Bertinotti e l'Europa

di Massimo Piermarini

Com’è possibile essere comunisti oggi, a più di dieci anni dalla caduta del Muro? E’ una domanda importante cui il segretario di Rifondazione cerca di rispondere come può. Quel che appare chiaro è che la soluzione (o meglio la non-soluzione) che propone è segnata dalla distanza abissale non soltanto dalla storia del movimento comunista così come il Novecento ce la consegna, ma dal marxismo stesso.

Malgrado le buone intenzioni, Bertinotti non è marxista e la sua teoria del comunismo come prospettiva, come insieme di valori deve più a Pietro Ingrao che a Karl Marx.

Non si chiede come mai il movimento operaio internazionale si sia inabissato e continua a ragionare come se il Pci esistesse e, con esso, le strutture tradizionali del movimento operaio, partito, sindacato, cooperative. Non ha colto, cioè, il cambiamento completo non soltanto di stile e di politiche ma di obiettivi strategici che il movimento operaio egemonizzato dal revisionismo ha consumato negli ultimi decenni, diventando spesso, in Europa, una sinistra filo-imperialista, cioè una ex-sinistra.

La debolezza del suo impianto concettuale balza agli occhi leggendo i suoi recenti testi e interventi. Qualche citazione dai Grundrisse, rimasticata e assolutizzata, decontestualizzandola, per dimostrare l’errore che il comunismo novecentesco avrebbe compiuto e che Bertinotti ha finalmente scoperto: la rivoluzione comunista non può essere che mondiale!

L’orchestra suona sempre la stessa sinfonia, direbbe qualcuno, tra il pubblico. Dare il primato all’idea di libertà rispetto a quella di uguaglianza - dopo averle nettamente e astrattamente distinte, è opinabile dal punto di vista marxista e allora Bertinotti cosa fa, sorpassa lo stesso pensiero liberale, e la pone come fine e come mezzo. A parte un tenue riferimento al Manifesto, i suoi riferimenti non vanno oltre il socialismo liberale dei Rosselli e le amenità sulla libertà dell’ "Altro".

Insomma l’ennesima riproposizione della pappa umanistica, spacciata per marxismo. La stessa prospettiva di emancipazione dalla proprietà privata si compie per Bertinotti soltanto con il superamento della società divisa in classi in una "comunità" (e non nella società socialista organizzata come fase inferiore del processoo di transizione al comunismo).

Altro riferimento portante del discorso sulla libertà di Bertinotti è l’opera di Della Volpe, cioè a dire l’equivalente filosofico, in Italia, dell’ortodossia kruscioviana, programmaticamente revisionista. Della Volpe liquidò il materialismo dialettico, cioè l’arma della rivoluzione proletaria, per costruire una logica come scienza positiva (sperimentale-galileiana), che sacrificava completamente il nocciolo razionale della dialettica hegeliana in nome di una visione empirista ed eclettica della realtà, tipica del revisionismo.

Su questi presupposti è chiaro che il giudizio storico-politico di Bertinotti sul socialismo reale è netto e - aggiungiamo - perfettamente in linea con il verbo trotskista.: queste società si sono "mantenute molto lontane dalla realizzazione di questi fondamenti della liberazione umana", generando "forme di oppressione"

Ma le ragioni del carattere oppressivo delle società del "socialismo reale" vanno ricercate nello stesso pensiero di Marx che B. suddivide in "comunismo ideale", che com’è noto, si libra nei cieli del Padre Etere, nelle esperienze statuali post-rivoluzionarie dal 1917 in poi (guai a chiamarle rivoluzioni socialiste!) e, infine, nella storia complessiva del Movimento operaio e dei movimenti sociali delle nuove soggettività (tanto cari a Pietro Ingrao e al gruppo del Manifesto).

Il fallimento dei paesi dell’Est non è dunque per B. una sconfitta, ma si profila fin dall’inizio dell’esperimento sovietico come inevitabile ed è causato dal vuoto del pensiero di Marx sul tema della libertà, anzi da "vuoti che hanno aperto dei varchi a quegli errori che poi si sono manifestati". Per quanto riguarda il comunismo ideale (che si libra nei cieli…), si segnala la presenza di grandi pensatori comunisti che hanno attraversato il secolo. Nella serie, che inizia con Gramsci, Lenin occupa soltanto l’ultimo posto e sembra quasi figurare come un epigono di Trotskj. Il Sessantotto sconfitto ha chiuso una porta all’evoluzione del pensiero marxista. Naturalmente neppure un cenno è dedicato negli interventi di Bertinotti alla Rivoluzione Culturale Cinese, ritenuta di minore importanza di un campionato regionale di hockey sul ghiaccio.

Ma la rassegna delle mende del pensiero di Marx, dei suoi "deficit" non finisce qui. Si lamenta la mancanza di un paradigma di genere, ossia il riconoscimento della questione femminile, e di una teoria dello stato (chi non ricorda sul tema gli articoli di Bobbio, eminente esponente del liberalsocialismo del Partito d’Azione, su "Mondo operaio"?).

E, naturalmente, applicando alla storia il criterio del Re buono e della Regina cattiva, "quel vuoto ha permesso che lo si potesse riempire di materiali cattivi", cioè che si esercitasse la dittatura proletaria, gravemente lesiva della "tutela dei singoli individui", a cui B. sembra tenga molto. Gli sembra infatti prioritario costruire una teoria dello stato, della legalità e della democrazia. Naturalmente ciò ha significato che lo stato, la legalità socialista e la democrazia proletaria vigenti per decenni nei paesi socialisti siano stati per B. soltanto fumo e lo siano ancora nel caso della Cina.

D’altra parte, qual è la ricetta proposta, a livello europeo, contro la disuguaglianza che si viene accentuando a livello mondiale? Non il socialismo, ovviamente, ma la ripresa dello "stato sociale", cioè una qualche versione del keynesismo, un riformismo che non si ritiri dalla frontiera dell’uguaglianza e tenga conto della pratica sociale di "diversi soggetti", cioè le lotte delle "nuove soggettività" (di ingraiana memoria) con cui chi pensa alla trasformazione deve unirsi.

Questa stessa ricetta è quella giusta per l’Europa di domani, che dovrebbe divenire, secondo gli auspici di Bertinotti, un "soggetto politico".

Egli sembra avvertire la difficoltà, in epoca post-moderna, di usare la categoria del soggetto. Poteva confrontarsi con il maggior tentativo, nel Novecento, di dare una risposta al problema del Soggetto a partire dalla concezione marxista e rispondendo all’appello implicito nell’articolazione concettuale del "Capitale" di Marx, al di là dell’"ortodossia" della II Internazionale. Cioè con il leninismo. Ma l’argomento viene liquidato con qualche battuta. Il tribunale bertinottiano della politica condanna la storia, cioè il 1917 e la teoria del socialismo in un solo paese, e preferisce una storia "fatta con i se" alla storia effettuale, reale. E dove va a ricercare i presupposti per una ricostruzione della soggettività politica? Nella filosofia umanistico-storicista dei valori europei, della "civiltà", a prescindere da ogni analisi dei rapporti di forza, cioè dei rapporti tra le classi a livello europeo. E’ ciò che gli rimprovera - giustamente - Hermann Schmid su "Liberazione" del 24 dicembre (che riportiamo in questa stessa pagina), notando che Althusser arrivava a considerare tale "pensiero di unità e totalità" "non marxista, non scientifico e idealistico". Ma tant’è. Bertinotti rinnova la sua ardente fede nel marxismo umanistico, nel gramscismo, capace di battere sia la deriva economicistica che quella "militare" (termine con il quale evidentemente intende riferirsi all’esperienza russa del 1917…).

Su questa falsariga sciorina citazioni e riferimenti, non sempre puntuali.

E’ singolare, ad esempio, che tra le due possibilità interne all’opera di W. Benjamin, Bertinotti citi soltanto quella "messianica", omettendo quella critico-scientifica, fondativa delle categorie della "teoria critica della società".

Se è vero, com’è stato detto, che le Tesi sulla filosofia della storia di Benjamin cantano l’inno mortale del soggetto scomparso, è anche vero che per Benjamin "La lotta di classe, che è sempre davanti agli occhi dello storico educato su Marx, è una lotta per le cose rozze e materiali, senza le quali non esistono quelle più fini e spirituali" (Tesi sulla filosofia della storia.4.) Cioè in Benjamin l’atteggiamento del ricercatore è quello del materialista, che appare scientificamente e umanamente più fruttuoso di quello idealistico.

In Bertinotti, per il quale il marxismo sembra essersi fermato agli anni ’40 dell’Ottocento, privato della teoria dello stato e della rivoluzione socialista, succede il contrario. Le sue concessioni al pensiero della "differenza", che la fece da padrone negli anni ’70, non si confrontano con le riflessioni di Deleuze o di Derrida, ma si modulano su quelle ingraiane delle nuove soggettività e della cultura di genere. E la sua idea di Europa si fonda sulle componenti culturali del cristianesimo, dell’illuminismo, del marxismo (sia pure pluralizzati). Cioè su sovrastrutture, secondo l’impostazione dell’idealismo storiografico.

Un idealismo storiografico che si rovescia inevitabilmente in idealismo politico, cioè nell’affermazione che, malgrado la realtà di sfruttamento da cui è nata e che la costituisce, l’Europa è sinonimo di civiltà e di democrazia e in essa è stato possibile "l’ingresso delle masse nella democrazia, la conquista di un potere contrattuale dei lavoratori, lo stato sociale". Ma cos’è la civiltà, il progresso? Bertinotti denuncia il pericolo di una grave regressione civile prodotta dalla globalizzazione capitalistica. Ma dov’è questa civiltà? Sulla base di quali fatti essa si manifesta? Non lo sappiamo e non lo sapremo mai, perché nel suo intervento non v’è neppure l’accenno di un’esame della formazione economico-sociale e dei rapporti sociali che scaturiscono da essa, presentandosi secondo determinati rapporti di forze. Lenin direbbe "Questo è il contrassegno più evidente della metafisica, dalla quale incominciava ogni scienza: finchè non si riusciva a intraprendere lo studio dei fatti, si inventavano sempre a priori delle teorie generali, sempre rimaste infeconde" (Che cosa sono "gli amici del popolo" p.24). E lo stesso Althusser è chiamato in causa a sproposito ("Umanesimo e stalinismo" non riabilita il soggetto, ma afferma soltanto che gli agenti assumono la forma di soggetti in qualità di individui agenti nella pratica sociale, mentre il processo di produzione e riproduzione, la formazione sociale, rimane per Althusser, un "processo senza soggetto né fine").

Bertinotti sceglie dunque di battersi per l’Europa del dover-essere senza analizzare realisticamente l’Europa effettuale, fatta di guerre e di dominazioni imperialistiche, di attacchi missilistici, di bombardamenti sui civili, occupazioni e devastazioni di territori. Come scriveva Lenin nel 1915 "Dal punto di vista delle condizionieconomiche dell’imperialismo, ossia dell’esportazione del capitale e della spartizione del mondo da parte delle potenze coloniali ‘progredite’ e ‘civili’, gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari […] Il tempo in cui la causa della democrazia e del socialismo concerneva soltanto l’Europa, è passato senza ritorno".

Pensare nelle condizioni presenti, che, malgrado le "meraviglie" della "rivoluzione capitalistica", rimangono determinate dalla presenza dell’imperialismo (oggi ai danni non soltanto dei paesi extraeuropei, ma anche dell’Europa orientale) ad una sinistra alternativa che, prendendo ad esempio la rivolta di Seattle, sappia lavorare ad un progetto di un’altra Europa, di un’Europa che sia una soggettività politica organizzata della sinistra alternativa, è soltanto l’ennesima dimostrazione di un idealismo politico duro a morire, della volontà di rovesciare l’ordine delle cose sulla sua stessa base, mutare gli effetti senza mutare la causa.

Massimo Piermarini

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