiamo tutti cosa è successo e cosa sta succedendo: complice un sistema di informazione planetaria pervertito e una fase imperialista pregna di genocidio, uno degli eserciti più forti del mondo, comandato da un criminale patentato come Sharon (quello di Qabya e di Sabra e Shatila) ma insieme dal "premio Nobel per la pace" Perez (quello di Cana), è passato dal tiro a segno contro bambini armati di sassi e manifestazioni di massa all’assassinio sistematico dei dirigenti più autorevoli, dai bombardamenti con gli F 16 e gli elicotteri Apache contro i centri abitati alle operazioni militari su larga scala con fucilazioni, deportazioni, torture sistematiche, feriti e mutilati a migliaia e insieme la distruzione mirata delle strutture della vita civile: abbattimento di alberi, distruzione delle condotte dell’acqua, avvelenamento delle falde, la vita quotidiana resa impossibile, l’affamamento della popolazione.

C’è chi - per ignoranza o complicità con i sionisti - parla ancora di "spirale della violenza", mettendo i contendenti sullo stesso piano, condannando gli attacchi suicidi che fornirebbero pretesti ai sionisti, consigliando azioni non violente. Come se i palestinesi non avessero già provato di tutto, compresa l’esperienza decennale della "pace" di Oslo. Come se la riduzione del popolo di Palestina a un popolo di rifugiati e disperati fosse iniziata ieri e non più di cinquant’anni fa.

Il fatto è che a togliere la vita ai palestinesi c’è qualcosa di assai peggiore di una occupazione e alla fine, volenti o nolenti, è con questo che non solo le vittime palestinesi ma tutti dovremo fare i conti.

Il problema è lo stato sionista di Israele, non solo la politica di Israele o la politica di Sharon, come dicono tanti, ma proprio Israele, la natura e la funzione di questo stato che è l’ultima creazione coloniale dell’occidente e anche tra le peggiori. A questo stato non si può riconoscere nessuna legittimità. Questo stato che si pretende "moderno" e "democratico" si basa su un presupposto razzista inaccettabile nel mondo moderno. Lo sciagurato mito sionista della "terra senza un popolo" pronta a ricevere un "popolo senza terra" ha prodotto la pulizia etnica del 1948, la "Nakba" o catastrofe del popolo di Palestina. Ma è una catastrofe che continua, come si vede ancora oggi. Lo stato sionista rifiuta anche solo di trattare sul ritorno degli abitanti originari (semmai lo considera un problema dei bantustan in cui confinare gli indigeni rimasti) mentre favorisce l’immigrazione di milioni di persone sulla base di criteri di "ebraicità" (tra l’altro quanto mai dubbi come nel caso dei russi) o anche solo per sostituire la manodopera locale (con cinesi, tailandesi e quant’altro). La discriminazione tra ebreo e non-ebreo è elemento costitutivo e fondante. Contestare la legittimità di uno stato di questo tipo non può essere un elemento accessorio, che si può abbandonare per calcolo di opportunità politica. E non ci si può nemmeno fermare con atteggiamento reverenziale (come è avvenuto in questi mesi da noi) di fronte alle comunità ebraiche trasformate in altrettante casse di risonanza dello stato di Israele e divenute centri di attività squadristica. Purtroppo (e purtroppo anche per gli ebrei) l’identificazione di sionismo e giudaismo propugnata dai dirigenti sionisti ha avuto partita vinta quasi dappertutto e i dissidenti - quelli veri non quelli alla Gad Lerner - sono stati ridotti al silenzio.

Questo stato-mostro non è solo un problema per le sue vittime immediate, cioè per i palestinesi. E’ un problema assai più grosso, per due motivi. Primo perchè gode di una rete di sostegno e complicità planetaria che passa per i gangli vitali dell’imperialismo e secondo perchè, proprio per questo filo diretto che lo collega con l’imperialismo, svolge una funzione fondamentale nella guerra imperialista.

La prospettiva ravvicinata nel Medio Oriente è la guerra israelo-americana per il controllo diretto di tutta la regione con la forza militare (l’invasione dell’Iraq). L’asse Bush-Sharon è in piena evidenza e nessuna speculazione è più lecita sulle divergenze strategiche o tattiche tra israeliani e americani o sulle diversità di accento nella stessa amministrazione USA. La dimensione di genocidio propria della colonizzazione sionista della Palestina si dilata a dismisura nel massacro in atto degli iracheni (attraverso il decennale embargo) e con la esplicita minaccia di olocausto nucleare. La preparazione psicologica di massa per lo sterminio è in uno stato ormai assai avanzato con la costante demonizzazione e campagna di odio, in cui Israele gioca un ruolo fondamentale, contro il nuovo nemico: l’islamico fanatico ed estremista.Nel contesto di una guerra che incendi tutto il Medio Oriente, Israele si prepara a svuotare del tutto la Palestina dei suoi fastidiosi abitanti originari.

Di fronte a una situazione di questo tipo non sono ammissibili i tentennamenti e le scappatoie. La eccezionale volontà di resistenza dimostrata dalla gente di Palestina ha bisogno della generale mobilitazione antimperialista, a cominciare dai paesi arabi, contro Israele e contro gli USA, non certo delle litanie sui due popoli e due stati.

Paolo Pioppi

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