Comunisti per forza

Per individuare le prospettive politiche dell’area che si definisce comunista, dopo il congresso del PRC, dobbiamo tornare ad analizzare ciò che è avvenuto in questo congresso e interpretarne i risultati.

Alcune cose sono scontate, la vittoria non proprio brillante dell’area bertinottiana, il carattere maldestro delle forzature finali del segretario del partito, che hanno portato anche la Rossanda a risentirsene e l’emarginazione di un buon quaranta per cento dell’organizzazione dalla gestione del potere interno. Ma se questi sono i dati noti, qual’è il succo politico che se ne ricava? Per dare risposte a questo dobbiamo ritornare su alcune questioni di cui Aginform si è occupata in questi anni e che ci hanno attirato anche le critiche di compagni che giudicavano eccessivi e/o strumentali i nostri giudizi.

Prima questione, il carattere non comunista del PRC. Nonostante gli sforzi di nascondere questa verità dietro la parola ‘rifondazione’, alla fine Bertinotti ha chiarito il senso di questa rifondazione: fuori e contro la tradizione storica del movimento comunista per riaffermare posizioni e concetti tipici di una socialdemocrazia ‘radicale’ che cerca di mascherare con fraseologie nuoviste la propria povertà strategica e la propria subalternità istituzionale.

Non vogliamo, ancora una volta, gridare al tradimento, perchè a ben vedere, come non si può cavare il sangue da una rapa, così non si può rimproverare ai fondatori del PRC di aver tradito la causa comunista. Ma quando mai sono stati comunisti costoro? Tutta la vicenda dell’opposizione alla trasformazione del PCI in PDS, da Cossutta in poi non ha mai avuto caratteristiche comuniste. L’alternativa su cui si è giocata la partita è stata tra un tardo togliattismo usurato dal tempo e un adeguamento ad esigenze di espressione ideologica della nuova sinistra di cui Bertinotti, dobbiamo riconoscerlo, è stato il cantore più sofisticato politicamente.

Quindi il congresso ultimo di Rifondazione ha portato chiarezza su questo. Il PRC è ormai, con tutta evidenza ,un coacervo di ceto politico, radicale nelle parole, maprofondamente istituzionale nei fatti, da cui il pensiero e la pratica comunista sono espunti.Se c’è bisogno di un esempio ulteriore di questa verità basti vedere la trasformazione di Liberazione in giornale di opinione senza legami organici coll’organizzazione e con un’abbondante pubblicità di banche e enti pubblici.

Questo è ormai chiaro - si dirà - ma rimane una grossa fetta di opposizione all’interno del PRC. Intanto bisogna dire però che la chiarificazione sul PRC non è avvenuta subito e senza polemiche. Chi ha sempre sostenuto, come noi, che il PRC non poteva considerarsi un partito comunista è stato trattato con sufficienza, come se non capisse la ‘grande politica’.

Ritornando alla questione dell’opposizione interna, di quella che ha raggiunto complessivamente il 40% dei consensi congressuali, quali considerazioni possiamo fare, in particolare sulla fetta più consistente che si raccoglie attorno alla rivista l’Ernesto?

Su questo mettiamo in chiaro una questione: i numeri vanno interpretati politicamente, per quello che rappresentano nei contenuti e per le prospettive che aprono. Sui contenuti si riapre la vecchia questione storica. Come è venuta fuori la differenziazione tra Bertinotti e le sue opposizioni interne? A ben vedere si è ripetuta la vecchia storia tra PCI e PDS. Lo spostamento radicale del PCI socialdemocratico a PDS ha provocato la nascita del PRC, senza nessuna proiezione strategica comunista. Anche nel PRC si è manifestato lo stesso fenomeno. Le girovolte bertinottiane hanno rotto l’idillio di una maggioranza di cui i seguaci dell’Ernesto facevano parte e che la rapidità dell’offensiva del subcomandante Bertinotti ha messo in crisi. Nessuna proiezione strategica di tipo comunista, dunque, ma nicchia culturale da gestire nel mondo del ceto politico.

Tutto scontato dunque? Non è questa la conclusione che dobbiamo trarne, anzi, paradossalmente, dobbiamo invece capire che l’esito del congresso del PRC, come precedentemente le svolte bertinottiane, hanno lasciato libero un terreno su cui si sono attestate forze culturali e di ceto politico che non sono organiche al bertinottismo e che tenderanno a creare l’illusione di una reazione ‘comunista’ a queste posizioni. Queste forze che si compiacciono di definirsi di ‘movimemto’ sono l’ultima stazione di quella via crucis che riporta la critica all’esistente dentro il circuito istituzionale di cui rappresentano, a vari livelli, la coscienza critica. Per anni queste forze sono vissute nel ventre molle del sistema culturale della sinistra, spesso coccolati e periodicamente riassorbiti. Per ‘essere comunisti’ non basta criticare, molto tardivamente e tiepidamente Bertinotti. Bisogna parlare di modelli organizzativi, di riferimenti teorici fondamentali, di impostazione tattica e strategica nella lotta contro l’imperialismo e la borghesia. Il ‘comunismo’ in salsa italiana ha ben poco a che fare con tutto questo.

R.G.


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