Lotte operaie e direzione politica

Un fatto qualitativamente nuovo si è inserito nel panorama politico e sociale italiano. Dopo anni di ritirata dovuta alle modifiche dell’organizzazione del lavoro salariato e al trionfare di un modello di relazioni sociali definito neoliberista, è rispuntata la vecchia talpa delle lotte operaie. I tre punti qualificanti di questa ripresa hanno avuto il volto degli autoferrotranvieri, dell’Alitalia e di Melfi. Tre situazioni diverse, ma legate dal filo rosso dell’attualità economico sociale che attraversa la condizione di classe. Il salario, la chiusura dei posti di lavoro, la logica del nuovo sfruttamento in fabbrica.

Queste lotte hanno certamente lasciato il segno, sedimentando non solo un allarme per i padroni e i loro rappresentanti politici, ma anche un'aspettativa per il futuro. Il merito di ciò che è accaduto va attribuito interamente alle migliaia di lavoratori e lavoratrici che hanno sfidato precettazioni, atti repressivi e interventi polizieschi riuscendo a realizzare risultati concreti.

Certamente, nessuno degli obiettivi è stato raggiunto interamente. Il salario degli autoferrotranvieri non è stato certamente commisurato all’impegno nella lotta, nè la mancata liquidazione dell’Alitalia può dirsi un risultato pieno dati i pesanti progetti di ristrutturazione. A Melfi il risultato è stato, sulla questione dell’adeguamento salariale, modesto. La cosa importante, però, è che si è consolidato politicamente il risultato delle lotte, che non c’è stata sconfitta e che, entro certi termini, i padroni hanno subito l’iniziativa dei lavoratori. E’ un risultato grosso se si paragona alla stagnazione dell’ultimo decennio e che deve spingerci non a cadere nella retorica operaista, ma a individuare esattamente le ragioni oggettive dei fatti e le indicazioni che ne scaturiscono.

Intanto partiamo dai dati oggettivi. Le ragioni dello sontro. Si è trattato di questioni diverse, ma nell’insieme rappresentano la condizione operaia di fase: il salario, la liquidazione del sistema produttivo, la nuova condizione operaia di fabbrica. A questo elenco manca solo il precariato come forma ormai strutturale del sistema produttivo. Quest’ultima questione non è marginale perchè, se non si chiude il cerchio delle lotte, non si stringe il padronato da tutti gli angoli del sistema produttivo, si creerà una via d’uscita che indebolirà l’intero fronte di classe. Tuttavia, i casi di cui stiamo parlando rappresentano un modo qualitativamente nuovo e avanzato di fare i conti con l’avversario. Si passa dallo sciopero rituale e anche dalla protesta di base, all’organizzazione di una lotta frontale per raggiungere l’obiettivo. Colpire duro per ottenere il risultato.

Le condizioni di classe maturate in questi ultimi anni, per la durezza che le hanno caratterizzate, hanno prodotto sicuramente un indurimento nell’atteggiamento dei lavoratori verso il padronato e su questo livello occorre piazzare un’ipotesi di lavoro e una strategia politica. L’ipotesi di lavoro riguarda innanzitutto l’organizzazione e la continuità di un certo tipo di lotte. Le dimostrazioni generiche o generali di protesta hanno fatto il loro tempo. La radicalità ‘sindacalista’, espressione del cobasismo diffuso, non è più adeguata a condizionare le conclusioni delle vertenze. A questo ci sta pensando, semmai il sindacalismo confederale e la CGIL in particolare. Non è la pressione sui confederali della ‘base’ più o meno strutturata in un nuovo sindacalismo vertenziale, e spesso solo virtuale, che può modificare la situazione. Solo l’apertura di uno scontro vero che metta in crisi, con una coscienza diretta dei lavoratori, il controllo realizzato dal padronato in questi anni sulla forza lavoro, può essere incisiva. Lavorare quindi per individuare e consolidare i veri punti di scontro, ci sembra la ricerca da fare, al di fuori di ogni retorica.

In questo contesto occorre però introdurre un altro concetto, la politica come riferimento e parametro dello scontro.

Abituati all’anarco-sindacalismo di stampo sessantottino o al neovertenzialismo di quello che viene definito sindacalismo di base, per capire i termini generali e la tattica da seguire dobbiamo compiere un salto di qualità e portare la politica nelle lotte.

Che cosa significa questo? Per i comunisti non è difficile capire questo passaggio. Essi sanno che gli esiti di uno scontro non si definiscono solo sul programma di lotta, ma dai rapporti di forza sul terreno di classe e su quello dei rapporti politici e con le istituzioni borghesi. Magistratura, polizia, isolamento delle lotte, solidarietà e comunicazione politica dei contenuti delle medesime, sono fattori che intervengono e contribuiscono a determinare il risultato.

Quindi, nella valutazione dei vari fattori e nella determinazione del punto di massima forzatura dello scontro, la direzione politica della lotta diventa essenziale. Non abbiamo bisogno di nuove sconfitte, dopo tutte quelle subite a partire dagli anni ’80. Più che all’esempio dobbiamo puntare agli effetti. Per risalire la china non ci servono i trombettieri, ma una vera organizzazione di classe e una buona direzione politica delle lotte.

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